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 2014  dicembre 27 Sabato calendario

PUPI AVATI: «CAPODANNO CON I TUOI»

Pupi Avati non è fatto per i Capodanni da trenini e cotillons, più in generale è schivo rispetto alla mondanità romana. «Non è sempre stato così. All’inizio mi piaceva il mondo del cinema, lo apprezzavo così tanto che passavo le serate nelle terrazze e negli splendidi salotti ad ascoltare artisti che ammiravo. Il giorno dopo ripetevo le loro idee, avevo in bocca le stesse parole. Mi omologavo, perdendo la mia identità. Così ho scelto di percorrere la mia strada in solitudine ». Valeva, a maggior ragione, il 31 di- cembre: «È la notte più brutta dell’anno, lo so perché ho lavorato come musicista in moltissimi veglioni. Cercano tutti di divertirsi a tutti i costi, man mano che il tempo passa vedi crescere l’angoscia negli occhi. E poi realizzano che la serata è finita e non è successo niente di quel che avevano sperato». Così l’ultimo dell’anno, dopo il brindisi casalingo, Avati esprimerà, in vista del 2015, «lo stesso augurio, la stessa preghiera che faccio ogni sera prima di dormire. Riguarda la salute dei miei cari. Poco tempo fa ho vissuto un grande timore per un mio nipotino. Ho avvertito la potenzialità di un dolore che può distruggere una famiglia».
«Da giovane — sorride — chiedevo riconoscimenti di carriera. Poi ho visto un grande autore come Federico Fellini, che negli ultimi anni era molto infelice. Gli dicevo: “ma la sera quando vai a letto non ti basta pensare ‘io sono Fellini’ per sentirti appagato?” Lui non ne teneva conto. Oggi mi dispiace che la mia famiglia sia stata ostaggio della mia carriera: se va bene ne godi tu, se va male ne soffrono tutti».
Le feste di questo 2014 che si va chiudendo, per il regista bolognese sono state un momento di riflessione. «La situazione del paese è così grave e dolorosa che non si può sfuggire a un senso di destino collettivo. Nell’investimento economico e creativo dei doni si è stati più prudenti e pudichi. Gli stessi bambini sono diventati più consapevoli e misurati. Questa grande crisi ha almeno ristabilito la giusta graduatoria dei valori delle cose. Un necessario risveglio dalla grande ubriacatura che per molti anni ha accompagnato quelli della mia generazione». I suoi natali da bambino «erano di un essenziale straordinario. Perché l’essenziale può essere straordinario, quando i genitori sanno renderlo tale ». S’illumina raccontando: «Il primo albero di Natale della mia vita era adornato di mandarini. A Bologna non c’erano i festoni d’oro, ma c’erano i mandarini. E il presepe. La prima Vigilia che ricordo è quella dello sfollamento, a Sasso Marconi. Avrò avuto sei anni. Eravamo tutti nella casa di campagna, mio padre e mio nonno nascosti per non essere rastrellati dai tedeschi e spediti in Germania. Quella notte s’infagottarono e andarono a Bologna per procurare le statuine di San Giuseppe e l’asinello che mancavano al presepe. Fu una dimostrazione di arditezza e affetto da parte di mio padre, non è mai stato coraggioso. Tornarono con il bottino e completammo l’interno della grotta, sotto l’albero dei mandarini». Tra i riti casalinghi e bellissimi, «c’era la processione in casa: mia sorella, la più piccola, precedeva la famiglia con le candele in mano e il bambinello. A mezzanotte lo mettevamo nella capanna. Era un Natale a costo zero. Ma prezioso. Oggi mi resta l’immagine corale in cui i miei cari erano presenti all’appello». Se quella Vigilia fu un incanto, il pranzo del 25 fu miracoloso. «Si organizzava di nascosto, perché il comando dei tedeschi era vicino. Durante il banchetto si presentò una persona fuggita dai campi di concentramento in condizioni terribili. Aveva attraversato mezza Europa ed era arrivato a Sasso Marconi. Le dita dei piedi erano congelate, camminava con i piedi avvolti in fagotti di stracci. Più tardi si innamorò di mia zia e entrò a far parte della nostra famiglia». La meraviglia delle feste s’è persa un po’ negli anni. «Nella casa di Todi ho fatto costruire un tavolo con trentadue posti, ora sono diventati tanti, troppi». Il più bel dono ricevuto «fu un proiettore cinematografico a manovella con un pezzo di pellicola ad anello, il Robin Hood con Erron Flynn che saliva sulla torre per salvare Marian e arrivato in cima ricominciava da capo». Il più bello che lui ha regalato ai figli è stato «il primo computer Texas, quando il personal computer era una cosa rara. Poi a un certo punto ho capito che quello che regalavo non veniva indossato, usato, letto. Piaceva più a me che ai destinatari. tanto che i figli un giorno mi dissero: “Papà ma perché non ci regali i soldi?” E così all’albero dove una volta c’erano i mandarini ora ci sono buste con assegni di varia entità. È diventato così il nostro Natale».
Pupi Avati al cinema ha raccontato le feste di fine anno con Regalo di Natale e La rivincita di Natale, «in cui realizzai l’albero più bello, con un telecomando che faceva scendere la neve». Il suo classico preferito è La vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra, «lo rivedrei tutte le sere: mi rassicura e non mi annoia mai». La fine dell’anno, a Bologna, era il momento dei film in prima visione, «sale da 1.600 posti, gremitissime. S’entrava a metà spettacolo, si stava in piedi o si occupavano i posti con i cappotti. E si facevano risse per sedersi. C’era ancora quella disinvoltura, quella cialtroneria che il cinema merita». Sullo schermo i film «ci portavano in un altrove, con Ester Williams, Fred Astaire e Danny Kaye. Fuori da una Bologna ancora triste dopo la guerra, con gli odori della fame e della paura». I film di allora «erano senza volgarità, con una proposta di bellezza che era condivisa. Prenda le commedie di Natale: io non le faccio, perché oggi mirano solo a fare i soldi».