Notizie tratte da: Lady Ottoline Morrell # I ricordi di una signora meravigliosa # Castelvecchi Roma 2014 # pp. 286, 22 euro., 26 dicembre 2014
Notizie tratte da: Lady Ottoline Morrell, I ricordi di una signora meravigliosa, Castelvecchi Roma 2014, pp
Notizie tratte da: Lady Ottoline Morrell, I ricordi di una signora meravigliosa, Castelvecchi Roma 2014, pp. 286, 22 euro.
Mio padre è morto nel dicembre del 1877. Suo cugino, il quinto duca di Portland di cui mio padre, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato il successore, morì esattamente due anni dopo. Se l’ordine di questi eventi fosse stato l’inverso e mio padre fosse vissuto fino a diventare il duca di Portland, ciò che tutti si aspettavano da sempre, essendo molto più giovane del cugino, le cose sarebbero state molto diverse per mia madre e per molti versi anche per noi tutti. Ma gli eventi non capitano secondo i desideri dei mortali, che devono invece sottomettersi e adattarsi al corso degli accadimenti.
«Papà è morto. Questo significa che non tornerà più», e improvvisamente, per la prima volta presi coscienza della mia esistenza separata, realizzando magari che anch’io un giorno sarei morta finendo nell’oblio».
Mio fratello maggiore, che ora era diventato il duca di Portland, aveva quasi ventidue anni. Sarebbe stato molto difficile per qualunque ragazzo di ventidue anni ereditare un’ingente ricchezza e il titolo di duca senza diventare altrettanto consapevole della propria importanza. Il mondo si precipitò ai suoi piedi; donne affascinanti gli sorridevano e lo abbordavano; le madri tramavano per accaparrarselo per le proprie figlie; le belle donne lo invitavano; aveva ogni tipo di possibilità; lord Beaconsfield lo invitava da Hughenden come cugino del suo vecchio amico lord George Bentinck e lo chiamava il «suo giovane duca».
In cucina i polli dell’ultimo duca venivano perennemente fatti arrostire su uno spiedo, un pollo dopo l’altro, di modo che semmai egli ne avesse fatta richiesta ce ne sarebbe sempre stato uno appena arrostito e pronto per essere mangiato. Da questa cucina, il cibo veniva fatto scendere attraverso un ascensore dentro un carrettino riscaldato che correva, spinto da un uomo, lungo dei binari attraverso un passaggio sotterraneo fino alla casa; un metodo di trasporto che credo sia ancora in funzione.
Giungemmo a casa attraverso dei passaggi sotterranei. Da questi passaggi iniziava il tunnel percorribile a piedi, lungo circa un chilometro e mezzo e grande abbastanza per due o tre persone che camminavano fianco a fianco; il tunnel portava dalla casa alle stalle e ai giardini e, parallelo ed esterno ad esso, passava un altro tunnel, più malridotto, usato dai giardinieri e dagli operai. Questo perché il duca non voleva incontrare qualcun altro che camminasse nel tunnel insieme a lui.
Non ho ricordi di me stessa felice a Welbeck allora, o della luce del sole. L’aria, lo so per certo, era sempre fredda, scura e malinconica. L’ultimo duca aveva decapitato tutti gli alberi, con l’idea, si diceva, che questo li avrebbe fatti crescere in una forma migliore, e questi poveri alberi privi di testa mi sembravano esprimere l’intima nudità del luogo. Mi sembrava fosse un posto svuotato di ogni tenerezza e mistero.
I teatri erano il mio grande divertimento: il primo spettacolo dove mi portarono fu I fratelli corsi, in cui recitava Irving. Credo avessi sei anni, ma come è vivido ancora oggi il suo ricordo! L’adorabile scena del duello sulla neve, davanti a due cancelli di ferro; con Irving che si toglieva il cappotto, restando con la sua bella camicia di lino e gettando una grande borsa di seta verde a uno dei suoi aiutanti. Mi portarono poi a vedere Sarah Bernhardt in FrouFrou e sento ancora la sua voce lontana, languida, malinconica, cantilenante e la vedo alta e magra nel suo lungo vestito di seta nera con uno strascico pieno di fronzoli. Ovviamente andammo a vedere tutte le opere di Gilbert e Sullivan. Credo che fu alla prima di Patience che incontrammo Oscar Wilde, con un grande girasole all’occhiello, che lasciava di corsa il palco per raggiungere Whistler, che aveva già preso posto nel palco centrale vicino al palcoscenico, con i guanti bianchi, un bastone e una ciocca bianca che riluceva tra i suoi riccioli lunghi e scuri.
«Misura la tua vita dalle perdite e non dalle acquisizioni, Non dal vino bevuto, ma da quello rovesciato, Perché l’amore si rafforza nel sacrificio, Perché colui che ha sofferto di più, ha da dare di più».
Credo che ogni ragazza abbia improvvisi e tempestosi attacchi di miseria e disperazione. I miei mi colpivano scuotendomi con tale violenza che desideravo ardentemente di morire. Di solito bastava un lieve disaccordo con mia madre per dare libero sfogo a questi flussi di disperazione. Ne ricordo uno, che avvenne a Pau, dove trascorremmo un inverno, ma questo ebbe una causa più definita di tanti altri. C’era uno sportivo francese, piccolo e noioso, di nome conte J. de M., un amico di lady Howard de Walden, che stava nel nostro stesso hotel. Questo conte francese dimostrò un’attenzione particolare sia verso di me sia verso mia madre e spesso mi prestava i cavalli per una passeggiata. Un giorno, mia madre mi accusò con tono severo di flirtare con lui. Fu come se fossi stata accusata della più scandalosa immoralità e fui sopraffatta dalla disperazione. Mi inginocchiai davanti al letto in preda a un pianto incessante e inconsolabile. Da allora il povero conte non ottenne più da me molti sorrisi.
Ovunque regnava il silenzio. La battaglia per la vita di mia madre era giunta alla fine. Giaceva lì, quieta, parlando con difficoltà, seguendomi con lo sguardo in giro per la stanza. Pensando di farle piacere, e come forma di penitenza per la passata scortesia, indossai uno dei vestiti di mussola comprati a Parigi con nastri color giallo e malva, e mi fermai dove potesse vedermi, baciando quella cara mano, che avevo stretto e baciato così tante volte. Venni ricompensata da un sorriso. Ma gli occhi guardavano ora al di là del vestito di mussola. Quello cui guardavano li rendeva infinitamente tristi e infinitamente dolci. Fu l’ultimo sguardo di tenero amore che mi capitò di vedere per molti anni. Come allora a lei mancarono le parole, così ora mancano a me, ma quegli sguardi vivranno in eterno.
Lo scopo di mio fratello maggiore era che la sua famiglia fosse il suo vanto, ma non considerò mai che dovesse esserci una qualche distinzione intellettuale o non convenzionale. Le sue carrozze dovevano essere le più alla moda d’Inghilterra, la sua caccia doveva essere la migliore d’Inghilterra, i suoi postiglioni dovevano essere i più eleganti, anche meglio, così sperava, di quelli di lord Lonsdale. E sua sorella? Era all’altezza di tutto ciò? Perché indossava quei vestiti così antiquati? E perché era sempre così spettinata? E perché in generale si comportava in modo così strano? Una volta mi vide sul treno a Retford o in una qualche stazione sulla linea per Worksop in una carrozza di terza classe stipata all’inverosimile. Capii dal suo sguardo che ero nei guai. Quella sera venne nella mia stanza dicendo che desiderava parlarmi. «Vi sarei grato se in futuro viaggiaste in prima classe, perché non avrei piacere che si dica che mia sorella non ha abbastanza soldi per viaggiare in prima classe». Dopo quell’episodio, quando mi trovavo vicino a Worksop, iniziai a cambiare il mio biglietto dalla terza alla prima classe.
Le lezioni sulla Bibbia: quando arrivò il giorno, scesi in una delle stanze più basse della casa e lì trovai un piccolo gruppo di giovani provenienti dalle stalle, dai boschi, dai giardini e dalla residenza, che mi aspettavano. All’inizio ero così nervosa che facevo fatica a parlare e quasi svenni dal terrore. Penso di non aver più provato durante il resto della mia vita nessun’altra sensazione pari al terrore di quel momento. La mia bocca era così secca per il nervosismo che non riuscivo a dire una parola. Ricordo che era circa il 18 gennaio, perché scelsi come argomento la conversione di san Paolo. Ma poi andai avanti, tenendo lezione ogni domenica e dopo un po’ di tempo ci vedemmo direttamente nel mio salotto. Credo gli piacesse, dal momento che il loro numero aumentava; venivano giovani e meno giovani e infine la classe arrivò a più di sessanta studenti, cosa che rese la mia stanza affollatissima e terribilmente calda.
Ero ossessionata dal pensiero di dover realizzare qualcosa in futuro e che il tempo che stavo vivendo era solo una preparazione per qualcosa di ulteriore; questo mi rendeva quasi interamente distratta dal presente, tanto da essere veramente incapace di godere un qualche piacere che potesse esserci in esso.
Fu una delle mie cugine, Hyacinth Bentinck, che mi invitò ad andare con lei nel convento di Truro. Non ne avevo molta voglia; credevo infatti che sarebbe stato molto malinconico, ma invece da quella visita nacque l’amicizia con madre Julian, una delle persone che ho amato di più in vita mia. Nel ricordo, mia cugina viene meno e rimane solo la piccola, gracile figura di madre Julian, che quasi scompariva nel suo voluminoso vestito da monaca: la candida benda intorno al volto, i polsini bianchi, le lunghe dita, il viso estremamente rugoso e morbido, con quegli occhi meravigliosi, piuttosto pallidi e diversi da tutti gli altri occhi che abbia mai visto. Avevano conosciuto ogni gioia e dolore della vita, vedevano ancora la luce e provavano ancora amore e riverenza. La sua presenza sembrava irradiare un potere spirituale amorevole e armonioso.
Libertà Non ricordo in che anno misi piede per la prima volta nella terra della libertà. Ero così radicata nella vita di Welbeck, stanca e malata per via delle mie lezioni e dei miei bei lavori, senza però procedere in nessuna direzione. Fu la mia vecchia governante, la signorina Craig, che si era affezionata a me e che di tanto in tanto andavo a trovare, che mi disse improvvisamente: «State deperendo. Dovete andare all’estero. Dovete andar via».
Venezia. Ho ancora vivi i ricordi dei suoi tramonti e delle grandi chiatte che scivolavano nelle luci della sera, cariche di melograni e uva, del Giorgione e di tutti gli altri luminosi dipinti, delle isole lontane che emergevano dall’acqua come lucenti gigli rosa.
Italia Il sentimento di essere in una terra ricchissima, con la sua profusione di doni naturali, viti e olivi, aranci e cipressi alla luce del sole, ricca delle azioni dell’uomo dai tempi dei Romani fino a Garibaldi, azioni buone e cattive, ma tutte importanti, compiute tutte nell’arena al cuore del mondo; e ancora, anche più eterna di tutte queste imprese, c’è un’altra progenie di questa ricca terra, di questa figlia viziata degli dèi: l’Arte, che sembra essere spuntata dalla terra negletta e spontanea, come un germoglio quasi istintivo; prodotto dell’agonia o della gioia serena, essa è pur sempre l’espressione di tutte le più raffinate emozioni del cuore umano. Botticelli e Mantegna, Michelangelo, Piero della Francesca, Leonardo: i loro lavori non sono semplicemente l’immagine in cui si riflette la vita, ma l’intensa espressione della loro visione della vita, della bellezza e della religione. Non è meraviglioso che io, povera, ignorante e affamata nel corpo e nella mente, avessi indugiato su questa ricca terra, per essere imbevuta fino all’ultima goccia del suo spirito?
Roma Le donne romane, con i loro neri capelli arricciati raccolti sulla testa, sedevano fuori dalle loro case mangiando grosse fette di anguria, mentre le bucce rosee si ammucchiavano ad ogni angolo della strada. Il solo cibo di cui avevamo bisogno erano i fichi purpurei e le pesche mature che si compravano in ogni stazione.
Più andavo avanti nella vita, incontrando sempre più persone, e più cresceva in me la passione per la conoscenza; volevo comprendere, imparare e fuggire dal mio confuso mondo di ignoranza, in cui mi sentivo così timida e affamata, per entrare in quel mondo selvaggio dove mi immaginavo che le persone potessero vivere liberamente e con fiducia.
Oxford Quando percorrevo in bicicletta le sue strade deserte con i libri in uno zaino sulle spalle; le sere estive, poi, me ne andavo in bicicletta nella campagna intorno. Ricordo ora il delizioso profumo, nelle notti d’estate, dei gigli nei giardini delle villette, come se si diffondesse lì per me.
Da Palermo ci spostammo per fare una gita nelle parti più selvagge della Sicilia: a Segesta, il grande tempio che si staglia solitario in cima a una collina nella campagna selvatica e desolata; a Selinunte, il tempio che una volta era lì e che giace ora a terra, come se fosse stato abbattuto da un gigante. Le colonne si ergono come enormi gambe sulla sabbia dorata del litorale, circondate da papaveri vermigli e bianchi asfodeli, con il mare azzurro che bagna la piana sabbiosa, color dell’oro. È commovente vedere quelle colonne indifese, ormai inutili, che stanno lì, al livello del mare.
È davvero commovente trovarsi nei posti dove è stata vissuta un’esistenza frenetica, terribile e tragica, folle e gioiosa; ora però tutto è passato, finito, lasciandosi dietro solo gusci vuoti, coperti dalla vegetazione e dai vaghi pensieri dei visitatori. Quanti veramente provano qualcosa o sono commossi dalle esistenze che sono state vissute così appassionatamente in queste rovine circa duemila anni fa?
Scendemmo a Villa Adriana, le cui rovine sono così vaste che quel luogo splendido avrebbe potuto ospitare una città: la sale, i cortili, le camere private, la fontana e i giardini di quella che era stata la stanza del tesoro di quel Cesare coltissimo, ora non sono altro che rovine diffuse impercettibilmente ovunque. Lì si ergeva la villa, costruita non da ricchi volgari e ignoranti, ma da un uomo il cui gusto poetico e sensibile aveva raccolto i fiori esotici e meravigliosi dell’arte e della bellezza cresciuti in Grecia, Egitto e Asia Minore; tutto adesso è andato, tutto è stato distrutto, solo i lillà e gli usignoli sono rimasti per parlare di questa bellezza. Camminando su queste rovine, trovammo una torre diroccata che si affacciava sulle terrazze e sulla campagna. Sedemmo lì per delle ore, scambiandoci parole e pensieri. Gli usignoli cantavano, il profumo dei lillà e delle rose selvatiche si spandeva tutt’intorno.
Ci sposammo l’8 febbraio del 1902, a St. Peter’s Eaton Square. La mia famiglia non si oppose; credo in realtà che fossero sollevati per il fatto che non avevo scelto un uomo delle caverne come marito. Una delle mie cognate mi disse che aveva fatto «un sogno orribile»: Philip era un radicale. Povera piccola, non sapeva neanche che al sogno corrispondeva la realtà. Uno dei nostri punti di incontro, infatti, fu che sia io sia Philip eravamo quelli che venivano definiti dei «radicali».
Il viaggio di nozze è mai un momento incantevole, come sembra indicare il nome? Dubito che lo sia per chiunque abbia compiuto i venticinque anni. Bisogna liberarsi delle vecchie abitudini costruite durante la vita trascorsa in solitudine, iniziare a adattarsi e, per una persona seria e inquieta, questi primi giorni di vita insieme assumono un’importanza esagerata, si osserva al microscopio ciò che unisce e ciò che divide, e se non si trovano corrispondenze in ogni singola cosa, l’intero futuro sembra essere a rischio. Piccole vicissitudini, anche quelle riguardanti dei nuovi vestiti o un nuovo paio di scarpe, tendono a rendere quei giorni disagevoli e strani. C’è così tanto da imparare sul proprio nuovo compagno e in realtà su se stessi in queste nuove circostanze, considerando come uno osservi se stesso con gli occhi dell’altro.
Varrebbe la pena avere il dono di riuscire a guardare attraverso gli anni a venire e immaginare quali personaggi reciteranno nel piccolo teatro della propria vita? Non se ne ha mai consapevolezza al primo incontro. Un personaggio fa la sua apparizione inaspettata e reciterà una parte importante, compiendo pochi gesti, qualche commento, per poi scomparire; e l’uscita è per sempre.
Se Charles Conder avesse potuto essere qualcos’altro, oltre che pittore, sarebbe stato un cantastorie. Quando guardava il mondo che lo circondava, aveva una sua visione, deliziosa e fantastica. Se andava in un hotel a Brighton, sedeva alla finestra tutto il giorno a dipingere senza interruzione, ma nessun altro a Brighton vedeva quello che lui vedeva e ritraeva, un fregio di belle signore in rosa, blu e verde, che camminavano in riva al mare con i parasole, con le onde che si infrangevano ai loro piedi e forse una sirena che emergeva dall’acqua per salutare le sue sorelle sulla terraferma. Conder, dimentico di bere e di mangiare, allestì il suo cavalletto e iniziò subito a farmi un ritratto, vestita con una lunga mussola bianca e trascorsero così molte ore in quel verde paradiso. Il ritratto che abbiamo si aggiunge al mio ricordo, ma solo a noi parla di quel ragazzo incantevole con quella sua gioia fiduciosa, la sua felicità e l’allegria di quel giorno d’estate, le statue sull’erba, i filari di alberi di tiglio.
«Stella cara, cantatemi L’heure exquise», diceva rivolgendosi alla moglie. «Stella, posso avere dei soldi per i colori?»; «quanto ti serve, piccolo Conder?»; «oh, posso avere una sterlina?»; «no, Conder, ho solo dieci scellini». E alla fine se ne andava via con quelli in mano, tutto soddisfatto. Stella gli era devota e lo capiva, aiutandolo a smettere di bere. Un giorno, quando si ammalò e quasi perse i sensi, il dottore disse: «Dategli un brandy». Lui aprì gli occhi e disse: «No, sono astemio».
La sera andavamo in un elegante café, dove c’erano dei balli spagnoli. La prima volta che entrammo, tutte le persone che erano già dentro si alzarono en masse e corsero verso la porta per vedere quegli strani personaggi appena arrivati. Si accalcarono tutti intorno a noi. Sul cappello portavo una piuma arancione, una moda ancora sconosciuta in Spagna. Il padrone del locale si affrettò a raggiungerci e disse con molto tatto: «Il caffè ora è pieno, dovreste ritornare più tardi». Avemmo la felice idea di ritornare in hotel, dove posai il cappello e indossai al suo posto una mantiglia di pizzo nero. Tornammo quindi al café, entrammo senza farci prendere dall’agitazione e da quel momento andammo lì tutte le sere: sedevamo ai piccoli tavoli rotondi, bevendo del tè o del vino di Málaga, circondati da affascinanti e decorosi contadini e da ragazze con dei garofani infilati nei loro splendidi capelli lucenti. Le antiche, tristi canzoni moresche, le nacchere e i movimenti della danza spagnola prolungati fino alla noia: donne in lunghi strascichi e vestiti di cotone decorati, gli scialli sopra la testa e legati dietro, che raccontavano muovendosi lentamente, con voce improvvisamente rapida e tagliente, storie di desiderio e amore in tutte le sue molteplici forme. È una lingua che può essere parlata solo da una donna spagnola.
Non provai mai la sensazione che stavo portando una nuova e meravigliosa creatura nel mondo. Sentivo di non avere speranze di formare o modellare la vita che giaceva inerte dentro di me. Il mio temperamento inibiva il caldo e gioioso istinto materno verso un figlio sconosciuto. Ma quando ascoltai il primo pianto, la voce del piccolo estraneo ricevette una strana e inaudita risposta che riecheggiò dentro di me. Quel pianto non fu invano, con il bambino crebbe anche l’istinto in me. Il pianto provenne da due vite, perché diedi alla luce due gemelli, alle 10:30 del 18 maggio 1906. La femminuccia era così piccola e fragile che non aveva speranza di sopravvivere; il maschietto sembrava invece forte e in salute. Ma fu lui, invece, che era la nostra gioia, a cadere improvvisamente malato il 21 maggio.
Progettavo, dissennatamente, di avere un altro figlio, ma la verità mi rispondeva che nessuno sarebbe stato lui, su questa Terra tu non l’avresti visto mai più. Mi fu portato perché lo guardassi, per imprimersi nella mia memoria visiva come forma della bellezza mortale, il viso modellato come nel marmo bianco, in cui traspare l’impressione di esperienza e saggezza, serena e meravigliosa. Dov’era stato per conoscere tutto quello che si rifletteva in quel piccolo volto? Che cosa aveva visto per mostrare quella saggezza e quella bellezza? Dove si trova adesso?
La piccola, fragile sorellina è rimasta e a lei vanno dedicate tutte le cure per tenere accesa quella flebile fiamma di vita. All’inizio era una piccola speranza, ma avevo una segreta fiducia che ce l’avrebbe fatta. Philip si chinava su di lei con quella speciale tenerezza che solo un uomo può mostrare e che è sempre così commovente. La sua piccola indole asseriva già la sua indipendenza. Quando fu forte abbastanza per attraversare la città, la portammo alla St. Paul’s Cathedral per essere battezzata dal canonico Scott Holland il 5 luglio 1906. Lei, una dei più piccoli, indossava una vecchia tonaca di pizzo, tenuta tra le braccia di quell’uomo così alto, nella grande cattedrale, e venne battezzata con il nome di Julian, come la mia cara amica madre Julian. Fu la prima uscita pubblica di quel corpo così sottile, in quella chiesa enorme, pochi amici e conoscenti inginocchiati intorno a lei, offrendola a Dio per soddisfare la Sua volontà nel caos turbolento della vita.
Arredare e decorare case è una cosa per cui i miei amici pensano che abbia un talento speciale. Forse è vero, ma se è così questo non fa altro che rafforzare la mia convinzione che nessun talento può essere esercitato con qualche probabilità di successo senza un grande sforzo o senza affrontare grandi problemi. Quando le persone mi dicono: «Quanto deve piacervi decorare le case. Dev’essere così divertente», io mi allontano e tra me e me rispondo: «Quanto poco capiscono o conoscono tutta l’ansia e la fatica che questo compito comporta. Non è più piacevole o divertente di dipingere un quadro o scrivere un libro».
Shakespeare è unico, ma anche lui ha aggiunto la sua immaginazione a molte idee vecchie, dimenticate, stantie. Cézanne è considerato unico, ma quanti pittori prima di lui lo hanno aiutato a diventare quello che è? Chi può dire che erano soli, senza aver preso idee o suggerimenti da qualcuno o da qualcosa, magari in sé triviali e privi di valore, che hanno disperso i semi nella loro immaginazione, in cui poi sono cresciuti nella forma di qualcosa di infinitamente bello? Così vanno le cose: Dickens ha dato i natali a Dostoevskij, Ruskin a Proust, Velázquez a Manet, Manet a Degas.
Augustus John Un grande studio, molto pulito e ordinato: su un cavalletto c’era il suo primo dipinto a olio che avessi mai visto. Si intitolava Séraphita: una donna con un vestito nero, attillato, che stava sulla cima di una montagna con dei fiori coperti di ghiaccio ai suoi piedi. Per quanto quel quadro sembrasse così rozzo e quasi infantile ai miei occhi inesperti e privi di educazione, esercitò comunque l’impressione di una poesia e di un’immaginazione così soprannaturale che l’attrazione fu più grande della repulsione. Desiderai spesso di poterlo vedere ancora.
Il povero Epstein era disperato; rischiava di morire di fame. Andammo a trovarlo nel suo studio in Cheyne Walk. Si poteva resistere nello stato di inedia in cui vivevano allora lui e la moglie? La stanza era spoglia. La vita era condotta sulla soglia della sussistenza. La credenza sembrava vuota. Non c’erano commissioni e fare lo scultore era impossibile senza la pietra. Ma la pietra costava moltissimo. Gli commissionammo una statua da giardino e gli procurai alcuni clienti, tra cui W.B. Yeats e lady Gregory, che gli chiese di farle un busto.
Pranzi, cene, tè, ogni giorno era con noncuranza riempito di impegni e ogni giovedì le cene, seguite da feste e ospiti. Come sono sopravvissuta? Perché ho fatto tutto questo? Avevo un vero interesse per queste persone, molte delle quali erano a loro modo straordinarie; le trovavo così eccitanti, emozionanti, che ero ansiosa di farle conoscere le une alle altre. Se mi piaceva qualcuno, il mio istinto mi spingeva a farlo incontrare con qualcun altro per cui provavo un qualche interesse. Organizzare questi incontri mi procurava una gioia immensa, anche se spesso mi causavano problemi senza fine; per questo le mie serate del giovedì mi davano un’ansia lancinante. Ho fatto conoscere due persone che potevano veramente intendersi? Perché, ma perché l’ho fatto? Ho dimenticato qualcuno? Questi pensieri mi si scagliavano contro quando la serata era finita, assalendomi e facendo sì che venissi divorata dai rimorsi.
Queste feste del giovedì sera proseguirono a intermittenza finché non lasciammo Bedford Square nel 1915. Il colore del flusso delle persone variava leggermente, ma variava più per l’ingresso delle generazioni più giovani che per qualche altra differenza nella qualità. Le sole persone che veramente volevo avere erano gli artisti e gli scrittori e generalmente quelli che ancora non erano arrivati.
Non mi ritrovo con queste persone che sono «tutto lavoro». Le odio. Non hanno sogni, né pensieri o idee. E poi quegli altri che sono come stupidi super-animali. Li vedo dalla finestra, che giocano a golf dalla mattina alla sera. Le facce rosse... che vanno su e giù per il Common. Come è difficile trovare un equilibrio tra la vita e il lavoro. Io fallisco completamente. Sento che i momenti più felici della mia vita sono quando leggo, penso e medito, e spazio intorno a me, e scrivo queste stupidaggini nel mio libro. Quando sono qui a lavoro o a Londra vengo portata via da un’oppressione insensata. Mi sento esausta, sfinita, stanca nel cervello e nello spirito. È meglio vivere così, o in maniera sana, semplice e limpida, lavorando solo un po’ all’esterno, ma vivendo dentro, crescendo ed evolvendosi?
La cupezza, la depressione dell’aspetto umano della vita di campagna era diventata per me un’insostenibile agonia, anche se la gente di campagna è più libera, limpida e felice dei nevrotici abitanti della città. Risollevati, allora, e apriti alla visione e al godimento del mondo esterno. Sentirai una musica deliziosa come quella di Mozart. Vedrai i colori di Venezia e la tristezza di Giorgione. Il mondo è lo sfondo di Keats, Shelley e Blake; o meglio, è ciò che gli ha dato i natali. Pensieri nuovi, nuova ricchezza di materiale ho riunito qui, nella quiete della campagna. In città, tutta questa crescita spirituale è bloccata. Tutto è troppo frenetico, eccitante, logorante, tranne che per l’altro aspetto, la comprensione degli uomini e delle donne che si impara a Londra; a volte anche troppo!
Il 9 febbraio del 1909 seppi della morte di Conder. Con lui si è spenta ogni forma di luce che poté ispirare la sua visione; anche le cose più banali avevano per lui un significato e venivano trasmutate in visioni di bellezza. La sua immaginazione reagiva al più lieve impulso e a dispetto di tutta la vita selvaggia ha mantenuto lo spirito di un bambino. Adieu.
Ciò per cui mi sarebbe piaciuto veramente dare una mano è l’educazione. Nel Paese la situazione era quasi deplorevole. I giovani scherzavano sempre su quello che non capivano e, dato che quello che capivano era così poco, questo significava che avrebbero scherzato per sempre. Era la loro forma di poesia e felicità. Quando incontrano qualcuno si divertono a sbeffeggiarlo con volgarità. Credevo che l’unica cosa che stimolasse la loro immaginazione fosse l’esercito e tutto quello che aveva a che fare con i soldati. La chiesa, che avrebbe dovuto guidarli e ispirare i loro pensieri, non lo faceva. Dopotutto, la loro stupidità e volgarità erano solo il risultato di quello che avevano imparato. Com’è tremendamente sbagliato il proprio standard finché non ci si è evoluti!
Ora capisco chiaramente che ogni penny risparmiato dovrebbe essere dato ai giovani artisti. Dovremmo aiutarli almeno noi, che avvertiamo veramente la bellezza e la meraviglia dell’arte. C’è un mucchio di persone che comprende la filantropia e la pratica, ma sono così poche quelle che sentono il grido della pura Arte, o che vedono la sua bellezza. E i giovani creativi devono condurre questa terribile lotta. Il progetto prese una forma definitiva e iniziò a girare. Chiesi a lord Howard de Walden di patrocinarlo e alla fine si evolvette presentandosi con il nome di «Società per l’Arte Contemporanea».
Quando sento la gente, o alcuni dei miei vecchi amici, parlare di Henry James, mi interrogo spesso sulla cecità degli uomini gli uni verso gli altri. Quando ci osserviamo reciprocamente, vediamo solo ciò che abbiamo dentro noi stessi? La limitazione delle nostre nature forse limita la comprensione degli altri. Quando condanniamo o critichiamo gli altri, è possibile che in realtà stiamo criticando noi stessi. Credo sia rara quella sensibilità dell’occhio interiore, che può guardare nelle profondità dei nostri amici e avvertire gli intrecci e le complessità stratificati sui diversi livelli dell’abitudine; essa presuppone infatti un sé purificato dall’invidia e dalla malizia e illuminato dalla luce penetrante dell’amore e della sensibilità, insieme a una compassione veramente sincera per questa natura così ingarbugliata.
«Noi che creiamo, dobbiamo nutrire le nostre bestie selvagge; la maggior parte delle persone le devono domare». W.B. Yeats
L’abitudine della mia famiglia di criticarmi non si era interrotta neanche dopo il mio matrimonio. L’unica differenza era che io non ci facevo più caso. Philip era al mio fianco nel sostenermi. Se solo avessero saputo quanto mi hanno oppresso e terrorizzato. Come ricordo bene il grande sollievo e la gioia ogni volta che tornavo in camera e chiudevo la porta: finalmente sola, con una porta tra me e le loro critiche. Amavo la bellezza, il colore, l’avvenenza e la poesia, ma loro dicevano che ero «degenerata». Questa parola era pronunciata con un tono sdegnoso, superiore, indignato, apposta per colpirmi dritto in testa. Li guardavo stupefatta, ma nessuno sguardo poteva penetrare quella corazza di completo auto-appagamento e totale sicurezza di sé, per cui se in una mano tenevano un randello, nell’altra c’era un codice morale bell’e fatto.
Bertrand Russell Non credo di aver mai incontrato qualcuno più attraente, ma anche molto inquietante, così svelto e perspicace e dotato di una straordinaria intelligenza, in grado di distruggere il falso e sezionare la realtà. Qualcuno lo chiamava il “Giorno del Giudizio”». La sua attenzione mi lusingava e, sebbene tremassi al pensiero che in mezz’ora si sarebbe accorto di quanto fossi sciocca e quanto mi disprezzassi, la sua grande arguzia e il suo humour mi incoraggiarono a parlare.
Joseph Conrad Una delle visite più interessanti degli anni di Bloomsbury fu quella a Joseph Conrad, ad Ashford, nel Kent. In quel periodo Henry James veniva da noi piuttosto spesso e, quando seppi che Conrad era suo amico, dissi timidamente che mi sarebbe piaciuto incontrarlo, dato che ero una grande ammiratrice dei suoi scritti. L’aspetto di Conrad era quello di un autentico nobile polacco. I suoi modi erano perfetti, quasi troppo elaborati; così nervoso e sensibile che le fibre del suo corpo sembravano elettriche, cosa che lo rendeva un uomo estremamente raffinato e ben educato. Parlava inglese con uno strano accento, come se assaporasse le parole nella bocca prima di pronunciarle; si esprimeva comunque benissimo, sebbene avesse sempre il linguaggio e le maniere di uno straniero. Era difficile credere che questo incantevole gentiluomo, con le ampie spalle quadrate che in ogni momento alzava con leggerezza, e l’aspetto inconfondibilmente forestiero, era stato un capitano della Marina Mercantile inglese, oltre ad essere un tale maestro della prosa inglese. Indossava un’elegante giacca blu a doppio petto. Apparentemente, andava avanti a parlare con grande libertà della sua vita, molto più liberamente e a suo agio di come avrebbe fatto un qualsiasi inglese. Parlò degli orrori del Congo, dicendo che non si era mai ripreso dalla shock politico e morale per quello che aveva visto, che l’impressione che ne aveva avuto era stata così profonda che non l’avrebbe più abbandonato; proprio per questa esperienza, però, aveva potuto scrivere Cuore di tenebra e Un avamposto del progresso, a cui lavorò durante il viaggio di nozze in Bretagna, così come fece per Gli idioti. Mi fece sentire così naturale e autentica, che ebbi quasi paura di perdere l’eccitazione e la meraviglia di trovarmi lì, sebbene la mia anima non cessò mai di vibrare; e ancora adesso, quando ne scrivo, sento quasi la stessa eccitazione, lo stesso brivido di esser stata in presenza di uno degli uomini più straordinari che abbia mai conosciuto. I suoi occhi, sotto quelle palpebre spioventi, rivelavano la sofferenza e l’intensità delle sue esperienze; quando parlava della sua opera, lo sguardo si offuscava, sensuale e trasognato, ma dietro sembrava che persistessero i fantasmi delle antiche avventure. È vero, era un’anima irretita, torturata e molto complicata, che si rifletteva in quegli occhi misteriosi, sensibili e comprensivi, di un uomo che era sceso con la fantasia e l’esperienza nell’inferno che gli altri credono che non possa toccare le loro vite. Non era mai rimasto a guardare dalla riva del fiume; lo si capiva subito, perché era chiaramente segnato dai viaggi che aveva fatto attraverso le anime degli uomini che aveva conosciuto. Il mare, con la sua calma e le sue tempeste, era per lui lo specchio del movimento incessante delle anime umane. La sua prosa, con quella bellezza magica e vibrante, sembra essere l’esito di queste esperienze misteriose vissute da una persona estremamente sensibile. Mentre parlava, mi condusse lungo i molti sentieri della sua vita, ma capii che non voleva inoltrarsi nella giungla delle emozioni che si ammassava su ogni lato, così da rendere molto riservata la sua franchezza. Forse si trattava di una caratteristica dei polacchi, come anche degli irlandesi.
Era la prima volta che vedevo dei veri dipinti francesi moderni, che presto vennero definiti post-impressionisti. C’era Matisse con i suoi colori meravigliosi e accecanti e i personaggi disseminati ovunque irregolarmente, i possenti e ampi ritratti di Fergusson, i pugili maschili e femminili, nudi dai colori plumbei, i ritratti stravaganti di van Dongen di donne nude con gli occhi neri e le calze di seta nera, e in mezzo i dipinti di van Gogh con i fiori e i paesaggi della Provenza, appassionati, fiammanti, puri e meravigliosi.
Andammo nello studio di Matisse, attraversando una parte splendida di Parigi, abbandonata e incolta, intorno alle mura e molto oltre le grandi strade acciottolate. Matisse mi fece l’impressione di un uomo d’affari dedito al suo commercio. Non riuscivo a vedere un legame tra lui e la sua arte. Sembrava estremamente competente, ma era difficile immaginare che avesse un’idea della bellezza. Chiaramente aveva un grande senso della progettazione e una grande capacità pittorica. Sembrava più fiammingo che francese, con la sua barba chiara e la faccia quadrata.
Victoria Monks Ora è troppo tardi. Lei ha lasciato il palcoscenico di questa vita, ma non è scomparsa dal ricordo di chiunque l’abbia ascoltata cantare. Non ha cantato le sue canzoni invano. La sua raffinata vitalità e la genialità umana, con cui cantava i sentimenti eterni della «gente», l’hanno resa una di quelle artiste meravigliose e splendide a cui l’Inghilterra ha dato i natali.
Che cosa difficile è diventare un artista, o piuttosto mantenere il talento solido e incontaminato. Vedere e capire, combattere con la visione, formarla e plasmarla in qualcosa di definito, cosa che può essere realizzata solo tenendosi lontani dalle distrazioni. Nessuna donna, nessuna amante è più eccitante dell’istinto creativo. Ti deve assorbire e guidare, liberando il percorso dai piaceri estranei, se bisogna raggiungere la grandezza di un Michelangelo, un Cézanne o un van Gogh.
Tornati in Inghilterra, ci stabilimmo di nuovo nel nostro cottage a Peppard, tranquilli e felici. Lessi molto. Sulla vita di Tolstoj è il libro che ricordo di più. Sulla vita ha sempre esercitato una grande attrazione su di me, perché, a dispetto del suo fanatismo ed esasperazione, Tolstoj sembra conoscere quello che conta veramente e vedere attraverso l’assurdo inganno della vita. Lui, forse, è uno dei pochi grandi scrittori la cui vita privata sia interessante e importante quanto la sua arte, perché sembra che abbia così tanta vitalità e genialità da fargli compiere ciò che serve sia per una grande vita sia per un grande artista.
Come è difficile accettare le persone per quello che sono e non per quello che si vuole siano. Il mio grande errore è volere sempre che le persone che amo e per cui provo un interesse siano «come io desidero», perfette secondo la mia idea. Devo imparare ad accettare i loro stati d’animo così come accetto i miei.
Poche donne sanno scrivere, ma quando sono brave è un’esperienza rigenerante entrare in contatto con la mente e le esperienze femminili. Nessun uomo sa veramente quello che proviamo, loro non possono capire le nostre passioni più tenere. Gli uomini possono scrivere della loro psicologia e dei loro sentimenti, che di solito sono indulgenti e amichevoli, o altrimenti non sono altro che l’esito del sesso, o tendono a diventarlo molto presto. Ma le donne sanno amare oltre l’aspetto fisico, o, se questo c’è, arriva come un incontro di due anime.
Quando ripenso a quelle serate del giovedì durante quei mesi, faccio fatica a capire come fosse possibile che fossero tutti così felici, dato che molti di loro erano persone che sentivano intensamente la tragedia della guerra e di certo non erano indifferenti né distaccati. Credo che la forza dell’infelicità fosse così grande che una distrazione settimanale era benvenuta, specialmente in compagnia di coloro con cui c’era più empatia; si trattava giusto di una piccola fuga di qualche ora dagli orrori che abitavano la propria immaginazione. Chi veniva, indossava spesso allegri vestiti persiani, turchi o di altri paesi orientali, che avevo nel ripostiglio. Philip suonava melodie di ogni genere alla pianola. La musica ci spingeva a ballare gaiamente, selvaggiamente e spesso con grande abilità, seguendo il ritmo che muoveva le nostre anime.
Nell’aprile del 1915, prima di lasciare Bedford Square, quella casa così cara e perfetta, indossai il mio elegante vestito ricamato di seta gialla per il nostro ultimo giovedì sera, feci un inchino davanti a tutti e dissi a me stessa e a Philip: «Lo spettacolo è finito». Con il cuore a pezzi, spensi le luci.
Il motivo per cui avevamo deciso all’inizio di lasciare Londra per la campagna era la salute precaria di Julian; era fondamentale per lei, dissero i dottori, vivere lontana da Londra. Arrivammo a Garsington alla vigilia del suo nono compleanno. Nel mio diario si legge: Dopo quasi nove anni di attesa siamo arrivati qui. Avevo paura, paura di entrare in questa esistenza completamente nuova, e paura di tutta l’organizzazione e del «cambio di casa», ma ora che tutto è realmente accaduto, e che siamo dentro la casa e non la guardiamo più da lontano, da sopra una siepe, mi sento piena di rinnovata speranza, quasi come se fossimo usciti da un incubo per entrare in un mondo magico, dove tutto fiorisce nella calma e nella serenità.
Capii che alzarsi presto la mattina, mettersi una tuta da lavoro e gettarsi subito dopo un delizioso caffè e un toast direttamente in qualche attività, correre, spostarsi, portare, dipingere e martellare, era una vita di grande felicità, pace e appagamento; nessun impegno, nessuna richiesta alla propria vita interiore. Risi di me stessa, quando vidi quanto fosse facile e salutare il lavoro pratico, senza sorprendermi perché piacesse a tante donne; non c’è tempo per rimuginare, né per scervellarsi su qualche problema, perché tutti i problemi devono essere risolti immediatamente.
La solitudine per me è essenziale e mi acquieta i nervi aiutandomi a espandermi. Mi sento come un albero affollato, che non può crescere se ha troppe persone sopra di sé. Da sola non mi annoio mai, perché è così eccitante diventare coscienti della crescita dei propri pensieri, ma credo che si abbia bisogno del contatto con gli altri di tanto in tanto: lo shock elettrico, la vibrazione che scuote la dura argilla invernale in ciascuno di noi.
Guerra Ogni ragione, ogni capacità di giudizio viene gettata in mare o costretta a servire la brutalità e la distruzione. E gli uomini ridiventano animali: per combattere, gli uomini devono trasformarsi in bruti. Nessuno che non lo sia diventato potrebbe continuare a mutilare e infliggere deliberatamente la tortura e la morte ad altri uomini, o distruggere impietosamente meravigliose costruzioni e paesaggi. Forse in passato, quando gli uomini combattevano contro le invasioni barbariche, erano meno cattivi, perché erano meno sensibili alla crudeltà.
Il processo Casement mi aveva colpito profondamente. Lo avevamo conosciuto molti anni prima in casa della signora J.R. Green. Mi aveva fatto una grande impressione per via della sua orgogliosa e slanciata bellezza irlandese e la nobiltà del portamento. Era magro e scuro, a causa dei molti anni trascorsi in Congo, dove aveva svolto un lavoro magnifico nell’indagare le crudeltà inflitte ai nativi. Era poi tornato in Inghilterra per affari legati alla sua attività, probabilmente per ampliare la rete dei suoi sostenitori. Al processo, fece un’elegante e coraggiosa dichiarazione relativa al suo caso, riferendosi appena ai suoi impegni personali, ma parlando dell’Irlanda e protestando contro l’ingiustizia di processarlo come un irlandese in Inghilterra, dove i giudici e la giuria sarebbero stati contro di lui. Lo avevano portato dall’Irlanda a Londra, nascosto e sotto falso nome. Quelli che lo conoscevano dicevano che in realtà era arrivato in Irlanda dalla Germania, nella speranza di fermare la Rivolta di Pasqua che considerava sbagliata; ma di questo, ovviamente, non parlò nella sua difesa (che è molto ben scritta e vale la pena leggere). Al processo di Bertie avevo incontrato Eva Gore-Booth e le avevo chiesto se fosse possibile scrivere insieme una petizione in favore di Casement. Lei ne parlò con Cavan Duffy, il suo avvocato, e i suoi amici si riunirono per capire che cosa si sarebbe potuto fare in merito. Scrissi a tutte le persone influenti che conoscevo, tra cui Asquith, Violet Bonham Carter, Bernard Shaw, H.W. Nevinson, Crompton Llewelyn Davies; anche Philip si impegnò moltissimo alla Camera dei Comuni e in ogni luogo per aiutarlo. Non potevo credere possibile che avrebbero impiccato un uomo che aveva svolto un lavoro così nobile e altruista per l’umanità. Apparentemente, per cercare le sue cose, nascosto in un vecchio baule, avevano trovato un manoscritto privato. Il suo piccolo gruppo di amici lavorò con devozione appassionata per provare a salvarlo, ma fu tutto inutile. Philip ebbe l’idea che si potesse interpellare il re in persona per una richiesta di grazia, e così lui e Bannister, il cugino di Casement, andarono a Buckingham Palace e incontrarono lord Stamfordham. Qualcun altro si recò da Asquith la notte prima che Casement venisse impiccato, per supplicarlo di richiedere lui la grazia, o almeno di sostituire l’impiccagione con la fucilazione. Asquith uscì dal letto in pigiama, scuro in volto. Persino il presidente Wilson e molti americani firmarono una petizione per una sospensione. Fu tutto inutile. Il 3 agosto trovo questo appunto: «Casement è stato impiccato alle 9 di mattina». Per tutta la notte prima dell’esecuzione e fino ai rintocchi delle campane, fuori dai cancelli della prigione si era riunita una folla di persone, inginocchiate a pregare per lui.
Deve essere stato verso l’agosto del 1916, che Aldous Huxley venne a stare da noi. Il suo periodo a Oxford stava per terminare e la sua vista era peggiorata. Non mi sembra che il suo lavoro alla fattoria fosse poi molto, ma divenne comunque uno della famiglia e, sebbene fosse silenzioso e a volte di cattivo umore quando c’erano troppi visitatori, credo che con noi fosse molto felice e potesse scrivere le sue cose in pace.
Ricordo che in aprile feci una lunga passeggiata con Bertie Russell. Era in uno dei suoi momenti critici ed estremamente sinceri. Non so perché. Sapeva che negli ultimi mesi ero stata infelice, ma non aveva fatto alcuno sforzo per incoraggiarmi o aiutarmi. Quel giorno, mi disse che ero «completamente priva di spontaneità e di tutte le qualità che mi avrebbero reso una piacevole compagnia». Ero «troppo come Blake e non abbastanza come Shakespeare». Troppo schizzinosa e riservata; sempre con il desiderio del trascendentale in ogni cosa, senza accontentarsi della semplice compagnia di tutti i giorni; in effetti, non avevo l’istinto del gregge. Mi ha ferito così tante volte; ma gli ero comunque molto affezionata e mi piacevano alcuni suoi discorsi, il suo modo appassionato di sezionare un soggetto in tanti piccoli pezzi fino a scoprirne le radici. Credo che le cose sarebbero state diverse, se avessi avuto una relazione con lui. Fu un vero peccato che avessimo così tanto in comune e sentissimo la vita in modo così appassionato, senza però essere capaci di preservare la nostra grande intimità.
Virginia Woolf Venne per un tè. Entrò con una tale energia e vitalità, e mi impressionò con l’intelletto più immaginifico e raffinato che avessi incontrato da molti anni. Con la sua immaginazione giocava con la vita, come Paderewski faceva con il pianoforte. Era straordinariamente bella e magnificamente splendida. Ero stupefatta dalla sua capacità di semplificare e dalla rapidità del ragionamento. Sedeva come se si trovasse su un trono e dava per scontato che l’avremmo venerata. Sembrava fosse sicura della sua superiorità. È vero, ma finisce per schiacciarti, perché si capisce il suo estremo disprezzo per gli altri.
Virginia parlò di Notte e giorno. Il suo tema è che tutti noi viviamo in un qualche nostro mondo onirico, in cui emerge di tanto in tanto una roccia della vita reale, ma il sogno è l’etere che ci circonda. Credo che sia quello che prova verso il mondo e si possa vedere come il suo sogno è molto più fantasioso e bello di quello della maggior parte delle persone, cosa che la allontana tantissimo dai nostri sogni. Penso sempre che lei sia come un grande uccello che vola dove vuole, si posa per parlare qualche momento e poi riprende a volare. Finché potrà vivere nel suo sogno, credo che sarà felice, ma credo che a volte capisca di essere isolata e che la vita rappresenti per lei un problema insolubile. Vola al di sopra della terra, ma non ha nessun contatto con il cielo. Con il passare degli anni ho avuto la possibilità di conoscerla meglio ed è diventata un’amica incantevole e fedele. La sua intelligenza è così estremamente sensibile, così sottile, che il mondo le si illumina in maniera molto più brillante di quanto avvenga a ognuno di noi. Come sa essere spietata! Ma quanto la amo!
Quando uscì il romanzo di Aldous Giallo cromo e vi lessi la descrizione della nostra vita a Garsington, così distorta, caricaturata e dileggiata, ne fui sconvolta. Doveva rendersi conto che, scrivendo della nostra vita con quei toni, stava ferendo i nostri sentimenti. Possibile che fosse così completamente cieco verso gli altri, persino i suoi amici più intimi, o così arrogante da credere che l’esistenza di questo libro giustificasse qualunque sofferenza e valesse la pena di distruggere un’amicizia? O si trattava solo di un brillante quanto infantile jeu d’esprit? Dopo la rottura, la prima volta che ci incontrammo fu a un ricevimento serale a Londra, poco dopo il nostro ritorno dall’Olanda. Sedeva vicino a me e disse con fervore: «Ho saputo che siete stati in visita dal Kaiser d’Olanda, Ottoline. Com’era?». Iniziai a raccontare, ma, dopo alcune frasi, sentii che dicevo: «No, no, Aldous, non posso parlarvene, perché poi ci scrivereste su». Parlai inconsapevolmente, ma riuscii a fargli capire l’effetto che il suo comportamento aveva avuto su di me.
Chaplin «Ha la stessa qualità di Nijinskij in Petruška. Il fragile corpicino che sbatte contro i muri del fato, cercando di oltrepassarli, ma troppo debole per buttarli giù; lo spirito ardente diventa così inquieto che lacera il corpo, come una farfalla che batte ciecamente contro i vetri di una finestra. Non posso dimenticare le piccole mani inguantate di Nijinskij che picchiano contro le pareti in Petruška. Charlie Chaplin sembra picchiare allo stesso modo contro i muri della vita».
Chaplin venne da me per un tè e mi chiese di incontrare qualche giovane artista; tra gli altri, invitai Lytton Strachey e Duncan Grant. Nijinskij e Chaplin avevano di certo molto in comune, molto della stessa appassionata intensità e della dedizione alle idee che esprimevano; ma Nijinskij era molto più impersonale di Chaplin, più libero dal temperamento e da se stesso.
«A volte mi sentivo come se Garsington fosse un teatro. Era di certo un teatro romantico, dove ogni settimana una compagnia arrivava, disfaceva i bagagli, tirava fuori i suoi orpelli e improvvisava una nuova scena di vita. Lo spettacolo durò per tre anni. Io e Philip alzavamo il sipario, il fato sollecitava gli attori, che si succedevano gli uni dopo gli altri. Quando arrivavano, lasciavano dietro di sé il lavoro, le consuetudini e i luoghi comuni, per entrare in una nuova, strana regione, dove influenze fresche li rendevano spesso dimentichi del mondo ordinario e magari li inducevano a dare libero sfogo ai loro impulsi reconditi».
Dora Carrington, una studentessa della Slade School, era attraente come può esserlo un pony arruffato di Exmoor. Mark Gertler ne fu profondamente e tragicamente innamorato per alcuni anni. Lei non volle né assecondarlo né rifiutarlo completamente. Si incontravano quasi tutti i giorni e sembrava le piacesse la sua compagnia e la sua vitalità, il suo modo divertente e bello di parlare e la sua devozione. Si capiva che prima o poi si sarebbero sposati, a vederli così uniti l’una all’altro. Lei aveva una faccia grassa e bitorzoluta, una zazzera di capelli chiari scottati dal sole, occhi azzurri che si muovevano in modo elusivo e raramente ti fissavano, tranne quando voleva affascinare, e allora diventava una bambina, con un sorriso stranamente bizzarro e piuttosto furtivo. La sua figura era dinamica e solida, vestita nello stile di Augustus John, con un corpino stretto e una gonna alta. All’epoca sembrava molto insicura e, sebbene apparentemente fosse molto sincera, sentivo che era davvero eccessivamente timida e timorosa di aprirsi agli altri.
A Lytton è sempre piaciuto insegnare ai giovani e Dora Carrington era un’allieva affascinante e lusinghiera. Gradualmente, lei lo indusse a fare lunghe passeggiate, che duravano anche una giornata intera e arrivavano fino ai Clumps, e iniziò così quella strana relazione che durò fino alla morte di Lytton. Era il primo atto di un lungo spettacolo, recitato anche su altri palcoscenici, perché Carrington divenne molto possessiva e a poco a poco lo allontanò dai suoi amici più cari. Era diventata una domestica servizievole e devota, che si prendeva cura di lui quando era malato e quando andò a vivere da solo, intrattenendo i suoi amici e in generale rendendogli le cose più facili. Credo, in realtà, che lei anni dopo abbia riconosciuto di avermi trattata male e di averlo messo contro di me, e per un certo periodo perdemmo certamente la nostra intimità, cosa che mi procurò molto dolore, ma, dal momento che lui non mi disse la causa e fu reticente, e dato che Carrington smise di venire a trovarmi, non fui in grado di stabilire la ragione o il modo in cui avrei peccato, e così dovetti accettare le cose senza lamentarmi. Povera ragazza, era troppo impaziente di averlo tutto per sé. Dopo la sua morte, lei fu veramente infelice e per molti mesi perse qualsiasi equilibrio, coprendosi di recriminazioni; questo, ahimè, durò fino al giorno in cui si suicidò, uccidendosi con una pistola che aveva preso in prestito per sparare ai conigli. Mi scrisse pochi giorni prima, dicendomi quanto mi fosse grata, perché era per me che aveva conosciuto Lytton. La lettera mi sorprese molto. Rileggendo adesso tutte le sue lettere che ho tenuto, capisco che creatura strana, insicura, sbandata fosse; molto attraente per il suo modo di esprimersi e la sua percezione sconnessa della vita, che rattoppava con intensi godimenti, in cui però si avvertivano la sua insicurezza e la paura che aveva delle critiche e la mancanza di sincerità. Era così ansiosa di avere successo con il maggior numero di persone, da trasformare la sua vita in una matassa ingarbugliata e aggrovigliata.