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 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

DISERTORI CON L’ANIMA

DISERTORI CON L’ANIMA –
Degni della pena di morte per mezzo della fucilazione alla schiena. Parole scritte da uomini contro altri uomini. Scritte in una sentenza di cent’anni fa, pronunciata durante la Prima guerra mondiale. Un tribunale composto da un colonnello, due maggiori e tre capitani decise, come se avesse potere divini, che due soldati venticinquenni di Firenze non meritavano altro che di essere uccisi. E questo perché avevano lasciato il reparto in seconda linea, erano andati in un vicino paese a mangiare, bere e dormire per poi, la mattina dopo, presentarsi spontaneamente alla Guardia di Finanza e tornare dai compagni, nell’accampamento. Così i nomi di Cappelli Vittorio e Ciullini Gino, del 69° fanteria, sono entrati, il 20 agosto 1915, a far parte della lunga lista dei reietti, dei dimenticati: i settecentocinquanta soldati fucilati dopo una sentenza, gli almeno trecento delle esecuzioni sommarie, i non si sa quanti uccisi per le decimazioni, quando gli uomini da giustiziare venivano estratti a sorte, o durante le battaglie.
Sono i condannati a morte della Quindici-Diciotto. Soldati vittime di una guerra nella guerra. La guerra dell’esercito italiano contro se stesso, condotta per diventare la forza armata di un paese con poco più di 50 anni di vita. Guerra di cui oggi non si può tornare a parlare se non partendo da una semplice constatazione: i condannati alla fucilazione furono vittime, come i 650 mila italiani morti combattendo, di un conflitto che il papa di allora, Benedetto XV, definì una «inutile strage». Vittime che finora nessuno ha riconosciuto come tali. I loro nomi, semplicemente, non ci sono. Non sono conteggiati tra i morti e dispersi dei rispettivi reggimenti (più di cinquemila in quello di Cappelli e Ciullini) né, tantomeno, sono nell’albo d’oro dei caduti della Prima guerra mondiale.
Eppure queste vittime dimenticate spesso hanno ricevuto, prima di morire, il massimo onore che un militare possa tributare a un altro militare, l’onore delle armi, un presentatarm ordinato per riconoscere il valore di quel sacrificio. Persino il crudele generale Leone di Emilio Lussu (“Un anno sull’altipiano”) s’irrigidisce sull’attenti davanti al cadavere di un soldato che pensa di aver fatto fucilare: «Salutiamo i martiri della patria! In guerra», dice, «la disciplina è dolorosa ma necessaria. Onoriamo i nostri morti!».
In questo racconto di un tenente del 116° fanteria, invece, il presentatarm lo eseguono i soldati schierati. «All’alba, verso le 4, mi recai coi miei soldati sul posto dove c’erano già molte truppe regolarmente inquadrate coi propri Ufficiali e che vennero disposte a rettangolo nella vasta radura. Il condannato non era ancora giunto. Quando arrivò in autocarro fra tre o quattro carabinieri; urlava e gemeva come un fanciullo. Fu fatto scendere, e, sorretto da alcuni soldati, messo a sedere su di una sedia. Intanto un Ufficiale Superiore lesse la sentenza, al che tutta la truppa presentò le armi... venne bendato; era in uno stato pietoso, non si reggeva sul tronco, parlò col prete e prima che la squadra di esecuzione facesse fuoco, volle alzarsi e orinare: “Lasciatemi almeno orinare”, disse, e invocava sempre la mamma. Alla prima scarica cadde in avanti emettendo tre grida: ah, ah, ahhhhh!, di cui l’ultima più lunga e più fioca. Il Tenente Medico si avvicinò e ne constatò la morte». (Dal diario di Paolo Ciotti che fa parte dei “Diari raccontano”, la raccolta pubblicata dal nostro giornale con l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano e consultabile sul sito dell’Espresso). A esecuzione avvenuta partivano i telegrammi, tutti cifrati e scritti con lo stesso tenore, che rimbalzavano da un comando all’altro: «Onoromi comunicare che 76680 (in linguaggio cifrato significava “le sentenze”, Ndr) vennero eseguite…».
La linea dura era stata decisa dall’alto. Le direttive del comandante supremo, Luigi Cadorna, erano categoriche: «Non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e dovere dei comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte». Bisognava punire, senza andare tanto per il sottile:. Così si può leggere, in un suo proclama, che il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, «ha approvato… che alcuni, colpevoli o no (testuale, Ndr), fossero immediatamente passati per le armi». Èilluminante la testimonianza di un giudice militare che, prima di un processo, riceve un fonogramma dal comando di corpo d’armata: «Il dovere dei giudici è di essere severi… Vorrà dare nel giudizio attuale un esempio salutare». Delle condanne a morte si occupò anche la commissione che indagò sul disastro di Caporetto, a guerra in corso e fino al giugno ‘19. Nella relazione finale, ripubblicata quest’anno dalla Rodorigo editore, la conclusione è chiara: «Esistono responsabilità specifiche gravi nell’arbitrario uso della pena capitale oltre i limiti del codice penale e… senza le garanzie, sia pure sommarie, dalla legge volute».
Adesso, dopo cent’anni, qualcosa si sta facendo per cercare di ricostruire questa brutta pagina della nostra storia e colmare un vuoto nella memoria collettiva. È di maggio la lettera con cui l’ex magistrato militare Sergio Dini, oggi sostituto procuratore a Padova, chiede al ministro della Difesa un «provvedimento clemenziale di carattere generale, a favore di tutti i condannati a morte del I° conflitto mondiale». «Anche i caduti sotto il fuoco di un plotone d’esecuzione», scrive, «sono morti in guerra, e, perché no?, sono morti “per la Patria”; essi furono mobilitati contro la loro volontà, per una guerra di cui non ben comprendevano gli scopi, come fu per la maggior parte dei morti in combattimento o in prigionia. E come loro avevano patito la fame e il freddo, il fango delle trincee e i pidocchi, e la quotidiana incombente presenza di una morte impersonale. Fino al sacrificio finale, loro imposto come per tutti gli altri, per arrivare alla vittoria». Un appello, quello di Dini, raccolto dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. È tempo, ha detto il ministro, «di fare luce sui soldati italiani fucilati nel corso della Grande Guerra, vittime di singole esecuzioni o di decimazioni sommarie effettuate “sul posto”, senza processo». E ha costituito un comitato scientifico per avviare una «riflessione sul tema del “fattore umano” nella grande guerra» chiamando a presiederlo un suo predecessore, Arturo Parisi.
Allora cerchiamo di conoscerli questi soldati. Per capire come e perché sono morti, per nutrire la nostra memoria collettiva e per includerli a pieno titolo tra le vittime di quella tragedia che fu la Prima guerra mondiale. Nel riquadro qui sotto, dieci storie esemplari. Una trascritta dal diario di un caporale di fanteria. Nove estratte dai faldoni che, all’Archivio centrale dello Stato, conservano la memoria di quelle esecuzioni.