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 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

POLITICI GREGARI DEI BOSS

[Colloquio con Raffaele Cantone] –
L’inchiesta di Roma mette in luce un nuovo modello criminale, che supera la vecchia idea di mafia e anche quella di corruzione». Nei nove mesi alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone è stato costretto a passare da uno scandalo all’altro. Prima l’Expo di Milano, poi il Mose di Venezia e adesso anche Roma, dove si occuperà degli appalti sospetti: una sorta di giro d’Italia delle tangenti. Ma le rivelazioni sulla rete di Massimo Carminati lo riportano alla sua esperienza decennale di magistrato impegnato contro i casalesi. È come se l’inchiesta capitolina avesse dato corpo alle peggiori previsioni sull’evoluzione “borghese” delle mafie, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la politica. «La grande novità di questa indagine sta proprio nel paradigma di associazione mafiosa. Il ruolo dei politici è assolutamente secondario: sono al servizio dell’organizzazione, la gestione vera ce l’hanno gli altri. È l’opposto di Tangentopoli. Qui i politici sanno con chi hanno a che fare, ottengono tornaconti in termini di finanziamenti e voti ma non sono loro che tirano la carretta».
Dottor Cantone, i politici accettano di stare al servizio dei boss per convenienza o per paura?
«Gli atti mostrano come sia stata superata la logica dell’intimidazione tipica delle vecchie mafie. In Calabria per la ‘ndrangheta’ conta prima il controllo del territorio, poi la capacità di corrompere. Invece l’organizzazione di Carminati ha i metodi della consorteria: portano il politico dalla loro parte, lo mettono a libro paga, proprio come un clan fa con gli affiliati che vengono retribuiti perché sanno sparare e ricevono lo stipendio anche quando non c’è bisogno di usare le armi».
Nelle intercettazioni romane si usa lo stesso linguaggio dei casalesi: i boss chiamano i politici su cui investire “cavalli”, sperando che si mettano a correre e diventino vincenti.
«Infatti. La corruzione tradizionale è un accordo tra due soggetti per ottenere qualcosa. Qui invece si stipendiano le persone solo per avere la capacità di entrare in contatto con qualcuno, anche se in cambio dei soldi non c’è un atto o un appalto».
Un altro elemento chiave è la trasversalità: non si punta su un partito, ma su singoli esponenti di movimenti diversi.
«Gli atti registrano il disfacimento della politica. Non ci sono più i partiti. Ci sono gruppetti che operano per se stessi, si muovono in autonomia e sfruttano il partito solo per costruire la propria carriera. Come era accaduto per i casalesi, certi sistemi elettorali hanno finito per rendere più facile il rapporto tra clan e politici. Ognuno porta la sua dote di voti e fa il suo gioco. La grande operazione da fare è di trasparenza, che non riguarda più solo i bilanci dei partiti ma anche quello che gira intorno ai partiti: soprattutto le fondazioni create dai politici».
Gran parte dei politici corrotti a Roma intascano tangenti attraverso le loro fondazioni personali. Che sfuggono a ogni controllo.
«Le fondazioni in origine erano nate per altre finalità. Erano istituzioni pensate per gestire entità piccole, come una biblioteca, e per questo avevano criteri di contabilità banali perché non era previsto che maneggiassero fondi ingenti. Oggi sono diventate la chiave di volta del potere: gestiscono persino le banche. E tutto con trasparenza pressoché inesistente. Ora il paradosso è che nei partiti dietro le fondazioni oggi si nascondono le correnti, che hanno un’autonomia totale. Il proliferare delle fondazioni è la prova della fine dei partiti nazionali: sono quasi sempre espressione di un singolo, al massimo di un capocorrente, culturalmente il contrario di un partito. E lì che bisogna avere il coraggio di fare trasparenza».
L’allarme è stato lanciato più volte, anche da lei. Ma non sembra che la classe politica l’abbia raccolto.
«È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più direttamente. Invece queste fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza. Noi pretendiamo - giustamente - che ogni comune metta online sul sito anche i mille euro che versa al poveretto che non ha di che mangiare, mentre le fondazioni possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo».
Lei come magistrato ha indagato sulla corruzione usata dai casalesi, poi come presidente dell’Autorità nazionale si è occupato delle tangenti su Expo e Mose. Ma il livello di infiltrazione criminale emerso a Roma sembra senza precedenti.
«Roma è l’emblema della novità della mafia: tutte le teorie sull’evoluzione della criminalità organizzata si concretizzano nei risultati di questa indagine. Lo ‘ndranghetista classico è riconoscibile anche se si mette in giacca e cravatta. Il boss Pasquale Zagaria quando va a Parma con mezzo milione di euro parla casalese doc: la sua origine camorristica emerge con chiarezza. Ma in questa inchiesta le facce pulite e i criminali sono la stessa cosa. Qui non c’è “Sandokan” Schiavone che manda avanti l’imprenditore prestanome, l’imprenditore lo faceva Carminati. È quasi paradossale che il volto moderno della mafia sia stato smascherato a Roma. Bisogna rendere merito al lavoro del procuratore Pignatone e della sua squadra, ma viene da chiedersi come mai non sia stato scoperto prima. Perché nella capitale c’è stata una sottovalutazione così profonda da parte di chi ha continuato a sostenere che le cosche non c’erano? Le indagini hanno dimostrato la presenza a Roma della camorra, della ‘ndrangheta ma anche di organizzazioni autonome capaci di muoversi con logiche diverse che forse non si trovano neppure a Palermo e a Napoli, dove non è mai stato riscontrato un livello di infiltrazione del genere».
Forse perché a Napoli e Palermo decenni di lotta contro i clan hanno permesso di sviluppare anticorpi. Anche a Milano però la penetrazione delle cosche è stata sottovalutata.
«L’esperienza dell’Expo dal punto di vista della mafia è da studiare. In primo luogo ci insegna che se metti in campo un apparato di indagine valido le inflitrazioni mafiose le trovi tutte. A Milano ci sono state decine di interdittive contro le aziende sospette, più di quante fatte in tutti gli anni precedenti. E se andiamo a vedere le infiltrazioni contestate riguardano solo subappalti, lavori minori. La mafia è stata costretta a volare basso, non ha provato a fare il salto di qualità. A Roma invece questa organizzazione prende appalti dall’Ama, la municipalizzata più grande, e dalla Regione; ottiene la gestione dei centri profughi e dei campi rom».
Stando alle intercettazioni, Mare Nostrum si è trasformata in una colossale torta. Lo dicono loro stessi: «Per i 200 milioni di Expo è stato fatto tanto casino, qui ci sono 150 milioni pronti...».
«Per l’assistenza ai profughi sono stati spesi fondi enormi senza trasparenza, seguendo solo la logica dell’emergenza: fiumi di denaro pubblico investititi tutti e subito, senza chiedersi a chi venivano dati. All’inizio ci si rivolgeva alla Caritas e ad altre strutture religiose, poi criminali e avventurieri si sono attrezzati per entrare nell’affare. Ancora oggi non si riesce a capire con quali criteri vengano assegnati i contratti. Inevitabilmente i clan si sono inseriti nel business. Questo ancora una volta smentisce la vecchia idea secondo la quale la mafia si occupa solo di edilizia. No, loro vanno dovunque ci siano i soldi. Investono nei settori nuovi, puntando su quelli dove il livello di controllo è basso: prendiamo la manutenzione dei giardini, la pulizia delle strade o i centri per immigrati. Dove si stanziano soldi pubblici senza trasparenza, la mafia si lancia subito perché può usare la corruzione e fare valere la forza dell’intimidazione».
Anche prima di questa inchiesta, l’Autorità che presiede si è occupata di Roma. Avete analizzato l’incredibile vicenda della linea C della metropolitana, con ritardi e costi che crescono senza spiegazione. Crede che in questa città la corruzione sia più radicata?
«C’è una quantità enorme di potere e di burocrazia, che non esiste altrove. È evidente che a Roma si mettono insieme meccanismi moltiplicatori della corruzione. Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che la burocrazia, nata per controllare la vita pubblica, paradossalmente è diventata il vero moltiplicatore della corruzione. La burocrazia ha creato un metodo perfetto: quello della “non decisione” che permette di vendere la decisione su qualunque atto. La prassi degli uffici pubblici è: normalmente non decido e quindo devo essere pagato per farlo. Un meccanismo che ha la capacità di bloccare tutto».
Lei a Roma è stato criticato dai sindacati anche per avere avallato la decisione di spostare i comandanti dei vigili urbani da una zona all’altra dopo un certo numero di anni.
«Se prevedi che una regola anticorruzione si fa con la rotazione degli incarichi, i vigili urbani come li puoi far ruotare? E quale è stata la reazione del sindacato? Tutto sommato la legalità come valore viene in secondo piano rispetto alla tutela del lavoratore. Mi ha fatto pensare a quello che avvenne in Sicilia quando Giovanni Falcone cominciò a occuparsi delle imprese dei mafiosi e da parte di alcuni sindacati si disse che così faceva perdere posti di lavoro. Allora come oggi si crea un’alleanza inquietante tra chi vuole mantenere lo status quo per la tutela del lavoro e chi lo fa per proteggere posizioni individuali. Quindi ideologicamente la lotta alla corruzione è meno importante di un trasferimento di soli cinque chilometri? Il segnale che viene trasmesso è che l’interesse pubblico non conta più nulla».
Se la burocrazia è diventata uno strumento di corruzione vuole dire che non c’è più speranza.
«Non è vero. Queste indagini così difficili e lunghe dimostrano che esiste una parte dello Stato e della burocrazia che funzionano: c’è ancora una parte buona».
Agli imprenditori la corruzione fa comodo?
«Io sono convinto che l’imprenditoria italiana abbia le sue responsabilità. Nel periodo della vacche grasse ha imposto lo smantellamento di ogni sistema di controllo efficace. Prendiamo l’abolizione del falso in bilancio: non l’ha voluta solo Berlusconi, ma gli industriali che premevano persino con le petizioni. Oggi la stagione delle vacche grasse è finita e l’imprenditoria è costretta a confrontarsi con un sistema paralizzato dalla corruzione. Le aziende non fanno innovazione, perché non ha senso spendere per la ricerca se gli appalti si vincono solo con le mazzette. E sono scomparsi gli investimenti stranieri. Ho incontrato un imprenditore straniero che ha aperto un centro commerciale nel Casertano e mi ha detto: “Noi non abbiamo avuto problemi con la camorra, ma con la burocrazia. Parlavamo con uno e ne veniva un altro”. E dietro c’è sempre l’ombra della corruzione».
Questo sistema però non danneggia solo gli imprenditori.
«Certo, lo paghiamo tutti. La corruzione abbassa la qualità dei servizi. “L’Espresso” ha fatto una copertina sul degrado nelle strade di Roma. O pensiamo alle opere della Salerno-Reggio Calabria dove è stato usato meno cemento del previsto. L’imprenditore si prefigge un profitto e vuole raggiungerlo a tutti i costi: la spesa della corruzione la recupera sulle opere. Oggi questo non è più sostenibile. Una parte dell’imprenditoria si è resa conto che la corruzione è un problema, che il sistema bloccato è un danno anche per loro. La svolta nella lotta alla mafia c’è stata quando gli industriali hanno capito che non governavano più il rapporto con il clan perché Totò Riina voleva decidere come si facevano i lavori, come si faceva la politica persino come si faceva l’impresa».
Ventuno anni fa uno storico discorso di Gianni Agnelli all’assemblea di Confindustria segnò la svolta di Mani Pulite, aprendo la stagione della collaborazione con i pm e provocando il crollo della Prima Repubblica. Oggi può accadere qualcosa del genere?
«Secondo me no. Ma la strada non è questa. L’imprenditore non va a collaborare con il magistrato per una sola ragione: può solo perderci. Deve comunque confessare, accusare amici e soci, uscire da un certo mondo. La speranza invece è che loro stessi si rendano conto che certi metodi non possono più funzionare. Sembra illusorio, invece no: è molto più credibile di quanto si possa immaginare. La chiave di volta è creare le condizioni perché gli imprenditori mollino questo sistema: bisogna incentivare la legalità, renderla conveniente. E farlo dal punto di vista amministrativo, senza arrivare al processo penale. Il modo più proficuo è puntare sulla prevenzione, prima che si commettano i reati».
Lei ripete spesso che “la botte va risparmiata finché è piena”.
«Se la botte non si è rotta la puoi ancora riempire. Ma quando si arriva a un processo significa che la botte si è già scassata».