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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

QUARANT’ANNI, PADRE

[Intervista a Tiziano Ferro] –
«L’unica volta che ho fatto un concerto in uno stadio, all’Olimpico nel 2012, mi è venuta una bronchite come non mi capitava dalla quarta elementare».
Tiziano Ferro sta bevendo il suo secondo caffè in un bar di Milano, sui Navigli. È un momento speciale per lui: il 25 novembre l’uscita di TZN - The Best Of Tiziano Ferro, la sua prima raccolta di successi, e la prossima estate il suo primo tour negli stadi.
Quel palcoscenico, Tiziano dice di temerlo molto. «Non c’è giorno in cui non ci pensi, ho trascorso notti insonni a provare le scalette, penso agli schermi: Dove li voglio, come li voglio? La verità è che io non so cantare in uno stadio, imparerò facendolo e devo perdonarmi fin da ora qualche ingenuità dovuta all’inesperienza».
A forza di rimuginarci, sull’argomento ha scritto anche una canzone, uno degli inediti contenuti nel disco e intitolata, appunto, Lo stadio, che lui definisce una sorta di preghiera. «L’ho scritta proprio per sdrammatizzare. Parla del superare se stessi e le proprie paure: non ti devi preoccupare di essere giudicato, non importa se in mezzo al pubblico ci sarà qualcuno che non aspetta altro che di vederti inciampare sul palco».
Pubblicare una raccolta di successi implica il fatto di riguardare indietro alla propria carriera.
«In realtà, per me, non si tratta di una retrospettiva. Sono una persona schematica, mi piace molto catalogare, razionalizzare quello che mi succede. Anche cose stupide. Le faccio un esempio: quando ero più giovane avevo individuato una costante secondo la quale sarei andato agli Mtv Europe Music Awards un anno sì e un anno no. Mi serve per darmi una calmata, per prevenire le crisi legate al venir meno di una routine».
Quindi?
«Questa raccolta funziona un po’ alla stessa maniera: previene la voglia di ripetermi. Il mio è un mestiere bellissimo, ma spesso presenta cicli identici: un disco ogni due anni, il tour, calendari che si somigliano. Sono sicuro che dopo il nuovo album andrò oltre questo tipo di ripetitività. La musica, il modo di distribuirla e di viverla, sta cambiando. Io no. In un certo senso sono rimasto ai 45 giri. Non a caso nell’edizione speciale ne abbiamo inserito uno».
Ma non è un po’ troppo giovane per questo genere di nostalgie?
«Macché, quel periodo l’ho vissuto tutto. I primi 45 li cominciai a chiedere a mia madre quando avevo due anni. Ho ancora una collezione invidiabile».
Pezzi rari?
«Be’, Saturday Night Fever dei Bee Gees. Canzoni degli Human League di cui andavo pazzo da piccolo. Oppure cose tipo Den Harrow, Tarzan Boy, risultato della mia assidua frequentazione di Deejay Television quando avevo cinque, sei anni. I 33 giri, invece, li compravo solo se, intuitivamente, sentivo che quelle band o quei cantanti valevano di più. I Duran Duran, per esempio».
Torniamo alla routine di cui parlava prima?
«Ogni tanto sento il bisogno di “dare una chiusa”. La casa discografica mi chiese di fare un Best nel 2011 per i dieci anni di carriera, ma non trovavo la formula. Le raccolte mi sono sempre sembrate quelle cose da area di servizio, buttate negli scatoloni. E non mi piacciono nemmeno quelle in cui gli artisti stravolgono completamente le versioni originali delle loro canzoni. Ho chiesto di darmi più tempo per pensarci, e alla fine credo di aver trovato il modo giusto».
Sempre in tema catalogazione: scrive ancora i suoi diari?
«Sempre. Non ho mai smesso. Nella vita, scrivere mi ha fatto solo bene. Sulla pagina riesco a tirare fuori cose che allo specchio non mi dico».
Mi dice di che cosa parla una delle ultime pagine importanti che ha scritto?
«Per lo più, nei miei quaderni, faccio un’analisi della situazione in cui mi trovo. Che oggi significa la condizione di un uomo di 34, quasi 35 anni. Ricordo che quando di anni ne avevo venti, al cinema era uscito L’ultimo bacio e si parlava della generazione dei trentenni di allora. Ricordo che mi dava fastidio, pensavo: ma che cosa rompete le palle? La maggior parte di voi ha un lavoro, una relazione, avete una vita abbastanza appianata, ma ancora abbastanza energie per fare cose nuove, avete la maturità, tutto».
Adesso la vede in modo diverso?
«Sto cominciando a capire qual è il punto. I miei amici hanno messo su casa, si stanno sposando, stanno facendo figli. Li vedo tutti andare verso quella direzione lì».
E lì è dove vorrebbe andare anche lei?
«Be’, sì. Ma, soprattutto, guardo la mia vita e inizio a non ritrovarmi più. Mi sembra di aver preso alcune caratteristiche dei ventenni. Molte non le ho mai avute ma, per esempio, inizio anch’io a non aver voglia di uscire, a non voler far tardi la sera. Sui diari rifletto su questo genere di sensazioni e, a volte, nell’ansia di volermi mettere in pari con gli altri, comincio a darmi scadenze. Tipo: entro quest’anno devo comprare casa. Nel 2010 pensavo che l’avrei fatto, poi però ho smesso di cercarla perché non sapevo ancora bene dove vivere. I miei amici, nel frattempo, sono andati avanti, hanno tutti una casa che amano, mentre io sto ancora un po’ qui un po’ là. E, poi, c’è la questione dei figli».
Che, se posso permettermi, mi sembra parecchio più complicata.
«Il mio sogno sarebbe avere una persona accanto e prendere questa decisione in due. Ma siccome comincio a essere l’unico del gruppo a non avere un figlio, mi sono ripromesso che se entro i 40 anni questa persona non la trovo, decido io. A quaranta, faccio un figlio: è questa l’ultima cosa importante che ho scritto nei miei diari. Ho paura che se aspetto troppo non me lo godo più io, e nemmeno i miei genitori».
Come pensa di procedere?
«Banalmente ci sono un paio di possibilità: o trovo un’amica consenziente che anche lei desidera un figlio, oppure seguo l’esempio di amici e colleghi e vado all’estero, in America».
Il piano A potrebbe presentare qualche inconveniente.
«Ovvero?».
Banalmente: dopo aver accettato, la sua amica potrebbe cambiare idea e decidere di tenersi il bambino.
«Certo, anche se è ovvio che con questa persona ci dovrebbe essere un rapporto di stima e fiducia. E, sennò, c’è sempre il piano B. Che è facile fino a un certo punto. Perché un conto è crescere un figlio in due, un conto è farlo da solo».
All’adozione ha mai pensato?
«No, per un misto di egoismo e romanticismo. Mi commuove l’idea di poter vedere i miei tratti somatici in un figlio.
 A volte, penso già anche ai nomi».
Maschili o femminili?
«Sono per la par condicio. Qualche tempo fa pensavo che per una bambina mi sarebbe piaciuto Margherita, come mia nonna. Ah, e faccio anche un’altra cosa un po’ patetica: provo se suona bene col cognome, perché ci sono nomi anche molto belli che con Ferro proprio non funzionano».
Beh, Margherita Ferro mi piace.
«Sì, è potente, onesto, agricolo. Il nome di una donna dell’Agro Pontino che ha bonificato la palude e coltivato la terra con le sue mani (ride)».
E se fosse un maschio?
«Qualcosa di semplice. Mario sarebbe la cosa più logica, perché era il nome sia di mio nonno materno che di quello paterno. Però, non è la mia prima scelta. Non so, Francesco».
Ha detto che preferirebbe non essere un padre single.
«Sì. Mi sono scoperto una persona fortemente e volitivamente monogama. Preferisco essere da solo piuttosto che avere una relazione che non sia di contenuto, ma se le devo dire che sono felice, sinceramente, non lo sono. A volte mi lascio andare a pensieri negativi, il più ricorrente è: “Nella vita ho avuto così tanto che non posso sperare di ottenere anche questo”».
Ma perché si deve fare del male con un’idea del genere?
«Ma non è che mi faccia del male. È una questione pratica: con lo stile di vita che ho, dove trovo il tempo e le occasioni per conoscere qualcuno? Se i miei amici che possono fare la spesa al supermercato e andare fuori la sera dove vogliono sono disperati perché non incontrano nessuno, che chance ho io che esco poco perché ogni volta rischio di creare scompiglio e di non godermi la serata? In queste condizioni, sono già contento di non essere caduto in certi stereotipi del maschio gay depresso».
Ovvero?
«Conosco molti che sono diventati dipendenti dalle chat o dai locali. Ha mai passato una serata a cena con un gruppetto di gay che hanno quel tipo di applicazione sul cellulare, quella che ti dà anche la localizzazione degli altri utenti? Stanno tutto il tempo a vedere chi c’è nei paraggi e non c’è verso di scambiare più di cinque parole. Quel genere di frequentazione non è il massimo, soprattutto per le persone sensibili. Alla fine ti ritrovi ancora più solo e triste. Io triste, almeno, non lo sono».
Però, perdoni, lei una o due relazioni le ha avute. Quelle persone le avrà incontrate da qualche parte, no?
«Una. Con la stessa persona, ma divisa in due fasi. E, comunque, ha ragione: ci siamo conosciuti in un locale grazie a un amico comune che ci presentò. Era il giorno di Natale, ero annoiato, non avevo voglia di andare da nessuna parte, in quel posto non ero mai stato prima. E quando mi sembra che non possa succedere più, mi appiglio proprio al pensiero che quella volta è capitato».
Che cosa intende quando dice «la stessa relazione in due fasi»?
«Che c’è stata una rottura, anzi un allontanamento che io, allora, pensavo fosse definitivo. E, invece, qualche tempo dopo, ci siamo ritrovati. In totale, se calcolo la pausa di quattro mesi come parte della relazione, siamo stati insieme quattro anni».
Mica poco.
«Sono un sentimentale, gliel’ho detto. Mi piace vivere la coppia, pianificare, fare le cose insieme. Anche se, in certi momenti, ho bisogno di rinchiudermi nel mio guscio. Non perché non voglia stare con l’altra persona, ma perché sono fatto così».
È per questo che vi siete allontanati?
«No. Non c’è stato un vero e proprio problema. Succede: uno va in una direzione, l’altro in una direzione diversa».
Di figli con lui aveva mai parlato?
«No».
Di matrimonio?
«A sposarmi non ci ho mai pensato. Mi viene in mente quando, durante il programma radio di Fabio Volo, trasmisero il discorso di Zapatero il giorno dell’approvazione della legge sulle nozze gay in Spagna. A un certo punto Volo disse: “Non è che io non sia a favore del matrimonio gay, è che non sono a favore del matrimonio in genere”».
Condivide?
«I miei genitori sono sposati da 35 anni, grazie a loro ho capito quanto lavoro e impegno serva per far durare una coppia. Non sono contrario per principio, come le ho detto, semplicemente non ci ho mai pensato, un po’ perché per tanti anni non c’è stata la possibilità e un po’ perché non è un obiettivo cui aspiro di per sé».
Parlando di diritti dei gay in generale, lo sa vero che il suo coming out ha aiutato un sacco di persone?
«La verità è che l’ho fatto per me stesso. Ma dopo la pubblicazione di quell’articolo su Vanity Fair, molti mi hanno raccontato storie commoventi. In particolare mi ricordo di un padre e una figlia, a Madrid. Per anni lui l’aveva accompagnata ai miei concerti, e mi disse: “Faccio il panettiere, il mio è un ambiente di lavoro omofobo, volevo ringraziarti perché mi hai regalato un’immagine positiva dell’omosessualità. Ma se la gente fa fatica ad accettare i gay, la colpa è anche vostra che non spiegate chi siete alle persone semplici come me”. Fino a quel momento non lo avevo capito così bene».
C’è una causa che le piacerebbe sostenere grazie alla sua popolarità?
«Non so. Però, mi fa male vedere che in giro ci sono tante persone che si danno da fare per limitare il diritto degli altri a stare bene. Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui le persone fossero felici per la felicità altrui. Le coppie gay sono un dato di fatto: perché scendere in piazza per protestare contro la loro esistenza? Io non me ne intendo di leggi o di politica ma, per esempio: perché accollarsi tutta quella fatica per rendere nulle le registrazioni delle coppie gay fatte dal sindaco di Roma Marino (l’atto di annullamento è stato inviato dal prefetto Giuseppe Pecoraro, ndr), quando in Italia c’è tanto altro da fare? Non siete d’accordo, e va bene, ma davvero vale la pena di spendere tutto quel tempo e quelle energie?».
Almeno sul fronte della Chiesa cattolica qualche passo avanti c’è stato.
«Devo dire che mi sento molto a mio agio con questo Papa, e gli voglio bene. Sono cresciuto in una famiglia cattolica e mi considero un praticante anche se a modo mio. È bello svegliarsi la domenica mattina e sentire finalmente un pontefice che parla di misericordia, altruismo, comprensione, condivisione, amore. Amore, porca miseria».