Dario Di Vico, Style 12/2014, 26 novembre 2014
IMPRESE STRANIERE. DA SFRUTTARE
Sull’affermazione che dobbiamo attrarre le multinazionali a insediarsi nel nostro Paese nessuno – e ci mancherebbe – ha niente da obiettare, ma l’accordo di merito si ferma qui. La vulgata politica e anche giornalistica conduce a pensare che una volta acquisita la decisione di un’impresa straniera di impiantarsi in Italia il compito sia terminato e ci si possa dedicare ad altro.
E invece no, nei fatti la politica e anche il sistema imprenditoriale associativo dovrebbero imparare a dialogare con le multinazionali ben oltre il mero ingaggio, dovrebbero seguire l’evoluzione della loro azione sul territorio e via via – se possibile – giocare di sponda. Come italiani siamo angustiati da una sorta di complesso degli assetti societari, poniamo maggiore attenzione alla proprietà che alle scelte concrete che un’impresa adotta sul territorio.
Ci sono invece rilevanti esempi di prodotti italiani che hanno avuto la possibilità di diventare globali e di sfondare in Paesi lontani proprio in virtù delle risorse che un’azienda multinazionale ha voluto e saputo investire sulla loro qualità. Molto probabilmente un proprietario italiano non sarebbe stato in grado di fare la stessa cosa, almeno nelle stesse proporzioni. Quello che ci manca dunque è un modello di monitoraggio prima e di negoziazione dopo con le imprese straniere che comprano asset italiani e ci difetta anche un adeguato dialogo con i country manager, gli uomini che decidono le scelte per l’Italia e che in ambito societario possono sostenere le ragioni di un incremento degli investimenti nel nostro Paese. In molti territori e distretti la cultura industriale italiana si presenta di assoluta qualità internazionale e anche quando cambiano le proprietà delle imprese il nostro saper fare resta vincente. Come nell’antica Grecia abbiamo anche noi tante piccole Atene capaci di dispiegare la propria egemonia culturale anche dopo essere state conquistate da eserciti stranieri. L’elenco sarebbe lungo e potrebbe partire dai calzaturifici della Riviera del Brenta per passare alle ceramiche di Sassuolo arrivando a numerosi distretti agro-alimentari. Di recente ci sono state scelte da parte di multinazionali di utilizzare gli stabilimenti italiani per produrre beni destinati a importanti mercati terzi e ciò nonostante il costo del lavoro più alto e anche le procedure burocratiche che purtroppo continuano a penalizzare il fare impresa nel Belpaese. Ci sono tutte le condizioni, quindi, per renderci conto di queste potenzialità e farle diventare parte di una rinnovata politica industriale che per comodità chiameremo «non statale». È singolare, infatti, come da noi si consideri strategico l’ingresso dello Stato in un’azienda, magari solo per salvarla dal fallimento, e invece si sottovalutino le ricadute sistemiche di un maggiore impegno delle multinazionali.
Non va dimenticato, tra l’altro, come all’interno di molte grandi imprese straniere sia possibile trovare in posizioni apicali manager italiani. Sottolineo quest’elemento non pensando di poter lucrare su una sorta di complicità nazionale a prescindere dalle convenienze di mercato, ma per sottolineare come anche la cultura manageriale italiana si sia dimostrata in grado di produrre professionalità di primissimo piano apprezzate dagli head hunter di mezzo mondo.