Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 26/11/2014, 26 novembre 2014
ABBAGLI SU SALVINI E SU GRILLO
[Intervista a Philippe Ridet] –
Philippe Ridet, classe 1955, è il corrispondente di Le Monde dall’Italia. Viene da Louhans, delizioso paesotto, meno di 7mila anime, della Borgogna, tutto portici e case basse, appoggiato alla Seille, un affluente della Saona, grande fiume navigabile de l’Est francese. Monsieur Ridet, prima di arrivare a Roma, aveva seguito per 15 anni, le destra transalpina, quella di Jacques Chirac prima e di Nikolas Sarkozy poi.
In Italia dal 2008, ha fatto in tempo quindi a osservare un bel po’ di politica italiana.
Soprattutto, essendo incline a scrivere quello che pensa, ha fatto in tempo ad attirarsi le antipatie del Quirinale, appena arrivato, per un suo articolo considerato irriverente verso Giorgio Napolitano, e una nota durissima della Repubblica di S. Marino, per un reportage che fece dal Monte Titano, dove si sentirono messi alla berlina. Oltre al prestigioso quotidiano, le sue corrispondenze si trovano sul blog «Campagne d’Italie», sul sito di lemonde.fr, dove verga post sapidi e scritti in un francese assai forbito.
Domanda. Ridet, lei ha raccontato gli ultimi quattro governi italiani. Che cosa pensano i suoi connazionali della politica d’Oltralpe?
Risposta. C’è un sentimento complesso e non semplice da raccontare. So, viceversa, cosa ho scritto io.
D. E cioè?
R. Beh quando sono arrivato c’era Silvio Berlusconi che conoscevo sin dalla sua discesa in campo nel 1994. Sono arrivato avendo uno sguardo non troppo duro su di lui, non volendo unire la mia voce al coro internazionale che lo criticava severamente. Mi sono sforzato di vederlo come fenomeno politico, voglio dire, essendo un giornalista che s’è sempre occupato di politica.
D. E come l’ha trovato?
R. Per la verità non così forte, né sul piano strategico, né su quello tattico, insomma mi ha dato l’impressione che fosse al potere soprattutto in virtù della sua grande influenza economico-finanziaria, insomma che i soldi avessero contato molto. Ma poi ha fatto tutto da sé...
D. In che senso?
R. Nel senso che sono arrivate, una dietro l’altra le storie con le ragazze o le donne, da Noemi a Patrizia. Senza contare poi il Bunga Bunga. E ho raccontato questo clima, un po’ da Basso Impero, anche perché, al tempo stesso, andava in scena la fine politica di Umberto Bossi.
D. Poi è arrivato il professor Mario Monti...
R. Sì e io, come molti Francesi, come gli stranieri in generale del resto, abbiamo applaudito quell’ascesa. Alla fine questo Paese, mi dicevo, diventerà un po’ noioso, come d’altra parte invocava Monti stesso: «Sogno un Paese dove ci siano notizie normali». A rileggerle oggi, quelle corrispondenze, mi paiono strane.
D. Per quale motivo?
R. Per come l’Italia ha girato pagina in fretta, anzi a una velocità incredibile: erano tutti diventati montiani in un paio di mesi.
D. E invece, niente. Finito anche lui.
R. Esatto. Dopodiché è stato assai rilevante il fenomeno di Beppe Grillo, col risultato di febbraio 2013, alle politiche.
D. Una sorpresa?
R. In quelle proporzioni sì. E la cosa, lo confesso, mi ha fatto arrabbiare con gli Italiani.
D. Ah, e che avevamo combinato?
R. Perché vedevo delle spiccate intelligenze individuali che, sommate assieme, non fanno un’intelligenza collettiva. Il M5s ne era la dimostrazione: non ho mai scommesso un euro sul fatto che Grillo potesse essere una cosa seria. Mai.
D. E Grillo non l’ha messa all’indice sul suo blog?
R. No, non gliene frega niente della stampa estera.
D. Capisco. Ma torniamo agli Italiani, che con Grillo l’avevano delusa...
R. A quell’epoca mi avevano messo molto a disagio. Mi dicevo: non hanno nessuna voglia di essere salvati, se basta il primo demagogo che arriva e un elettore su quattro lo segue. E poi siamo arrivati al governo attuale...
D. Peraltro in mezzo ci sarebbe l’esecutivo di Enrico Letta.
R. Massì, Letta è passato veloce. Una brava persona, l’ho anche conosciuta, forse il più filo francese fra i premier dell’ultimo periodo e che parlava perfettamente la mia lingua. Non gli è stato dato molto tempo. O meglio, Renzi non gliene ha dato.
D. A febbraio di quest’anno è arrivato a Palazzo Chigi l’attuale segretario del Pd. Come l’ha accolto?
R. Con un po’ di prudenza. Dopo tutti quei cambiamenti, ero anche un po’ scettico. Ho subito notato però alcuni elementi comuni con Manuel Valls.
D. Il vostro primo ministro...
R. Certo. Alla fine erano entrambi esponenti della minoranza dei rispettivi partiti: Renzi aveva perso le primarie del 2012 contro Pier Luigi Bersani e anche Valls era andato male, l’anno prima, in quelle del Ps, doveva aveva avuto meno del 6% e aveva prevalso Francois Holland. Ma li accomunano anche i problemi: entrambi devono cambiare i loro partiti e i loro Paesi.
D. Dopo tutti questi anni, qual è la difficoltà maggiore per un corrispondente straniero che osservi la politica italiana?
R. Mantenersi freddi e soprattutto non cadere nelle trappole della stampa italiana che, di un politico, un giorno dice tutto il bene possibile e l’indomani ne butta via tutto.
D. Renzi è stato molto criticato per essersi accordato con B..Lei come ha visto questa intesa?
R. Le riforme si fanno con tutti quelli che ci stanno, soprattutto quelle costituzionali, che richiedono la maggioranza qualificata del parlamento. L’ho scritto, senza però censurare che B. fosse un pregiudicato, che fosse stato condannato, né ho nascosto che Renzi, in questo modo, lo riabilitasse in qualche modo.
D. Ma della ragione vera del Patto del Nazareno, che idea si è fatto? Simpatia umana, interessi economici da difendere, exit strategy?
R. Sono tutte ipotesi che non si contraddicono l’un l’altra. C’è probabilmente un’ammirazione di B. verso Renzi perché le carte sono dalla sua: è giovane, ha la maggioranza, insomma è il futuro agli occhi di B. Ovviamente non credo che il Cavaliere sia una mammoletta, dopo decenni di politica. Tocca a Renzi far sì che le richieste di B. non passino il segno. E d’altra parte, sono anche convinto che la politica non riguardi solo gli ideali e che ci sia bisogno di sporcarsi le mani.
D. Che futuro vede per Renzi? Molti dicono che, essendo i suoi problemi legati all’economia e alla crisi, la sua riuscita dipenderà da come potrà convincere il Pse e i governi a guida socialista a sostenerlo nei confronti di Angela Merkel, per spingerla a rivedere la politica dell’austerità. Che ne pensa?
R. Prima di tutto ho l’impressione che Renzi abbia sbagliato una previsione.
D. E quale?
R. Quella sui tempi della ripresa. Lui ha creduto che fosse dietro l’angolo e per questo è voluto andare al governo. Se avesse saputo che lo attendevano almeno uno o due anni di piena recessione, forse ci avrebbe pensato sopra. Per quanto riguarda lo scenario europeo è realistico che lui cerchi di fare contrappeso alla Cancelliera, ma se Merkel cambierà orientamento lo farà per ragioni interne alla Germania stessa, che non cresce più. Non certo perché Renzi, con Holland e Mariano Rajoy glielo chiederanno.
D. Insomma lei è scettico su un asse Roma-Parigi...
R. È un’intesa sempre difficile da ipotizzare per diversi motivi.
D. Spieghiamoli...
R. Innanzitutto perché per i francesi, così come altri popoli europei, l’Italia non ancora un Paese di cui fidarsi pienamente. E poi c’è anche un motivo storico: noi abbiamo sempre guardato a Nord. Si tratta di un sentimento che non è nato adesso, e neppure nel Dopoguerra, ma una cosa che è vecchia di secoli.
D. Addirittura...
R. Sto rileggendo la storia dell’Alto medievo francese, quindi il periodo che va, grossomodo, dal 500 al 900 dopo Cristo. E si capisce bene che quando i Franchi superarono il limes per stabilirsi più a Sud, trovarono il Paese della cuccagna: la gente li attendeva a braccia aperte. E ci vuol tempo prima di mutare idee che durano da secoli.
D. Eppure si dice che Italia e Francia soffrano un po’ alla stessa maniera di questa austerità.
R. Noi francesi siamo delusi e depressi. Non siamo più la locomotiva d’Europa ma le alleanze congiunturali, chiamiamole così, come quella fra i nostri due Paesi, non si fanno dall’oggi al domani.
D. Oltre alla congiuntura, ci accumuna anche il populismo. Si guarda alla Lega di Matteo Salvini come filiazione della vostro Front National di Marine Le Pen. Come ha visto crescere questo nuovo Carroccio?
R. Vedo gli sforzi di Salvini per creare quella che Ilvo Diamanti ha chiamato «la Lega nazionale». Però se, domenica scorsa, in Emilia le cose sono andate bene, in Calabria non c’è stato un solo eletto. Il problema è sempre il solito: parlare a tutta la nazione. Non basta disinteressarsi del referendum della Scozia e ignorare quello della Catalogna per diventare nazionali. E se poi guardiamo nel dettaglio, scopriamo che in Emilia i voti sono più o meno gli stessi dell’ultima elezione. Insomma la scommessa è ancora da vincere per Salvini.
D. Che cosa gli manca?
R. Un programma. Oltre al «no euro» e al «basta immigrazione» non vedo molte idee. Non c’è una linea ideologica. Anche se Salvini è stato in tv ogni giorno negli ultimi due mesi, perché i media italiani sono alla ricerca di personaggi nuovi.
D. Questo lepenismo à l’italienne si realizzerà a danni del grillismo, come sembrerebbero confermare le elezioni regionali dei giorni scorsi?
R. Non credo. Il M5s è in difficoltà ma mantiene un consenso forte nei sondaggi: se dal 25% ottenuto alle elezioni sono ancora al 20, avendo fatto poco o niente, mi pare che ci sia una tenuta.
D. Nelle sue corrispondenze, ogni tanto abbandona la politica per cercare di spiegare un po’ l’Italia. Come la vede in mezzo a questa crisi? In fondo lei è arrivato quando tutto è cominciato.
R. Trovo che gli Italiani dimostrino ancora una capacità di sperare abbastanza forte. Quando torno in Francia e cerco di paragonare le due realtà, vedo un’Italia meno depressa che ha ancora voglia di credere. In Francia bruciano i politici in un paio di mesi e sono pronti a buttarsi nelle braccia di Marine (Le Pen, ndr).
D. E in Italia?
R. In Italia, avete Renzi. Alla fine potrà rivelarsi diverso da quello che promette di essere ma, insomma, è sempre meglio della Le Pen.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 26/11/2014