Mario Platero, Il Sole 24 Ore 26/11/2014, 26 novembre 2014
IL NODO RAZZIALE DI UN PAESE ANCORA FERMO AGLI ANNI ’70
Il giorno dopo, nel dibattito sulla sentenza di Ferguson e sugli incidenti di lunedì notte, ci sono tre tematiche dominanti su cui riflettere. Fra queste la componente economica e sociale è quella di cui si parla meno. Se ne dovrebbe parlare di più perché è alla radice del malessere che riesplode con puntualità preoccupante: se il tasso di disoccupazione americano è al 5,8%, quello per la popolazione nera è all’11,5% e per i teenager afroamericani arriva addirittura al 24%. Gli afroamericani poveri vivono ghettizzati, crescono in famiglie disfunzionali, in un ambiente dove prevale la cultura delle gang, della violenza e della droga.
Il fatto che ci sia un presidente afroamericano alla Casa Bianca e che molti neri siano ormai parte del “mainstream” e benestanti non ha cambiato un tessuto sociale che porta un poliziotto bianco a uccidere per paura un diciottenne disarmato. Con un interrogativo di fondo: come mai Barack Obama, il presidente afroamericano, ben conscio del “racial profiling” per un nero, per averlo provato lui stesso, non ha messo a punto un progetto economico e sociale per affrontare alla radice il problema razziale americano? Questo dovrebbe essere l’interrogativo di fondo su cui riflettere: perché Obama non dedica gli ultimi due anni del suo mandato a un progetto di emancipazione degli afroamericani?
Invece nei talk show si soffia sul fuoco della tensione. Il tema che prevale è la polemica sulla decisione del Gran Giurì di non incriminare Darren Wilson per l’omicidio di Michael Brown. Come ha detto con eloquenza Benjamin Crump, uno dei due avvocati della famiglia Brown, Mike è il simbolo della vulnerabilità dei giovani afroamericani a Los Angeles, a New York, a Cleveland, a Philadelphia e in molte altre grandi città americane dove l’essere neri equivale a essere colpevoli. Città dove giovani come Mike muoiono ogni giorno uccisi dalla polizia solo perché sono neri o perché abitano in ghetti degradati. L’ultimo caso è di due giorni fa a New York riguarda Akai Gurley, 28 anni, andava a farsi le treccine, aveva preso le scale, ma un poliziotto, una matricola, lo ha visto all’improvviso si è spaventato, aveva il dito sul grilletto e ha sparato accidentalmente uccidendolo sul colpo. Akai lascia due bambine ed è morto solo perché era nero.
Nel caso di Brown la famiglia continua a rifiutare il fatto che la reazione di paura di Wilson poteva essere giustificata da un attacco ingiustificato al poliziotto e dal fatto che Mike aveva rubato poco prima in un negozio. Ma oggi si parla di Mike e non si parla di Akai. Dietro il simbolo Mike ci sono gli Al Sharpton gli attivisti civili di pasta molto diversa da quella di Martin Luther King, che invece del pacifismo stimolano la resistenza e il conflitto.
C’è anche un terzo aspetto: lavorare per il recupero di un rapporto più sano con la polizia. Trovare una soluzione per diminuire il numero dei ragazzi uccisi per nulla. Una di queste è stata proposta ieri, la legge Michael Brown: vuole obbligare i poliziotti a indossare sempre una videocamera. Forse un’iniziativa utile. Ma non risolutiva. Colpisce come il dibattito il giorno dopo sia soprattutto su questo: sulle carte del Gran Giurì, sulle ingiustizie, sui rapporti con la polizia, sicuramente una delle più violente del mondo. Ma nel 2014 non si può essere fermi al 1970. Soprattutto quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Non sappiamo se lo farà, ma un progetto da costruire coi repubblicani per affrontare il problema razziale americano dovrebbe diventare una priorità per Obama. E una proposta nuova, possibile, con investimenti massicci in educazione e in addestramenti, in assistenza sociale per le famiglie in maggiore difficoltà potrebbe diventare uno dei grandi successi della sua amministrazione. Strano in effetti che con molti afroamericani alla Casa Bianca - oltre a Barack Obama ci sono da Valerie Jarrett, Susan Rice e naturalmente Michelle Obama, ancora non sia pensato seriamente anche a questo.