Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 25 Martedì calendario

IL PROBLEMA È CHE LE TV, PER GUADAGNARE UN PUNTO DI SHARE, STANNO LINCIANDO LA NOSTRA INTELLIGENZA E NOI, BOVINAMENTE, L’ACCETTIAMO

Confesso di provare un profondo disagio nell’affrontare il tema della recente sentenza della Cassazione sui morti causa amianto Eternit. Un pessimo «segnale debole» del nostro degrado culturale. È facilissimo scrivere frasi del tipo «Eternit, sentenza beffa», oppure «Tremila morti, nessun colpevole», ovvero «Nessuno pagherà per Eternit», o ancora, con la classica ironia di Jena «Condannato l’amianto, assolto chi l’ha messo». Intendiamoci, tutte contenevano delle verità incontrovertibili. Peccato che questo processo non fosse sulle morti per l’amianto, ma si riferisse al reato di disastro ambientale. Noi dei media avremmo dovuto spiegare ai nostri lettori la tipologia del reato e del processo.
Dovevamo riportare i pareri di molti esperti, che da sempre sostenevano come per questo reato la data di riferimento per la prescrizione fosse il 1986, quando fu chiuso lo stabilimento. Dobbiamo chiederci se sia stato giusto: a) non approfondire questo aspetto rilevante (a scanso di equivoci, ricordiamo che le leggi di Berlusconi per la prescrizione abbreviata mai hanno riguardato questo reato); b) «scaricare» sui giudici di Cassazione che hanno il compito di applicare la legge, non praticare una giustizia giustizialista; c) spiegare che diverso sarebbe stato il caso in cui il reato da perseguire fosse stato quello di omicidio, incardinato però solo un anno fa (perché?), questo sì non soggetto a prescrizione (se non con la morte dell’imputato, vedi il Barone belga Louis de Cartier).
A sentenza avvenuta, avremmo dovuto dare ampio spazio all’intervista del Procuratore Guariniello, vero attore di questo processo. Ebbene, Guariniello ha scelto dieci anni fa, sua sponte, di perseguire il reato di disastro ambientale, dandogli, come scrive lui stesso, l’interpretazione di «un evento che si sviluppa nel tempo», quindi, secondo lui, non prescrivibile. Quando leggeremo le motivazioni scopriremo che forse la Suprema Corte ha dato un’altra interpretazione: per definizione sarà però quella corretta. La stessa Svizzera, di cui Stephan Schmidheiny è cittadino, già nel 2008 aveva sancito questo principio. Al solito, i politici nella loro ricerca del consenso, cavalcando l’ira popolare, promettono sciaguratamente di aumentare la durata della prescrizione, senza rendersi conto che il processo per essere «giusto» deve avere un inizio e una fine in tempi ragionevoli (leggasi brevi).
Non c’è dubbio che Stephan Schmidheiny nel momento stesso in cui è venuto a conoscenza del pericolo amianto fosse colpevole, senza se e senza ma, e dovesse pagare, sia con la galera che col suo patrimonio, ma solo nell’ambito della legge, non di una inaccettabile piazza mediatica, sfruculiata da incoscienti. È curioso come sia evoluto il rapporto con la giustizia negli ultimi vent’anni. Siamo diventati una società dominata dal politicamente corretto, ove uno sconcio «buonismo» la fa da padrone da anni, eppure ogni tanto, a fronte di certi casi, tutti noi ci trasformiamo in tanti giudici Lynch, come nei film western della mia giovinezza.
A New York si è recentemente chiusa una mostra ricca di documenti storici (materiale grafico e fotografico) sul «linciaggio», pratica nata negli Stati Uniti, per il ruolo svolto da un ufficiale-agricoltore della Virginia. A fronte di reati giudicati efferati, Charles Lynch faceva a meno dei giudici, e applicava appunto la «legge di Lynch», che aveva come conclusione l’impiccagione dei rei, veri o presunti. Media e social network stanno diventando sempre più simili agli Stati americani della «Bible belt» dell’800, una specie di «Gotico italiano intellettualoide».
La documentazione fotografica della mostra mi ha ricordato i talk show pomeridiani di Mediaset e Rai. Questi campano individuando un poveraccio che ha ricevuto un banale avviso di garanzia, lo trasformano, neppure in un mostro, in un mostriciattolo, non ancora colpevole ma ormai mediaticamente presunto tale, improbabili ragazzotte/i con un «gelato» in mano percorrono ogni giorno oscuri sentieri di campagna o vicoli cittadini, intervistando chiunque capiti a tiro, dal parroco all’ex gestore di un forno crematorio abbandonato, ricevendo risposte idiote a fronte di domande idiote. Una compagnia di giro di ex poliziotti, criminologi, psichiatri, fanno colore, ripetendo stanche banalità. Senza neppure accorgersene, queste trasmissioni fanno enormi danni, non solo ai presunti innocenti, ma alle forze dell’ordine, ai magistrati, ai veri professionisti della giustizia, con una drammatica ricaduta (culturale) su noi cittadini.
Massicce dosi giornaliere di informazioni di tal fatta portano i più «deboli» di noi a una pericolosa semplificazione di problemi complessi, come avveniva nelle terre ottocentesche americane dominate dalla «legge di Lynch». Il vero dramma è che le TV, per qualche miserabile punto di share, stanno «linciando» la nostra intelligenza, e noi, bovinamente, l’accettiamo.
Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 25/11/2014