Gabriele Ferrari, Focus 12/2014, 25 novembre 2014
DELITTI NELLA SAVANA
[dati alla fine]
John Donne, poeta inglese del Seicento, li definiva “il grande capolavoro della natura”, l’unica creatura “gigantesca e innocua” che camminasse su questa Terra. Non sarebbe d’accordo con questo ritratto idillico Lameck Chisangu, 34 anni, guardaparco, ucciso lo scorso settembre da un elefante fuggito dal branco e finito, in piena notte, nel mezzo di un villaggio dello Zambia. E neppure la femmina di rinoceronte che, nel tentativo di proteggere il figlio da un elefante imbizzarrito, sempre a settembre ha perso la vita in un parco sudafricano, davanti a un attonito gruppo di turisti. Com’è possibile che un animale sacro a miliardi di persone nel mondo, ammirato per la sua intelligenza e la sua prodigiosa memoria, si sia trasformato in un killer a sangue freddo?
LOTTA TRA GIGANTI. Il primo allarme sulla condizione mentale delle tre specie di elefante che popolano il pianeta arrivò vent’anni fa, proprio per un tentato genocidio di rinoceronti africani: nel 1994, 63 rinoceronti maschi furono uccisi, e le loro femmine stuprate, nel parco di Pilanesberg, in Sudafrica, da un gruppo di giovani elefanti che erano arrivati qualche anno prima dal parco nazionale Kruger. Da allora, però, i ricercatori sono riusciti a ricostruire le ragioni di questi comportamenti estremi, e vari Paesi dell’Africa hanno cominciato a intervenire (anche se, come si è visto, la situazione non si è ancora risolta). Spiega Marion Garaï, presidente dell’Elephant Specialist Advisory Group africano: «Negli anni Ottanta e Novanta, si sfoltì la popolazione di elefanti nel parco Kruger, che aveva raggiunto gli 11 mila esemplari, mentre lì non ne potevano sopravvivere più di 8 mila. Molti adulti vennero uccisi, e i loro figli furono trasportati in altri parchi africani, nel tentativo di ripopolarli. Anni dopo il trasloco, tuttavia, in quelle riserve si cominciarono a registrare problemi con gli adolescenti, troppo bellicosi: cresciuti senza una guida adulta, abbandonati a fondare una società dal nulla, gli elefanti sono impazziti».
PERICOLO ORFANI. Nessuno studioso, all’epoca, aveva previsto che sarebbe andata a finire così: «È solo dagli anni Novanta, grazie ai lavori di Cynthia Moss nell’Amboseli Elephant Research Project in Kenya, che abbiamo cominciato a capire qualcosa sull’intelligenza degli elefanti e sul loro comportamento sociale», ci spiega Philip Muruthi, direttore della conservazione nell’African Wildlife Foundation. «I giovani pachidermi, si è scoperto, devono crescere vicino agli adulti, perché è imitandoli che imparano a comportarsi bene». Gli esemplari più anziani sono in grado di trasmettere ai più piccoli conoscenze importanti: per esempio dove trovare l’acqua in condizioni di siccità estrema, o da quali zone girare alla larga per non incappare in esseri umani.
Tutti gli elefanti di Pilanesberg invece erano orfani, rimossi con violenza dal luogo dove erano nati, spesso figli di femmine giovani e cresciute esse stesse senza la guida di una matriarca, la più vecchia del branco: «È lei l’influenza più importante per il gruppo. Se viene a mancare, o se i suoi figli vengono trasferiti a forza, le conoscenze di un’intera popolazione vanno perdute». Questa è la lezione che abbiamo imparato a Pilanesberg. Ogni branco di elefanti è infatti composto da 10-20 individui tra femmine e cuccioli. Guidati dalla matriarca tengono ai margini del gruppo i maschi che hanno più di 12-15 anni, e li allontanano progressivamente fino a costringerli ad associarsi con altri maschi (in bande da 10 a 100 individui), oppure alla solitudine.
COME IN GUERRA. «Non esistono patriarchi nei gruppi di maschi», sottolinea Vicki Fishlock, che all’Amboseli Elephant Research Project ha dedicato la sua vita di ricercatrice. «Certo, ci sono esemplari dominanti, ma i legami non sono permanenti. Il “branco maschile”, per così dire, non esiste: i maschi adulti di un gruppo orbitano intorno a femmine e cuccioli. I giovani maschi imparano a comportarsi guardando gli adulti e in questo modo si integrano nella società. È quando manca un modello a cui ispirarsi che diventano problematici. Senza un adulto a tenerli al loro posto, i giovani non subiscono le conseguenze nemmeno delle azioni più orribili e diventano violenti». In natura, invece, di norma i branchi sono così numerosi e uniti che anche le conseguenze della morte di un genitore possono venire riassorbite dall’amore del resto del gruppo. «Gli elefanti sono gentili tra loro, sono felici di fare nuovi amici e di ricostruire legami lì dove sono venuti a mancare», aggiunge Fishlock. «Quando, però, l’uomo ci ha messo la mano, distruggendo la struttura sociale, è riuscito a far precipitare molti di questi giovani negli abissi del Ptsd». Ptsd, cioè Post-traumatic stress disorder, disordine da stress post-traumatico: lo stesso che colpisce i reduci di guerra, terrorizzati dai fuochi d’artificio o dallo sbattere di una porta, e che trasforma in un incubo la vita di chi da piccolo ha subito violenza.
Nel 2005, l’etologa (e fondatrice dell’associazione Elephant Voices) Joyce Poole lanciò infatti dalle pagine della rivista Nature una teoria che al tempo sembrava provocatoria, e che ora è da tutti riconosciuta come l’unica spiegazione plausibile: quello che sta succedendo agli elefanti, diceva, non è altro che un’ondata di Ptsd. Gli elefanti delle riserve africane ne soffrono e «ogni esemplare sopravvissuto a un abbattimento selettivo o a un attacco da parte di bracconieri vive sotto un costante stato di stress, che può influenzare negativamente le sue funzioni riproduttive e il suo sistema immunitario, oltre a renderlo ipersensibile agli stimoli esterni. Una condizione che lo spaventa e lo fa diventare aggressivo», spiega Fishlock. Aggiunge Garaï: «Altra conseguenza dei traslochi forzati è l’insorgere nei maschi, a un’età precoce, del musth, cioè quel fenomeno che una volta l’anno fa schizzare alle stelle i livelli di testosterone. I maschi in musth diventano più aggressivi e di solito sono tenuti a bada dagli esemplari più anziani: è l’assenza di questi ultimi che ha portato agli attacchi ai rinoceronti. Da quando le direzioni dei parchi africani decisero di reintrodurre anche esemplari adulti nei recinti, il fenomeno non si è più verificato».
AVORIO DI SANGUE. Nonostante qualche caso isolato, come quelli dello scorso settembre, pare che un po’ ovunque gli elefanti stiano tornando alla normalità, e i loro consunti legami sociali si siano lentamente ricuciti. «Negli ultimi anni, infatti, alcuni Paesi hanno cominciato a cancellare i confini tra parchi, permettendo agli elefanti di muoversi liberi, e ad aprire corridoi ecologici per connettere aree separate», osserva Garaï. I rapporti con gli uomini, però, sono tesi (soprattutto per colpa nostra): nel solo Kenya dal 2007 a oggi 200 persone sono state uccise da elefanti, e anche in India le vittime sono un centinaio l’anno. Sull’altro versante c’è il massacro degli elefanti in Africa, per l’avorio; nel 1914 esistevano 5 milioni di Loxodonta. Oggi, la cifra oscilla tra i 470 mila e i 690 mila.
Nel 2010, il consumo di habitat e le richieste di avorio sul mercato nero hanno portato per la prima volta in negativo il rapporto tra esemplari nati e morti in Africa; al ritmo attuale, entro 30 anni le tre specie di elefante si estingueranno. I numeri sono impressionanti: solo nel 2013, sono stati uccisi tra i 30 mila e i 50 mila elefanti, «e sono stime al ribasso», spiega Isabella Pratesi, direttore della conservazione internazionale del Wwf Italia. «È indispensabile fermare il bracconaggio e strozzare il mercato nero», sul quale un chilo d’avorio può valere 3 mila dollari. «Si darebbe un colpo importante al terrorismo internazionale».
Perché, paradossalmente, è proprio la pessima notizia dei rapporti stretti tra terrorismo e avorio ad avere spinto i governi di tutto il mondo a preoccuparsi dell’elefante: «Ormai parliamo di un traffico da 10 miliardi di dollari l’anno, il quarto business criminale più redditizio dopo le droghe, il traffico di esseri umani e quello di armi», commenta Garaï. «I governi di tutto il mondo se ne sono resi conto, e hanno cominciato a prendere provvedimenti. Finché però non riusciremo a fermare la Cina, che è il più grande acquirente di avorio al mondo, non potremo dire di avere vinto», dice Pratesi. Se vogliamo far rinsavire gli elefanti, insomma, dobbiamo vincere una guerra. E alla fine, conclude Fishlock, «restituire loro l’Africa. Se lo meritano».
Gabriele Ferrari
dati:
CARTA DI IDENTITÀ–
PESO DA ADULTO: 3.800-5.100 kg (elefante africano).
ALTEZZA: un maschio di elefante africano (Loxodonta africana) è alto mediamente 3,20 m alla spalla, ma può raggiungere i 4 m. L’elefante africano di foresta (Loxodonta cyclotis) tocca i 2,5 m, quello asiatico (Elephas maximus) raggiunge i 2,7-3 m.
HABITAT: Africa subsahariana, Asia.
DURATA DI VITA: 70 anni.
DIETA: erbivoro.
CARATTERISTICHE: l’elefante africano è dotato, come l’asiatico, di una proboscide prensile, munita di oltre 100 mila fasci di muscoli. Due protuberanze (“dita”) alla fine dell’appendice (una nell’elefante asiatico) gli permettono di afferrare gli oggetti.
Infanzia:
Nascita. 0 mesi. A 120 kg un elefantino appena nato pesa più di un uomo adulto.
Primi passi. 2 ore. 22 mesi nella madre hanno arcuato le zampe del piccolo.
Allattamento. 0-3 anni. I maschi, più grossi, succhiano più latte delle femmine.
Giovinezza:
Proboscite. 1-5 anni. Migliaia di muscoli da controllare per usare l’appendice.
Svezzamento. 2-4 anni. I più piccoli succhiano finché nasce un fratellino.
Maturità:
Maturità sessuale. 12-14 anni. Gli elefanti non si accoppiano prima dei 20 anni.
Abbandono del branco. 12-14 anni. I maschi vivono da soli o con altri scapoli.
Riproduzione. 20-50 anni. La femmina partorisce un piccolo ogni 5-6 anni.
Educazione. 20-50 anni. Il maschio non si occupa di educare la prole.
Vecchiaia. Oltre i 50 anni. Vivono fino a 70 anni; le femmine dai 50 fanno le “nonne”.