Stefano Bucci, Corriere della Sera - La Lettura 09/11/2014, 9 novembre 2014
LE MANI DI ZEC: IO SONO IL PIÙ BRAVO
Safet Zec non ha molta voglia di parlare. Eppure il pittore della nuova Deposizione nella chiesa romana del Gesù, al quale la Fondazione Benetton Studi e Ricerche dedica una mostra che si apre sabato 15 negli Spazi Bomben di Treviso, di storie da raccontare ne avrebbe tantissime. E non sempre sarebbero allegre o edificanti. Perché le cose, le persone, gli alberi e i luoghi di Safet (questi i quattro punti cardinali dell’esposizione curata da Domenico Luciani) si intrecciano indissolubilmente con il tragico destino della Bosnia Erzegovina. Un intrico tristemente grottesco che in un incendio scaturito «da una delle tante guerre che hanno attraversato Rogatica», piccolo borgo sulle montagne tra Sarajevo e Visegrad, ha fatto perdere al penultimo degli otto figli del calzolaio Mehmed Zec e di Fatima Koro persino il giorno e il mese della nascita. Gli sono rimasti soltanto la certezza dell’anno, il 1943, e del luogo, Rogatica.
Così la vita di Safet Zec (musulmano d’origine benché non praticante, sposato con la cattolica Ivanka, padre di due figli agnostici) sembra costantemente sospesa nell’incertezza: non si sa quando si trasferisce con la famiglia a Sarajevo (forse tra il 1943 e il 1944); non si sa niente (o quasi) dei suoi quadri dipinti del 1963, anno della bocciatura all’esame di ammissione all’Accademia di Arti Applicate di Belgrado, a cui reagirà «distruggendo quello che stava facendo in quel momento»; ben poco si conosce anche del passato della casa-studio di Pocitelj, incendiata, saccheggiata e derubata di tutte le lastre incise in vent’anni di lavoro prima del 1992. Eppure si tratta pur sempre di uno dei «principali esponenti del realismo poetico» nonché dell’autore «dei ritratti del maresciallo Tito forse più conosciuti al mondo», quelli che, alla sua morte nel 1980, avevano invaso la Jugoslavia.
Lo studio veneziano di Zec, a San Francesco della Vigna, sembra ispirarsi a questa sua particolare idea di incertezza: vecchie gabbie vuote, una poltrona viola molto consumata davanti a un tavolino basso dove sono poggiati piccoli vassoi colmi di noccioline, un pavimento di legno costellato di gocce di smalto colorato, pennelli di ogni genere e di ogni dimensione, tele arrotolate oppure appoggiate contro il muro. Uno spazio privo di ogni ordine e regola, ma solo all’apparenza: perché in questo piccolo grande mondo regnano sovrane «la forma» e «il saper dipingere bene», concetti che Zec ribadisce con insistenza: «C’è qualcosa di sacro e di bellissimo in tutto quello che è fatto bene. Non mi piace l’astratto — dichiara a “la Lettura” — perché è qualcosa di incompiuto e vuoto. Guardi queste mani che ho dipinto...: non credo che ci sia qualcuno bravo quanto me. Ma non critico gli artisti-star come Cattelan, perché credo che sappiano fare bene il loro mestiere. Tuttavia le loro sono opere che per me non significano niente». Non è quindi nemmeno un caso che, in questa sua ansia del «fare bene», Safet sia finito in quest’angolo di Venezia, a cinque minuti dalla Scuola degli Schiavoni e dalle mirabili storie dei Santi Girolamo, Giorgio, Trifone e di Agostino (con tanto di leoni, draghi e basilischi ammansiti): «Ci torno ogni volta che posso».
Venezia sembra essere stata da sempre nel destino di Zec: a Piazza San Marco era stata dedicata la sua tesi di laurea in storia dell’arte mentre, dal 1998, l’artista si divide di fatto («da pendolare») tra la Bosnia e la Laguna. «La prima volta sono arrivato quasi per caso. Ero un adolescente in gita con la mia scuola e mi hanno letteralmente “perso” in un’area di servizio sull’autostrada, ma poi li ho ritrovati tutti in piazza San Marco». A Venezia, Zec e la moglie Ivanka arriveranno ancora una volta attraverso traversie infinite: nel marzo 1992, «mentre in città echeggiano i primi spari e arrivano le prime granate», la coppia parte per Belgrado «dovendo far firmare i visti per i figli in fuga verso Montreal». Poi però non riesce più a rientrare e inizia un pellegrinaggio che li porterà a Vienna, a Lubiana e infine a Udine, dove troverà «la solidarietà e l’aiuto» dello stampatore Corrado Albicocco. Lascerà Udine per Venezia sei anni dopo. E a Zec che cosa piace oggi di questa città assediata dal turismo? «Proprio l’affollamento e la contaminazione di genti, razze, lingue. Un equilibrio che la guerra può distruggere in un attimo come ha fatto con me e con il mio Paese». Agli orrori della guerra (che lo ha privato del fratello Omer e del cognato Avdo), e in particolare al massacro di Srebrenica, aveva tra l’altro dedicato nel 2009 l’opera 11 Juli .
La mostra di Treviso, dedicata a Alexander Langer (scrittore, intellettuale, esponente ambientalista altoatesino, del quale il prossimo anno ricorrerà il ventennale della scomparsa), prosegue idealmente il percorso del Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino assegnato quest’anno ai villaggi bosniaci di Osmace e Brezani. A Treviso ci saranno cestini, sedie, divani, cuscini, specchi, ma anche patate, pani, scorci frondosi, struggenti ritratti di acquarellisti: sono le cose, le persone, gli alberi, i luoghi di Safet Zec che, nelle sue opere più recenti, sembra aver riscoperto il fascino del bianco «con la sua bellezza, la sua purezza e il suo dolore», un bianco che guarda a Vermeer ma anche a Bacon e Freud.
Sono loro, con Michelangelo, i suoi grandi maestri, anche se il più grande resta Rembrandt che aveva così incantato l’artista appena quindicenne con quella riproduzione del Cristo che guarisce i malati (fissata con i chiodini nel corridoio della casa di famiglia a Sarajevo) «da farlo desiderare ardentemente di ripeterlo, disegnarlo, copiarlo». Quel Rembrandt «che riusciva a dare risposte alle mie domande più difficili». E l’incontro con papa Francesco per l’inaugurazione della Deposizione nella chiesa del Gesù a Roma? «Bellissimo. Ma altrettanto bello è stato vedere le persone che si inginocchiavano e pregavano davanti a quel mio dipinto».