Mario Serenellini, la Repubblica 9/11/2014, 9 novembre 2014
VALERIA GOLINO
Quando appare, l’aria si riempie di gioia. Non è più la ragazzina sconvolgente di trent’anni fa, gli occhi marini che affioravano dalla pioggia rotonda di fusilli corvini: adesso è una fiamma più pacata — almeno sembra — più assottigliata nel corpo e più dolce nella capigliatura a larghe onde, che lei, di tanto in tanto, risolleva e ricompone. La voce è invece sempre quella docile grattugia che ogni volta si sgrana dal suo volto infantile. «Sono stata doppiata solo in Italia: mai in America, dove mi hanno lasciato intatta anche la pronuncia». È subito battaglia. Sparite le timidezze degli esordi, Valeria Golino, quarantanove anni poche settimane fa, seconda figlia di un germanista napoletano e di una pittrice greca, ha ora la parola sicura, simpaticamente combattiva. Prima di tutto contro se stessa: «Io proprio non me lo meritavo il David per Il capitale umano di Paolo Virzì. Sono settantacinque, tra Italia, Francia e Stati Uniti, i film che ho girato, tutti con (mio) grande entusiasmo ma non tutti riusciti: saranno al massimo una quindicina quelli di cui vado fiera». Tra quei quindici, sicuramente Giulia non esce la sera di Giuseppe Piccioni, Storia d’amore di Francesco Maselli (Coppa Volpi a Venezia ‘86) e il recente Come il vento di Marco Simon Puccioni (premio Anna Magnani al Bif&st), titoli che Annecy Cinéma Italien ha riproposto in omaggio all’attrice, accolta da affettuosissimi applausi agli incontri condotti dal direttore del festival Jean Gili. Nella hit parade dell’attrice c’è, naturalmente, La guerra di Mario , di Antonio Capuano, anno 2005: «Lì dovevano darmi il David! Quello è un film dove ho riavuto tutta Napoli attorno: la metà di me più calda, anche più di quella greca. Capuano è regista fuori degli schemi. Sul suo set ho migliorato la recitazione e reimparato a parlare. Dagli anni Ottanta la parola, anche al cinema, è diventata colloquiale, domestica, spesso perdendo lo spessore del senso: e se il cinema non è solo parola quel film ha fatto però riemergere i significati ormai spariti del nostro vocabolario, restituendo a ogni termine la sua storia, la sua capacità di dire». L’altro film cui deve molto, che l’ha di nuovo riammessa al cinema italiano, dopo la lunga parentesi d’oltre Atlantico e d’oltralpe, è Respiro di Emanuele Crialese, dodici anni fa: «Ci sono voluti i francesi per scoprirlo e farne un successo internazionale: su quella spinta l’Italia, che l’aveva subito affossato, l’ha riesumato di corsa, in trenta sale, ma, di nuovo, senza successo. È un film che ci ha tenuti isolati per tre mesi a Lampedusa, in una situazione di allarme permanente per le incertezze dei pagamenti. Ma per tutti, incluso l’allora giovanissimo Elio Germano, ha rappresentato uno stato di grazia. Un film ipnotico. La prima volta che l’ho visto, ho sorriso». Un film, invece, che l’ha fatta piangere? « Rain Man. Sono stata alla prima con accanto gli altri due protagonisti, Tom Cruise e Dustin Hoffman. Ero disperata. Mi dicevo: non andrà a vederlo nessuno. Ma sono stata smentita. Rain Man, dopo ormai un quarto di secolo, continua a essere uno dei film del nostro immaginario. Privilegio di pochi titoli nella storia del cinema».
Niente da fare. Per la Golino, la cui vita privata è percorsa da forti passioni e amori invidiatissimi — da Peter Del Monte a Benicio del Toro, da Fabrizio Bentivoglio a Riccardo Scamarcio, suo compagno da otto anni — il cinema è sempre il soggetto di conversazione preferito, con inevitabili asprezze sul caso-Italia: «Da noi la cultura è sprofondata negli ultimi vent’anni. Il cinema, non solo d’autore, sta rischiando di diventare un fenomeno d’élite. E pensare che da noi, con la cultura — per riprendere l’infelice battuta di un politico — si mangerebbe molto meglio se soltanto, come avviene in Francia, fosse riconosciuta e aiutata. Paradossalmente, nonostante tutti i nostri problemi, e quelli del cinema sono solo una conseguenza, fioriscono tanti talenti, tra attori e tecnici. L’Italia manda segnali di risveglio».
Perché questa sua dedizione esclusiva al cinema? «Il teatro? In teoria sì, in pratica no. La reiterazione, sera dopo sera, non è nelle mie corde. Amo i momenti esplosivi, unici: sono l’ossessione di tutti noi interpreti». Eppure uno dei suoi ruoli più magici è quello di diva del teatro in Actrices, la regia migliore di Valeria Bruni Tedeschi e uno dei suoi numerosi film d’oltralpe: è da qui che le deriva l’eccellente francese? «No, è una vecchia storia. A diciannove anni, dopo il film di Maselli, ho subìto un grave intervento alla schiena: sono rimasta sei mesi bloccata a letto, con l’assoluto divieto del benché minimo movimento. Che fare? Ho deciso di imparare il francese. Veniva ogni giorno una giovane insegnante, che io guardavo così, da sotto in su, la testa inchiodata al cuscino. Ho imparato la lingua, leggendomi a rinforzo l’intera Recherche. Giuro. Non l’avrei mai fatto se non fossi stata malata».
Un’energia positiva permea i suoi personaggi, anche quelli drammatici: è poi difficile uscirne, reinserirsi nella vita quotidiana? «Non è così semplice come pensavo. Ti restano sempre addosso delle scorie, anche quando sei convinta d’essertene liberata. Conosco interpreti “tecnici”, che sanno staccare a macchinetta: quanto li invidio, io che mi do sempre anima e corpo. Ma c’è chi sta messo peggio di me: dopo Rain Man, Hoffman ha continuato per un anno e mezzo a parlare con la testa reclinata».
L’America, senza farsi intimidire dalla sua bellezza, ha fatto di lei una star del cinema comico, con le due formidabili parodie di Top Gun firmate Jim Abrahams, Hot Shots! e Hot Shots! 2: «A differenza dell’Italia, gli Usa sono sempre pronti a ampliare la gamma dei loro attori. Da noi, un’attrice bellissima come Laura Chiatti, con cui ho lavorato in A casa nostra di Francesca Comencini, non è utilizzata come meriterebbe: commedie su commedie». La bellezza può diventare un handicap? «È una comoda garanzia. Quand’ero più giovane e proprio carina, venivo pagata di meno: la bellezza mi è costata cara…». Adesso che è anche regista, dopo lo splendido esordio con Miele, non potrebbe darsi lei stessa il ruolo della sua vita? «Da regista, non la sento una necessità. Forse non amo troppo guardarmi, mentre mi piace che un regista mi guardi, mi valorizzi: anche fisicamente. Ma dobbiamo sbrigarci, anche in questo. Dovete mettermi nuda, ma subito!».
Chissà se avremo la bella sorpresa nei film in preparazione, La vie très privée de Monsieur Sim di Michel Leclerc e Per amore vostro del napoletano Giuseppe Gaudino, o tra quelli in uscita, Il nome del figlio di Francesca Archibugi e Il ragazzo invisibile, fantasy di Gabriele Salvatores: «Sono la prima attrice con la quale ha lavorato due volte, mentre continua a circondarsi sempre degli stessi attori: ama il cameratismo, una goliardia complice. Una volta gli ho detto: attento, divento uomo anch’io. Tra l’altro, mi capita spesso, come a molte attrici, di prendere a modello di recitazione un attore: Gian Maria Volonté, primo tra tutti, che credo sia il modello di tanti nostri giovani attori. Nel caso di Salvatores, m’ha agevolata il ruolo: madre-poliziotta». Nel cinema, ha spesso sfiorato la maternità: «Soprattutto in Italia: madre o con il desiderio di diventarla, magari madre drogata, madre folle, madre-bambina… Mai madre e basta: sempre madre con qualcosa d’aggiunto! Anche mamma inverosimile: nel film di John Frankenheimer, Year of the Gun ( con una Sharon Stone ancora sconosciuta, pre- Basic Instinct), dove a ventiquattr’anni avevo un figlio di dieci. Non sono mamma nella vita. Ma a ispirare i registi è forse il rapporto con l’infanzia che mi si legge in faccia: un’aria innocente, che lascia una traccia sempre fresca sullo schermo».
Mario Serenellini, la Repubblica 9/11/2014