Enrica Brocardo, Vanity Fair 22/10/2014, 22 ottobre 2014
ERAVAMO TRE AMICI AL TOUR
A vederli insieme non pensi: «Ah, ecco, perché sono amici», ma neppure ti chiedi come sia possibile. Che siano diversi lo dicono anche loro. A Niccolò Fabi, per esempio, riconoscono di aver pilotato il gruppo alla meta, di aver serrato i ranghi anche e più degli altri. Compito non facile, visto che uno dei tre è Max Gazzè, che ha un po’ la faccia da alieno e non solo quella. «Vivo su un altro pianeta da anni», acconsente, «sono naturalmente fuori di testa».
Ma l’alchimia, dicono, funziona anche per quello. Da un lato, Niccolò Fabi e Daniele Silvestri che si autodefiniscono razionali. Dall’altro Max «che in modo estemporaneo aggiunge o distrugge, ma fa sì che si eviti l’effetto “compitino”che noi due rischieremmo di ottenere». «E, comunque», aggiunge Niccolò, «all’inizio, è vero, ho spinto più degli altri, perché sono compulsivo di carattere. Ma a questo punto a fare la differenza è solo l’ordine di arrivo agli appuntamenti, che è sempre Fabi-Silvestri-Gazzè».
Palchi piccoli e pochi soldi
Le immagini sul video del computer vanno a strattoni. Intorno, un silenzio che prima di mordere un cracker ci pensi un paio di volte e poi lasci perdere. È il 5 ottobre, e nel backstage del club Sugar Factory di Amsterdam si disputa la partita Juventus-Roma. È la sesta tappa di fila e, risultato calcistico a parte, i tre sono un po’ provati. «Se la Roma perde, qua non si fa il concerto», mormora qualcuno. Come si sa, ha vinto la Juve ma, alla fine, loro sono saliti sul palco, con il pubblico a battere le mani a tempo e a cantare in coro.
Nella fase europea del tour che ha seguito l’uscita dell’album Il padrone della festa, il trio ha suonato in club da qualche centinaio di persone, loro tre e basta, strumenti e voce. In Italia, invece, si esibiranno nei palasport con una band. «L’idea di iniziare in Europa nasce da una serie di ragioni, alcune pensate, altre meno», dice Silvestri. «La prima era di dare un senso anche “politico” al nostro stare insieme». Va avanti Fabi: «All’inizio si pensava di cercare centri culturali, librerie da noi: palchi piccoli e pochi soldi. Per “costringerci” a essere solo noi tre a suonare». Riprende Silvestri: «Perché non lo abbiamo fatto? Ci siamo resi conto che, in Italia, suonare in spazi da poche centinaia di persone avrebbe significato scontentare un sacco di gente».
Ricordi la prima volta?
Una ventina di anni fa, a Roma. Il locale si chiamava Il locale, una mancanza di intraprendenza solo verbale, visto che lì dentro cominciò a esibirsi la migliore gioventù romana dell’epoca, non solo musicisti. «A pensarci», ricorda Silvestri, «l’elenco fa impressione: Tiromancino, Alex Britti, Sergio Cammariere, Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Marco Giallini».
E loro tre. Chiedo se si ricordino «la loro prima volta». «Si stava lì dalle dieci e mezzo di sera fino alla mattina del giorno dopo», risponde Fabi. «Consideri anche che avevamo circa 25 anni, insomma può immaginare che non fossimo sempre lucidissimi. Però ricordo l’impressione che ebbi la prima volta che vidi Max suonare: era più avanti di tutti noi come presenza sul palco. Mentre di Daniele giravano musicassette. Il batterista del gruppo dal quale ero appena uscito mi parlò di lui come di un altro che si era messo da solo. Ci si cominciava a conoscere così, prima indirettamente perché qualche musicista magari te ne parlava male: “Ha mollato la band, mortacci sua”».
Sì, viaggiare (senza spiegare)
L’idea di fare un disco e poi un tour insieme, lo hanno già raccontato, è nata durante un viaggio in Sud Sudan al seguito dell’Ong Cuamm. Un viaggio importante, ma non il primo.
«Se devo scegliere un’esperienza che mi ha segnato», racconta Silvestri, «è il giro che feci a vent’anni con l’Interrail. Partii senza soldi apposta per obbligarmi a mantenermi suonando per strada. In tasca avrò avuto 20 mila lire e sono stato in giro tre settimane».
Se Fabi condivide un’esperienza abbastanza simile («ma senza suonare, che mi avrebbe imbarazzato troppo»), Gazzè racconta di un viaggio a Qumran, per fare ricerche sui manoscritti del Mar Morto. E se vi state domandando di che si tratta, temo che, come dice lui, «spiegarlo sarebbe troppo complicato».
Il tour europeo lo hanno fatto per lo più on the road, in furgone. Ore e ore passando da argomenti seri al cazzeggio. «A Berlino per due giorni abbiamo parlato come i personaggi di Sturmtruppen, mettendo la “n” alla fine di ogni parola, come ragazzini di dodici anni», dice Silvestri.
I concerti degli altri
Si parla, ora, di concerti di altri. Quelli che eri troppo giovane, e quelli che avresti potuto esserci, ma te li sei persi lo stesso.
«Mi ricordo perfettamente», dice Fabi. «A Correggio, Jeff Buckley. Quella sera c’era una pizzata, o una festa di compleanno, niente di imperdibile, ma decisi di non andare. Per me è diventato il simbolo di tutte quelle scelte che, al momento, ti sembrano piccole, ma di cui capisci l’importanza a distanza di tempo».
Per Daniele Silvestri l’elenco sarebbe lunghissimo. «A cominciare dai Police, ma forse a bruciarmi più di tutto è non aver visto il concerto di quello che per me è uno dei più grandi pianisti di sempre, Oscar Peterson. Ero a New York, avevo 18 anni, preferii incontrare una ragazza e devo dire che la scelta non fu delle più felici».
Si passa alle occasioni impossibili (o quasi): Bob Marley nel 1980 a San Siro e Jimi Hendrix al Piper nel 1968. «Il punto», dice Max, «è che tutti e tre avremmo voluto vivere gli anni Settanta». «Sì, l’impressione è che siamo arrivati un po’ in ritardo», aggiunge Niccolò, «ma l’ho sentito dire così tante volte che non so più se sia vero o no». Poi tocca a Daniele. «La nostra è una generazione cuscinetto, con un passato fragoroso alle spalle e un futuro in rapidissima evoluzione e da cui siamo in parte esclusi».
Una generazione che va
Dopo un po’ che li vedi insieme pensi: «Non c’è dubbio che siano amici». Perché tutti e tre fanno parte di quella generazione nata alla fine degli anni Sessanta, i quasi cinquantenni che al massimo possono andare in giro a raccontare quello che sta succedendo perché sulle poltrone, metaforicamente parlando, ci sono rimasti seduti quelli che c’erano prima, mentre il domani, ormai, spetta a qualcun altro costruirlo. E forse per altre mille ragioni.
Ma, poi, chi se ne frega del perché.