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 2014  ottobre 22 Mercoledì calendario

THE MONUMENT MAN


[Marco Garzia]

Cammina piano tra file di vecchie radio, pile di computer, tavoli squadrati, sedie, poltroncine, riviste, libri gialli. In cima a uno scaffale il megafono di un regista, più avanti un frigorifero basso e buffo, una bilancia medica accanto alla sedia di un barbiere: «Mi accorgo dell’effetto che fa questo posto quando qualcuno ci entra per la prima volta. Io, ormai, ci sono abituato». L’effetto è un soffocare dolce, un’apnea prolungata, un lieve stordimento dei sensi di fronte ai mobili strapieni, a questo bizzarro caos di cose: «Non sono un accumulatore seriale. Ognuna, dietro, ha una storia che ho cercato di scoprire, capire, decifrare». E prova a raccontarle, Marco Garzia, le sue mille storie. Sciogliendo ricordi nelle frasi, perdendosi dietro aneddoti d’incontri fortuiti e amicizie rocciose; incastrando un discorso dentro l’altro, tinteggiando un affresco sovraccarico e magnetico. Fotografo, restauratore, collezionista dai modi eleganti, gli occhialetti tondi, il sorriso raro e onesto. 57 anni, buona parte dei quali trascorsi a selezionare il bello per metterlo da parte, salvarlo dall’oblìo o, molto spesso, dalla spazzatura: «È incredibile con quanta facilità si tenda a sbarazzarsi del proprio passato. E a non capirne il valore».
Di passato, invece, lui ha imbottito due locali, 250 metri quadrati di cimeli che affitta a produzioni cinematografiche o televisive. Ha aiutato a costruire le scenografie dei film di Pupi Avati, Abel Ferrara, Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana. Ha fatto la comparsa, quando gli è stato chiesto. Soprattutto, ha messo insieme circa 5 milioni d’immagini tra negativi, diapositive, stampe originali. Un patrimonio da cui sono nate mostre in Cina, con la benedizione dell’Istituto italiano di cultura e che il ministero per i Beni Culturali ha dichiarato di particolare interesse storico nazionale: «Questo significa che l’archivio deve rimanere intatto, che non può essere smembrato». Domandargli di scegliere, d’esibire qualcuno dei suoi scatti preferiti, sembra offenderlo, gli provoca un malessere evidente. D’un tratto si zittisce, fissa il soffitto, poi prende a elencare, quasi senza un respiro. Sparando proiettili di parole, affinché nello stesso spazio di tempo riesca a stipare più frammenti possibili: Marcello Mastroianni in posa sotto un cartello che lo ritrae; Adriano Celentano alle prese con una sfida a braccio di ferro; Jean-Paul Belmondo appoggiato a un muro, gli occhi lanciati verso il vuoto, un sigaro spento in bocca; Lino Banfi con i capelli ricci, magro attore dei fotoromanzi con lo sguardo serio e languido; Clark Gable e John Kennedy, Jean-Paul Sartre e Salvador Dalí. Sullo sfondo lei. Roma. Evidente, discreta o invisibile, cornice sempre perfetta: «A lungo è stata il motore principale dell’arte, della politica, della cultura, del cinema internazionale». Garzia l’ha immortalata per anni, lavorando al fianco di giganti come Marcelle Geppetti («il poeta della Dolce Vita»), al collo la sua Nikkormat, in testa un cappello di feltro di Borsalino dei primi del Novecento (3): «Apparteneva a mio nonno. Non lo levavo mai. Avevo una chioma lunga, un giubbotto di pelle, sembravo Indiana Jones. Però ero un timido, insicuro. Per farmi notare, da ragazzo comprai un banjo, mentre tutti i miei coetanei suonavano la chitarra».
Figlio di un pittore («sono cresciuto con le tele appese in bagno ad asciugare. Ho appreso così il gusto dell’inquadratura, l’equilibrio delle forme»), inizia come apprendista, via via accumula esperienze, fonda un paio di agenzie fotografiche, pubblica su numerosi giornali: «Delle celebrità amavo scoprire il lato intimo, personale. Far vedere che, come tutti noi, vivono, respirano, provano gioie, sperimentano il dolore». Di colpo, poi, dice basta. Smette: «Più o meno quando sono scomparsi i personaggi, sostituiti dalle meteore consacrate da una fugace visibilità televisiva». In casa ha già un patrimonio d’immagini, altre gli vengono regalate da colleghi in pensione, altre le compra o arrivano tramite il passaparola. L’archivio cresce, esige spazio e attenzioni. Da passione diventa occupazione: «Occorrono cinque minuti per catalogare uno scatto. Farlo con tutti richiederebbe un tempo enorme senza dormire, bere, mangiare». Per accelerare il processo stringe accordi con le principali università capitoline, l’attività varrebbe crediti formativi agli studenti, ma i tirocini devono essere retribuiti. «Ovviamente fondi pubblici non ce ne sono». Perciò si ritrova a fare da sé, ad arrangiarsi come può. Ripagandosi, ogni giorno, con il gusto di aprire scrigni di cui ignora il contenuto, con il piacere delle piccole scoperte, quella carezza voyeuristica di osservare le vite altrui spulciando le spigolature nascoste nei dettagli delle foto: le scarpe consunte di Federico Fellini, Fred Buscaglione con un grembiule da cucina sopra la cravatta, Tony Renis in posa in casa con la madre. Nello scatto finge di telefonare con un Ericofon, allora simbolo di benessere, di avanguardia tecnologica. Nel suo magazzino Garzia ne conserva svariati esemplari. Ed è qui la chiave: c’è un intreccio perenne, un filo di continuità robusto, tra le cose cristallizzate nelle immagini e quelle vere, appena impolverate, che custodiscono. Quel filo è la memoria: «Cito sempre un racconto di Luciano De Crescenzo. Scrive di non essersi emozionato per la morte del padre ma, mesi dopo, di essersi commosso trovando un orologio che amava caricare. Quell’orologio, non il corpo che aveva visto per l’ultima volta, lo rappresentava. Era suo padre. Un oggetto nuovo è sterile, uno usato conserva la vita di chi l’ha tenuto con sé».
All’inizio Garzia gli oggetti li trovava, li riparava («sono figlio della generazione della guerra, mi è stato insegnato ad arrangiarmi»), li vendeva. Poi ha preferito noleggiarli. Non riusciva a separarsene. «È stato un compromesso. La sublimazione della mia perversione di collezionista». Di bulimico, anche, entusiasta di possedere tanto un proiettore originale del Teatro delle Vittorie che «ha illuminato Mina, Lelio Luttazzi, le gemelle Kessler», quanto un distributore di semi di zucca salati cotti al forno, i famosi bruscolini. «Con dieci lire te ne dava una manciata. È stato il pezzo che finora ha lavorato di più. Me lo chiedono ovunque si stia girando una scena in un bar degli Anni Sessanta o Settanta». Ed ecco gli Irradiette, in tanti colori: mangiavano i 45 giri, portavano la musica dappertutto, «ma bisognava girare con una scorta immane di batterie perché le prosciugavano subito». Garzia li ha affittati alla produzione di La meglio gioventù: «Conoscevo lo scenografo, l’ho aiutato nello “spoglio” della sceneggiatura e soprattutto a trovare gli oggetti adatti al set». La sua Lettera 22 della Olivetti, icona delle macchine da scrivere e oggi esposta nella collezione del MoMA di New York, compare invece nell’ultimo film su Pier Paolo Pasolini con Willem Dafoe, così come la Nikkormat dei suoi trascorsi da fotografo. Un altro pezzo della sua vita che va a finire sul grande schermo: «È stata la prima macchina professionale che ho avuto. Nel copione la usa Ninetto Davoli per scattare un ricordo di un pranzo il giorno prima della morte dello scrittore».
Ne avrebbe ragione, però. Marco Garzia non si vanta mai: per cavargli qualche aneddoto sul mondo del cinema bisogna insistere, schivare i tentativi ripetuti di chiudere l’argomento. Nessuna speranza, invece, di conoscere il nome dell’attrice che ha corteggiato e frequentato: su questo punto, riserbo assoluto. «La fotografia serviva anche a rimorchiare», concede a fatica, ma poi, subito, nicchia. La loquacità senza freni, il guizzo negli occhi e quella voglia di raccontare ritornano non appena gli si domanda come sceglie gli elementi che entrano nella sua collezione: «È come se sentissi un richiamo», risponde, «come se subissi una fascinazione. Su un banco con centinaia di oggetti, riesco a individuare subito un pezzo di valore o in qualche modo significativo. Magari proprio perché l’ho visto in una foto del mio archivio». Una fonte sterminata di stimoli visivi che supporta un talento naturale. Quello di intuire con uno sguardo quante storie e soffi di vita si rincorrono dentro una cosa.