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 2014  ottobre 18 Sabato calendario

SCIENZIATI CHE NON VOGLIONO FARCI MORIRE

Quest’estate, a Sydney, un gruppo di scienziati ha stampato dei vasi sanguigni in 3D. A settembre Calico, l’azienda fondata da Google per studiare e contrastare l’invecchiamento, ha stanziato 1,5 miliardi di dollari per un centro di ricerca dedicato alle malattie legate all’età, come Alzheimer e tumori. Un futuro più o meno lontano potrebbe insomma vederci tutti centenari, intenti a stampare interi organi artificiali, con in mano efficaci terapie per le malattie neurodegenerative. Oppure no? Siamo così vicini a un allungamento della vita accessibile a tutti?
Molti scienziati non condividono l’eclatante visione del gerontologo britannico Aubrey de Grey, il quale prevede che sconfiggeremo l’invecchiamento entro 25 anni, ma ritengono che, con le dovute accortezze, qualche anno potremo comunque guadagnarlo. Ferdinando Boero dell’Università del Salento è stato uno tra i primi ricercatori ad aver descritto il meccanismo che permette alla «medusa immortale», la specie Turritopsis dohrnii, di invertire il suo ciclo vitale quando si sente in pericolo, ritornando allo stadio primordiale di polipo. In questo modo l’invertebrato, soprannominato medusa Benjamin Button in onore della novella di Francis Scott Fitzgerald, sfugge alla morte e può rigenerarsi forse anche all’infinito.
La scoperta è finita subito sotto i riflettori per le potenziali applicazioni in medicina ma, quando nel 2009 chiesero a Boero se lo stesso meccanismo fosse possibile negli esseri umani, lo scienziato rispose che si trattava di «una domanda da giornalisti», e che preferiva concentrarsi su un tipo di ricerca scientifica un po’ più razionale. Gli studi sulla presunta immortalità della medusa sono tuttavia proseguiti in un laboratorio giapponese, dove lo scienziato Shin Kubota è riuscito a replicare la regressione a polipo in cattività. Una volta rivelato il meccanismo nella sua interezza, secondo lui, non c’è motivo di credere che non potremmo anche noi un giorno raggiungere una simile longevità.
In realtà la biologia dell’invecchiamento è ancora una scienza piuttosto giovane. Le prime ricerche dedicate, condotte su modelli animali, risalgono alla metà degli anni ’90. Inoltre le variabili da tenere in considerazione sono così numerose da non consentire, allo stato attuale, di effettuare previsioni attendibili sull’esito di questo genere di studi. Eppure c’è chi non nasconde di nutrire grande fiducia nelle possibili applicazioni future sugli umani. È il caso di Cynthia Kenyon, ricercatrice dell’Università della California a San Francisco, che attualmente lavora proprio per Calico. Si tratta di una nota esperta di biochimica e genetica che ha dedicato anni di lavoro al nematode Caenorhabditis elegans, un verme cilindrico molto usato come modello nell’ambito della biologia molecolare e dello sviluppo, in particolare per indagare l’apop-tosi, la morte cellulare programmata.
Kenyon ha scoperto che disattivando un gene, chiamato daf-2, è possibile raddoppiare la normale durata della vita dei vermi, che nonostante questo rimangono in ottima salute fino alla fine dei loro giorni. La sorpresa è stata enorme, anche perché l’idea di poter controllare l’invec-chiamento per via genetica risultava del tutto nuova. Da quel momento in poi Cynthia Kenyon, che spesso racconta divertita come all’inizio la considerassero un’eccentrica, ha attirato sempre di più l’attenzione. In particolare quando ha scoperto che una versione mutata di daf-2 si trova spesso anche negli esseri umani ultracentenari; questo ha rafforzato la sua idea che gli studi sui modelli animali possano in futuro trovare applicazione anche su di noi. A tale scopo ha fondato, insieme ad altri esperti, l’azienda farmaceutica Elixir Pharmaceuticals.
Qualche anno dopo Kenyon ha scoperto che, aggiungendo un po’ di glucosio alla dieta dei suoi vermi, questi vivevano il 20% in meno del normale. Il meccanismo, come quello associato al gene daf-2, è legato alle vie di segnalazione dell’ormone insulina dei nematodi, piuttosto simili a quelle umane. E proprio qui che, secondo la scienziata, si trova il nesso tra dieta e invecchiamento. La sua opinione è che quando il livello d’insulina si abbassa il corpo si sente «in pericolo», produce più antiossidanti, potenzia la risposta immunitaria e, di conseguenza, vive più a lungo. I risultati più eclatanti sono arrivati combinando le varie scoperte, agendo cioè su vari geni dei nematodi e rimuovendo loro le gonadi, un’idea poco allettante per pensare di riproporla agli esseri umani. Unendo questi interventi, dal livello genetico a quello cellulare, i nematodi di Cynthia Kenyon hanno vissuto sei volte più a lungo. Finora si tratta di singole scoperte genetiche sugli animali; tra questo e il concepire l’invec-chiamento umano come una patologia curabile, o il nostro corpo come una macchina in cui sostituire i pezzi usurati lungo il percorso, si frappone ancora un’ampia componente speculativa. La stessa Elixir Pharmaceuticals, nei suoi tentativi di convertire la ricerca in farmaci anti-invecchiamento, non ha riscosso il successo previsto: oggi ha solo pochi dipendenti che, oltre a proseguire le ricerche sui meccanismi dell’invecchiamento, si occupano prevalentemente dello sviluppo di altri tipi di farmaci. Non è andata meglio alla Sirtris Pharmaceuticals, altra società figlia delle ricerche di Kenyon. Nel 2008 il colosso farmaceutico GlaxoSmithKline, fiducioso che sarebbe riuscita a produrre la pillola della giovinezza, la acquistò per 720 milioni di dollari, salvo poi chiuderla cinque anni più tardi.
Tra le altre strade per la longevità che sono oggi oggetto di studio c’è la restrizione calorica (il meccanismo su cui aveva puntato Sirtris), la possibilità di ridurre le calorie nella dieta. Secondo Eric Ravussin ad esempio, professore del Pennington Biomedical Research Center della Louisiana, iniziando a mangiare il 15% in meno a 25 anni potreste guadagnare circa 4,5 anni di vita. Anche in questo ambito non esistono ancora pubblicazioni scientifiche, se non su modelli animali. Nonostante ciò, proprio per testare la teoria, è stato avviato il programma Calerie, finanziato dal National Institute on Aging e dal The National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases. Il regime alimentare previsto, quello che allungherebbe la vita, consiste nel mangiare più o meno il 20-30% in meno del normale. 1.500-1.700 calorie al giorno per le donne, 1.800-2.000 per gli uomini. Sotto la guida di un nutrizionista la dieta può essere elaborata in modo bilanciato ma, in base alle prime testimonianze dei partecipanti a Calerie, non mancano conseguenze meno gradite. Se da una parte alcuni pazienti affermano di avere spesso freddo, dall’altra l’assenza di una guida medica potrebbe portare a bassa pressione sanguigna, anemia e carenze di riserve minerali nelle ossa. Per ovviare a conseguenze simili, gli scienziati stanno cercando di elaborare dei farmaci che minimizzino la restrizione calorica, aumentando l’attività delle stesse proteine che entrerebbero in azione mangiando di meno. [...]
Per ora la ricerca sulla restrizione calorica ha dato buoni esiti, quando applicata agli animali. Non è ancora del tutto chiaro, tuttavia, in che modo rallenti l’invecchiamento, seppur l’effica-cia sia stata confermata su una vasta gamma di organismi, dai lieviti fino ai mammiferi. Tra le ipotesi degli esperti c’è che la riduzione delle calorie rallenti il metabolismo basale, facendo sì che il corpo rilasci meno radicali liberi (dannosi quando presenti in grandi quantità). La risposta più interessante è arrivata quest’anno da uno studio sui macachi, pubblicato su Nature Communications. Un’alimentazione a basso apporto calorico ha ridotto di tre volte il rischio di morte in tutti gli animali coinvolti, arrivando a ben 3,63 volte se si consideravano solo le patologie legate all’età.
Ma combattere l’invecchiamento non è solo mangiare meno o agire sui geni. Molto spesso i protagonisti della ricerca sono i telomeri, le regioni terminali dei cromosomi che svolgono una funzione simile a quella delle protezioni di plastica alla fine dei lacci delle scarpe. A ogni divisione cellulare i telomeri si accorciano e, raggiunto un punto critico (chiamato limite di Hayflick), le cellule sane perdono la loro capacità di dividersi e infine muoiono. L’accorciamento non avviene a egual velocità per tutti, anzi: fare esercizio fisico, seguire una dieta bilanciata e praticare una corretta gestione dello stress sono alcune delle buone pratiche che sembrano avere come conseguenza l’allunga-mento dei telomeri, da parte dell’enzima telomerasi.
Anche questi aspetti sono stati indagati principalmente sugli animali, ad esempio sui pappagalli cenerini che vivono più di 45 anni. Ad aprile un gruppo di scienziati viennesi ha scoperto che i telomeri dei pappagalli cresciuti da soli in cattività sono molto più corti di quelli dei loro simili, della stessa età, che vivono invece con un compagno o una compagna. Secondo i ricercatori è lo stress, in questo caso, a interferire con l’invecchiamento delle cellule e con la riparazione del Dna, accorciando la vita agli uccelli.
Altrettanto prezioso per gli studi sui telomeri è stato il moscerino della frutta, la specie Drosophila melanogaster. Grazie a lei abbiamo scoperto che una soddisfacente vita sessuale può rivelarsi un elemento prezioso per vivere in salute e più a lungo: quando i moscerini maschi percepiscono i feromoni delle femmine ma non si possono accoppiare con loro, aumenta lo stress, diminuisce l’accu-mulo dei grassi e gli individui finiscono per vivere molto meno del normale, proprio a causa della frustrazione. Ma a incidere sulla lunghezza dei telomeri c’è anche la genetica. E non sempre le mutazioni che li rendono più lunghi sono benefiche, anzi: due recenti studi hanno scoperto che alcune tra le persone che le presentano sono più a rischio di sviluppare melanomi o gliomi, tumori cerebrali. La ricetta per la longevità, purtroppo, non è stata trovata nemmeno qui.
Eleonora Degano