Renzo Parodi, Il Secolo XIX 22/10/2014, 22 ottobre 2014
DA FIGLIO DI CONTADINI A SIGNORE DEL CACHEMIRE
[Bruno Cucinelli]
«QUELLA volta parlai a mio babbo in italiano pronunciando tre parole che lui non conosceva: papà, pullover e cachemire. “Papà, faccio pullover di cachemire”. E lui, che parla il dialetto umbro. “Non ci ho capito nulla, ma che Dio ti aiuti. Sii sempre una persona perbene e mantieni la parola data”».
Brunello Cucinelli, lei è conosciuto come il re del cachemire. Come è cominciata l’avventura?
«Vengo da una famiglia contadina, coltivavamo la terra da mezzadri a Castel Rigone, provincia di Perugia. Tredici nella stessa casa, nella mia famiglia eravamo cinque, tre figlioli, io sono l’ultimo, ero il signorino quello destinato a studiare. Casa senza luce elettrica e acqua corrente. Andavo nei campi con le vacche attaccate all’aratro, mica avevamo il trattore.
Che vita era?
«Meravigliosa. La mattina si beveva il latte caldo appena munto dallo zio, senza bollirlo e chi sapeva la storia dei germi? Era squisito. E poi via nei campi».
Lavoro duro, però.
«Difatti il babbo andò a lavorare in fabbrica e ci trasferimmo vicino a Perugia. Avevo quindici anni. Lo vedevo tornare a casa, la sera, con gli occhi lucidi: “Cosa ho fatto per essere umiliato così dal padrone?”, mormorava. Frequentavo la scuola per geometri, era il ’68, l’epoca del 6 politico, non so come presi il diploma. Mi iscrissi all’Università, Ingegneria. Un esame in tre anni. Mi svegliavo a mezzogiorno, andavo a dormire all’alba».
E il resto della giornata?
«Al Bar Gigino, la mia scuola di vita, il mio Ateneo. Il bar nei paesi era una istituzione, ci si trovava a chiacchierare fino alle sei del mattino: di politica soprattutto, di religione che per me significa spiritualità, di famiglia, di donne. Professori, notai, calzolai, imprenditori, nullafacenti, tutti uomini tranne una donna, la prostituta che arrivava a notte fatta. Avevo 19 anni, lei 35. Da lei ho imparato la durezza della vita. Dai 15 ai 25 anni vissi questa vita sfaccendata, senza obiettivi».
La politica la interessava?
«Ero di sinistra, Avanguardia Operaia. Partecipavo alle assemblee a scuola, mi occupavo di stampare i volantini di propaganda».
E poi?
«La mia fidanzata e futura moglie, Federica, aveva un negozietto di abbigliamento a Solomeo, un paese vicino al mio. Un giorno ebbi una folgorazione, ispirata dalle maglierie prodotte da Benetton: colorare il cachemire con tinte vivaci, il cachemire allora era solo in tinte neutre e soltanto per uomini. Aprii un laboratorio con finestre nei muri e sul tetto perché i dipendenti potessero lavorare guardando la campagna umbra. Andò bene. Era il 1978».
Il salto quando avvenne?
«Nell’85. Scoprii i ruderi del castello di Solomeo e me ne innamorai. Lo acquistai e ci portai uffici e laboratori. Alla fine del 2000 trasferii la fabbrica in una nuova costruzione ai piedi di Solomeo. Non ho dimenticato l’umiliazione inflitta al mio babbo dal padrone. Non ho mai voluto essere proprietario, ma custode. I dipendenti devono lavorare felici. Ho costruito per loro un progetto umanistico, governato da poche regole: rispetto per l’essere umano e il suo lavoro, responsabilità».
Non dica che il profitto non le interessa...
«Il profitto è il motore di qualsiasi attività economica ma conta come viene generato».
Facile dirlo per chi è diventato miliardario.
«Oggi sono un uomo ricco ma vivo come vivevo quando non avevo una lira».
Per questo ha modellato la sua azienda come un cenacolo di umanesimo?
«L’ispirazione mi venne da Ruskin e Morris, due umanisti del Novecento. Ho pensato fosse indispensabile rendere il lavoro più umano, più solidale. La dignità del lavoro viene quasi prima del pane. Ho cercato di rendere il lavoro più appagante, restituendo dignità e coscienza del ruolo».
Economicamente come si regola?
«Come si fa a chiedere a un giovane di lavorare per 980 euro al mese? I miei dipendenti guadagnano il 20% in più della paga sindacale A 25 anni non puoi guadagnare meno di 1.700/1.800 euro netti al mese. E dopo 3 o 4 anni hai diritto ad arrivare a 2.500».
Al momento di quotare in borsa la società, nel 2012, ha fatto qualcosa di inaudito.
«Ho deciso di distribuire una parte degli utili fra i miei dipendenti, non solo quelli in attività però, anche quelli in pensione che avevano contribuito a far crescere l’azienda».
Si è ispirato ad Adriano Olivetti?
«Olivetti è stato un genio dell’Umanità. Ma oggi il capitalismo è cambiato. Cinquant’anni fa mio babbo e i miei fratelli non sapevano nulla dei loro datori di lavoro. Nella società della comunicazione tutti sanno tutto di tutti ed è un bene...».
La Globalizzazione ucciderà l’uomo?
«Per la mia azienda chi sia il cliente non fa differenza, purché se ne rispetti la cultura e il sentimento religioso. Mi rifaccio a San Benedetto che ammoniva: “Cura la mente con lo studio e l’anima con la preghiera e il lavoro”. Dobbiamo tornare a fare una vita più equilibrata fra lavoro, preghiera e studio».
È ottimista sul futuro dell’Umanità?
«Certamente! Da ragazzo in famiglia non avevamo una lira ma ci coccolavamo e ci si voleva bene. Sono passati cinquant’anni in una parentesi di frenesia e di distorsioni. Ora è tempo di tornare ad un regime di vita più naturale. Non dobbiamo aver paura di nulla, meno che mai dei cambiamenti. Avere coraggio è un dovere».
Il mondo sembra sul punto di esplodere. Guerre, sangue, rivolte. E la crisi economica divora milioni di persone. E lei vede rosa?
«Il seme del rinnovamento morale, civile ed economico è stato piantato e darà i suoi frutti. Stiamo tornando a investire nella bella politica, nella religione, nella famiglia. Il meglio deve ancora venire. Ci attende il Secolo d’oro. Erasmo da Rotterdam lo invocava: “Signore, fammi vivere il secolo d’oro”».
Dicendo “bella politica” pensa al premier Matteo Renzi?
«Non giudico. Mai. Faccio. Dobbiamo tornare a essere responsabili. A investire nell’ordine, nella pulizia, del rispetto».
Berlusconi in questo senso non ha aiutato l’Italia.
«Eppure all’estero da 6-7 mesi ci guardano con occhi diversi. Due giornalisti viennesi mi hanno detto che vedono l’Italia come un paese giovane».
Ha messo da parte il calcio. Perché?
«Non ho iscritto al campionato di serie D il Castel Rigone, ma i suoi valori restano: tolleranza, educazione, rispetto per l’avversario».
La scuola di Arti e Mestieri come funziona?
«Siamo pieni di giovani che hanno voglia di fare. Prima è venuta la scuola delle Arti. Poi la scuola dei Mestieri, per ogni disciplina riceviamo 400 domande di iscrizione».
La sua ricetta del made in Italy?
«Produrre manufatti di grande qualità, manualità ed esclusività. Far valere i nostri saperi, le nostra competenze e la nostra unicità nella maniera di vivere».