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 2014  ottobre 22 Mercoledì calendario

«GOOGLE E L’ISIS SI SOMIGLIANO: ODIANO L’UOMO»

[Intervista a Fabrice Hadjadj] –
«L’islamismo radicale e i gender studies, che difendono l’idea di un’identità sessuale a piacimento, hanno molte cose in comune». A sparigliare le carte delle idee benpensanti è Fabrice Hadjadj, uno dei più interessanti filosofi francesi di questi anni. Hadjadj, direttore dell’Institut européen d’études anthropologiques di Friburgo, in Svizzera, per celebrare il centenario della rivista Vita e pensiero, sarà oggi a Milano alle ore 17 a discutere di «Crisi e cultura» con Sergio Givone presso l’Aula Pio XI dell’Università Cattolica (Largo Gemelli 1).
Professore, cosa intende di preciso?
«L’islamismo è smaterializzante quanto la tecnoscienza. Ignora la consistenza della materia, della cultura, della storia e si rimette a un Dio che schiaccia la carne umana. Ecco perché credo che tra l’islamismo radicale e i gender studies ci siamo molte cose in comune».
Cosa significa smaterializzare, perdere il senso della materia?
«Ai giorni nostri la materia non è più qualcosa di informe che il nostro spirito domina e potrebbe manipolare a piacere. Ormai il virtuale e Internet disincarnano i rapporti umani. Così le nostre case tanto funzionali da doversi costruire in cemento o gli oggetti industriali composti da materiali sintetici o la grande distribuzione che ci fa perdere il contatto con i produttori. Finiremo con il convincerci che i beni alimentari appaiano magicamente sugli scaffali».
L’era del touch-screen sembra però contraddirla...
«Il digitale non ha nulla a che fare con le dita. Quello che noi chiamiamo touch-screen cancella tutte le sfumature del toccare e dunque la capacità di percepire le differenze di struttura, di calore, di peso... Abbiamo decomposto tutto in elementi: atomi, geni, neuroni, bit, pensando di manipolare e ricomporre la materia. Ma così è diventata per noi inconsistente. E con essa è il mondo stesso a perdere la sua densità, quella della pietra, del legno, della carne».
È possibile arrestare il processo di smaterializzazione?
«A partire dalla fede. Per credere al dato del nostro corpo dobbiamo credere in un Dio creatore dei corpi o, meglio ancora in un Dio che si incarna. Così siamo costretti a riconoscere una profondità della materia, uno spirito della carne».
Solo con un atto di fede, dunque...
«Poi dobbiamo tornare alla prossimità fisica e alle arti minori. Penso che il miglior sistema di comunicazione, il più performante, il più ultratecnologico sia ritrovarsi intorno a un tavolo di legno, con pane e vino; o a un pasto con cibo proveniente da un contadino che si conosce bene. Quanto alle arti minori sono le arti della casa, i saper-fare di tutti i giorni che il consumismo e gli schermi hanno distrutto... cantare insieme alla fine di un pranzo o saper raccontare una storia intorno al fuoco».
La cultura ci può salvare, quindi?
«I prodotti culturali consumati su un I-pad sono il contrario della cultura. Noi non vediamo più le opere, ma solo le loro immagini digitali. Moltiplichiamo le immagini del mondo, ma esse non hanno alcun peso; così le riproduciamo all’infinito, freneticamente. L’ipertrofia dell’informazione cerca invano di colmare il deficit di presenza. Eppoi la cultura non consiste nel divertire né nel diventare spettatore della vita. È un’esperienza attraverso cui facciamo fruttificare la natura. Il suo modello è quello dell’agricoltura».
Si spieghi meglio.
«Siamo passati dal modello dell’agricoltura a quello dell’ingegneria. Nell’agricoltura si accompagna lo sviluppo di una forma già data in natura. Nell’ingegneria invece si impone dispoticamente una forma a una materia informe».
Perché l’islamismo radicale suscita fascino nei giovani europei che vanno a combattere con l’Isis?
«Sicuramente perché sperano di fuggire da un mondo del consumo insensato e senza spessore. Quello che noi cerchiamo non sono semplicemente i mezzi per vivere, ma ragioni per vivere. Ora una ragione per vivere è anche una ragione per donare la propria vita. Credere che cerchiamo prima di tutto il comfort è un errore. Ecco la contraddizione della nostra epoca: abbiamo i Gps, ma abbiamo perso il paesaggio e la destinazione».
I gender studies sono quindi un sintomo della perdita del senso della materia?
«È evidente. Per i gender studies il dato carnale è semplice materia che si può plasmare a piacimento. Non c’è ascolto della carne sessuata. Per questo finiscono per rimettersi nelle mani della tecnocrazia: demandano agli ingegneri di fabbricare un pene elettronico o un bimbo in provetta. C’è un disgusto per la carne umana che si ritrova nel fondamentalismo religioso».
È quanto mi raccontava prima?
«Esattamente. Da un lato abbiamo un utilitarismo materialista, ma dall’altro ce ne è uno spiritualista. Nei due casi l’utilitarismo equivale a una posizione sovrana sulla creazione e al rifiuto di ascoltare lo spirito di Dio presente nella materia formata dal Creatore».
In questa direzione ci spingono anche l’introduzione delle tecnologie informatiche nelle scuole?
«Sono una catastrofe. I dirigenti di Google e di Apple lo sanno bene: fanno frequentare ai loro figli scuole senza computer in classe. Ciò che è importante nell’insegnamento è il rapporto con un maestro attraverso una parola vivente, il faccia a faccia. È assurdo demandare a dei mezzi di divertimento di insegnarci ad essere attenti e a riflettere... sarebbe come cercare una spogliarellista per imparare la matematica. No! Quello che più efficace sono lavagna e gesso, foglio e matita. È questa aridità, questo vuoto che ci spinge a diventare creativi. Con degli schermi ludici ci si disperde e ci si affida al copia-incolla».
Simone Paliaga, Libero 22/10/2014