Leonardo Bellodi, Limes: L’Impero è Londra 10/2014, 22 ottobre 2014
CHI HA DIRITTO ALL’INDIPENDENZA
[Note alla fine]
1. ANCHE SE PER RAGIONI DIFFERENTI, I mercati finanziari e i piani alti del Berlaymont, sede principale della Commissione europea, e del Justus Lipsius, sede del Consiglio, hanno tirato un sospiro di sollievo quando è stato comunicato il risultato del referendum sull’indipendenza della Scozia. I primi perché temevano un terremoto delle Borse e delle valute, i secondi perché molto probabilmente non avrebbero saputo bene come considerare il costituendo Stato scozzese in seno all’Unione Europea. Ma le preoccupazioni di Londra, intesa come City-centro finanziario europeo, e di Bruxelles sono forse destinate a non cessare nel futuro prossimo.
La Gran Bretagna – come pare continueremo a chiamare per ancora molto tempo quell’Unione di Stati che dal 1603, ossia da quando Giacomo VI Stuart re di Scozia ha ereditato il trono inglese, condividono lo stesso monarca e che sono diventati un unico regno il 1° maggio 1707 [1] – non è l’unico paese membro dell’Unione Europea scosso da fremiti secessionisti. Lo scorso 11 settembre quasi due milioni di persone sono scese per le strade di Barcellona, nella regione catalana della Spagna, reclamando un referendum al grido «ara és l’Hora». Un giorno non scelto a caso: l’11 settembre 1714 Barcellona cadeva nelle mani dell’esercito borbonico. Vi è però una sostanziale differenza tra Barcellona ed Edimburgo: mentre il premier britannico David Cameron ha permesso il referendum, il capo del governo spagnolo, Mariano Rajoy, lo nega. Il parlamento catalano ha da poco approvato una legge con la quale vuole dare copertura legale al referendum indetto dai separatisti per il prossimo 9 novembre, ma il governo di Madrid ha sollevato l’eccezione di costituzionalità (accolta dalla Corte costituzionale spagnola) dal momento che la costituzione spagnola, al pari di quella italiana, prevede che lo Stato sia uno e indivisibile.
Gran Bretagna e Spagna non esauriscono gli esempi delle spinte indipendentiste. In Belgio, le elezioni del giugno 2012 sono state vinte dal partito separatista Nieuw-Vlaamse Alliantie – risultato che non ha permesso la formazione di un nuovo governo belga per ben 532 giorni.
La stessa Unione Europea, così come la conosciamo ora, è il risultato di disgregazioni di Stati: si pensi all’ex Cecoslovacchia che ha cessato di esistere il 31 dicembre 1992, alle repubbliche dell’ex Unione Sovietica o dell’ex Jugoslavia. Questi fenomeni hanno una rilevanza sia dal punto di vista del diritto internazionale sia da quello dell’Unione Europea.
Il modello statale nato dalla pace di Vestfalia favorisce senza dubbio il principio di integrità territoriale. L’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite recita: «I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale [2] o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». Parimenti, nel 1970 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite [3] con la risoluzione sui «princìpi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra Stati» ha riaffermato solennemente il principio dell’integrità territoriale. Un principio ribadito all’articolo IV del trattato di Helsinki sulla sicurezza e cooperazione in Europa del 1° agosto 1975 [4], confermato dalla sentenza del 1986 della Corte internazionale di giustizia dell’Aia sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua [5].
A ben guardare però questi fondamentali princìpi di diritto internazionale si applicano ai rapporti tra Stati. Nel momento in cui i moti secessionisti sono fomentati da forze provenienti dall’esterno, da un altro Stato per esempio, vi è una violazione del diritto internazionale, come potrebbe essere successo in Ucraina. Addirittura la Francia avrebbe potuto essere considerata, all’epoca della presidenza Mitterrand, inadempiente rispetto ai propri obblighi internazionali qualora fosse stato provato il sospetto che i terroristi indipendentisti dell’Eta trovavano rifugio sicuro nel paese transalpino.
Quando invece la secessione è il risultato di una rivendicazione interna a uno Stato, non fomentata da nessuna forza esterna, non vi è trasgressione di diritto internazionale. Anzi, il diritto internazionale proprio non se ne occupa se non nella fase del riconoscimento (eventuale) del nuovo Stato e per tutti gli aspetti della successione nei vari trattati e obblighi internazionali.
2. Sul piano delle relazioni internazionali, le secessioni non sono mai state viste con favore dal momento che minano lo status quo, creando spesso conflitti regionali e minacce alla sicurezza internazionale. Vero è che le dichiarazioni di indipendenza sono state molto numerose soprattutto nella seconda metà del XX secolo, nel corso del quale si è affermato il principio di autodeterminazione dei popoli, enunciato anche dal presidente americano Woodrow Wilson durante la prima guerra mondiale nel famoso discorso dei Quattordici punti. Sono in molti, statisti e giuristi, ad aver considerato queste affermazioni avventate e foriere di guai [6]. Robert Lansing, il segretario di Stato di Wilson, ebbe a dichiarare: «La frase (sull’autodeterminazione, n.d.r) è semplicemente carica di dinamite. Susciterà speranze che non potranno mai essere realizzate» [7]. In realtà Wilson non arrivò a dire che vi era un diritto di secessione. L’autodeterminazione era un principio che valeva nel momento della formazione degli Stati o quando i popoli venivano colonizzati, soggiogati, sfruttati. In assenza di queste situazioni «patologiche», le rivendicazioni di autodeterminazione all’interno di uno Stato cedevano (e cedono tuttora) il passo ai due princìpi sui quali ancora oggi poggia il sistema delle relazioni internazionali: integrità territoriale e sovranità.
Non mancano le eccezioni. Nel 2008, il parlamento del Kosovo dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia e molti Stati la riconobbero, trasformando una secessione di fatto in una situazione di diritto (la Russia protestò dichiarando che il riconoscimento era un’indebita ingerenza negli affari interni della Serbia). L’episodio del Kosovo è idoneo a modificare il diritto internazionale in materia di secessione? I secessionisti della Crimea lo hanno a più riprese evocato, così come gli indipendentisti di Transilvania, Transnistria e Québec. Alcuni Stati che ospitano sul proprio territorio movimenti secessionisti si sono rifiutati di riconoscere il Kosovo: è il caso di Israele, Grecia e Spagna.
3. Queste considerazioni di fatto e di diritto sono applicabili e valide anche per i movimenti secessionisti all’interno dei paesi europei? È indubbio che la crisi economica, le spese crescenti degli apparati statali, la disperata esigenza da parte dei governi di rispettare i vincoli di bilancio da loro stessi approvati stanno minando le basi della solidarietà sociale in molti Stati, alimentando focolai mai sopiti di disagio etnico, linguistico, culturale, religioso. Si pensi al Belgio, dove tutto sembra dividere le Fiandre dalla Vallonia e dove covano motivi revanscisti dal momento che i ricchi di una volta (i valloni con il carbone) si sono trasformati nei poveri di oggi. Si pensi alla Scozia, dove i secessionisti avrebbero voluto mettere le mani sulla totalità delle ricche royalties derivanti dalla produzione di idrocarburi nel Mare del Nord prospiciente il territorio scozzese. La pensano così anche i catalani, convinti che sarebbero prosperosi membri del club del ricco Nord Europa senza il fardello di Madrid.
La cronica mancanza di fondi rende la ripartizione delle risorse statali tra regioni che producono ricchezza e regioni che assorbono cassa una continua fonte di tensione. Questo è vero sia all’interno di uno stesso Stato, sia nell’Unione Europea. Al di là dunque delle questioni giuridiche sulla legittimità delle richieste di secessione e sulle eventuali conseguenze per l’Ue e per il mondo, è questo stato di cose che va capito e risolto. La questione è stata ben sintetizzata dall’Economist: «Le due crisi (quella europea e quella belga) hanno dei paralleli: sia per il Belgio che per la moneta unica l’implosione non è più impensabile. Anzi, il Belgio può essere visto come un’Ue in sedicesimo, con un Nord ricco e germanico che non ne può più di sussidiare un Sud povero e latino. Se il piccolo prospero Belgio non può dirimere i suoi conflitti intestini, dicono in molti, quali possibilità ha l’Ue di farlo?» [8].
4. La maggioranza del popolo scozzese ha detto No alla secessione. La prossima mossa spetta alla Catalogna. Qui la situazione è complicata dal fatto che il referendum è anticostituzionale secondo Madrid. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli – diritto naturale, si potrebbe osservare – fa venire meno la censura di incostituzionalità?
È evidente che ogni popolo ha diritto a scegliersi il proprio governo; per questo ci sono le elezioni nazionali, regionali e comunali. Gli enti territoriali concorrono con le autorità centrali a decidere la politica del paese in tutti i temi che toccano i cittadini. Persino la politica estera, una volta appannaggio del solo potere centrale (a giusto titolo), ora è per certi aspetti condivisa con le istanze territoriali. Autodeterminazione però non significa attentato all’integrità territoriale dello Stato. Le due esigenze potrebbero, almeno in teoria, convivere. Vi sono delle eccezioni: nel caso in cui un popolo non avesse diritto di esprimere la propria volontà all’interno dello Stato in cui si trova o, peggio, fosse perseguitato a causa della lingua, della religione, dell’etnia, della cultura, allora l’autodeterminazione «interna» si accompagnerebbe gioco forza a quella «esterna», che comporta il diritto alla secessione [9].
Non è chiaramente il caso della Scozia, della Catalogna, delle Fiandre, della Corsica, del Sudtirolo. In assenza di queste eccezioni il diritto internazionale è neutro [10]. Questione chiusa dunque? Non proprio. Nel 1920, la popolazione delle isole Åland chiese alla Società delle Nazioni di potersi separare dalla Finlandia per unirsi alla Svezia. Una commissione di giuristi rigettò la richiesta statuendo che riconoscere tale diritto «significherebbe distruggere l’ordine e la stabilità negli Stati e inaugurare l’anarchia nelle relazioni internazionali». Ma la Società delle Nazioni pretese che la Finlandia implementasse misure per preservare la lingua e la cultura della popolazione delle isole Åland.
Più di recente, nel 1998, si è pronunciata sul tema la Suprema Corte canadese con delle indicazioni che potrebbero tornare molto utili all’interno dell’Unione Europea. Nel 1995 un referendum sull’indipendenza del Québec è stato perso per un soffio dai secessionisti. L’Unione era salva ma era anche chiaro che il paese era diviso in due. Ottawa chiese allora un’opinione alla Suprema Corte per sapere se esistesse nel diritto internazionale e nel diritto interno canadese la possibilità per il Québec di avviare unilateralmente la procedura di secessione.
Dal punto di vista del diritto internazionale la risposta già la conosciamo. Ma la Corte andò oltre affermando che sarebbe stato miope non prendere in considerazione il fatto che quasi metà della popolazione aveva espresso il desiderio di formare uno Stato per proprio conto. Al di là del mero dato giuridico interno o internazionale, vi era un dovere da parte del governo centrale di registrare questa esigenza e di trovare delle soluzioni. E questo dovere non era solo morale. Era talmente forte da diventare un imperativo giuridico, pena la perdita di legittimità da parte del governo centrale stesso. Insomma, in presenza di una forte volontà popolare vi è un obbligo qualificato di sedersi al tavolo delle trattative al fine di trovare soluzioni condivise e, al limite, avviare una procedura di secessione negoziata.
Londra ha seguito questa strada, chiamando al tavolo delle negoziazione le controparti scozzesi per concedere e garantire maggiori autonomie e risorse finanziarie. Il caso britannico però non può essere riportato all’interno dell’Unione Europea. Qui la negoziazione non può avvenire tra governo centrale (che non esiste) e istanze autonomiste. Le istituzioni comunitarie devono preoccuparsi di colmare il divario, oggi enorme, tra Bruxelles e le nazioni europee senza Stato.
Note:
1. Nel caso MacCormick v Lord Advocate del 1953, Lord McNair scrisse: «(That day) England and Scotland ceased to exist as international persons and became the unitary State of Great Britain».
2. Corsivo nostro, n.d.a.
3. Risoluzione del 24 ottobre 1970 A/RES/2625 (XXV).
4. «Articolo IV. Integrità territoriale degli Stati. Gli Stati partecipanti rispettano l’integrità territoriale di ciascuno degli Stati partecipanti. Di conseguenza si astengono da qualsiasi azione incompatibile con i fini e i princìpi dello statuto delle Nazioni Unite contro l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o l’unità di qualsiasi Stato partecipante, e in particolare di qualsiasi azione del genere che costituisca minaccia o uso della forza. Gli Stati partecipanti si astengono parimenti dal rendere il territorio di ciascuno di essi oggetto di occupazione militare o di altre misure di forza dirette o indirette in violazione del diritto internazionale o oggetto di acquisizione mediante tali misure o la minaccia di esse. Nessuna occupazione o acquisizione del genere sarà riconosciuta come legittima».
5. Nei primi anni Ottanta, il governo americano venne accusato dal Nicaragua di aver fornito assistenza logistica ai ribelli antisandinisti (contras). La Corte stabilì che l’azione degli Stati Uniti era illecita. Cfr. par. 191-193, alle pp. 101-103.
6. Antonio Cassese non ha mancato di notare: «In the era after the First World War self-determination, although in vogue as a political postulate and a rhetorical slogan (...) was not a part of the body of international legal norms», in ID., Self Determination of Peoples: a legal reappraisal, Cambridge 1995, Cambridge University Press, p. 317.
7. R. LANSING, The Peace Negotiations, A Personal Narrative, Boston-New York 1921, Houghton Mifflin, p. 97.
8. «Ceci n’est plus un pays», The Economist, 21/7/2011.
9. Nel caso Western Sahara di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, questa ha statuito che il diritto all’autodeterminazione trovava applicazione «allo scopo di portare tutte le situazione coloniali a una rapida conclusione», Advisory Opinion n. 61, Western Sahara, 1975 I.CJ.
12. Parallelamente, nel caso Namibia del 1971, la Corte ha statuito che il diritto all’autodeterminazione trova applicazione in tutti i territori coloniali e che «coinvolge tutti i popoli e i territori che non hanno ancora ottenuto l’indipendenza».
10. Nel corso della conferenza mondiale delle Nazioni Unite del 1993 sul diritti umani, è stato riconosciuto il diritto dei popoli a «determinare liberamente il loro status politico, e di perseguire liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale». Ma «la definizione di autodeterminazione non deve essere intesa come autorizzazione o incoraggiamento di qualsiasi azione che potrebbe smembrare o impedire, totalmente o in parte, l’integrità territoriale o l’unità politica di Stati sovrani e indipendenti che si comportino in modo da rispettare il principio della parità dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli».