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 2014  ottobre 22 Mercoledì calendario

LA BANDIERA A QUATTRO CERCHI DEI GIOCHI DI SUA MAEST


[Note alla fine]

1. PER LA GEOPOLITICA DELLO SPORT, LA Gran Bretagna rappresenta un caso eccezionale. Generalmente, nel sistema internazionale la geografia sportiva tende a coincidere con quella politica, rafforzando l’idea di un mondo diviso in Stati nazionali in competizione tra loro. Gli atleti delle isole britanniche invece, a seconda degli eventi e degli sport in cui sono impegnati, rappresentano delle squadre nazionali dalla geografia variabile. Ai Giochi olimpici o ai campionati di basket, atletica o canottaggio gareggiano con i simboli del Regno Unito, mentre nel calcio, nel rugby o ai Giochi del Commonwealth adottano i colori di una delle quattro Home Nations: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda (del Nord) [1].
Quest’anomalia ha profonde radici storiche ed è tutt’altro che priva di conseguenze politiche. Data la sua natura fisica, competitiva, non verbale e popolare, lo sport rappresenta, sia per chi lo pratica sia per chi partecipa come tifoso, un contenitore di emozioni collettive che può fungere da veicolo per costruire e definire identità individuali e di gruppo. Sebbene ciascun individuo possieda identità multiple che mutano nel tempo, esiste una nozione dominante di identità collettiva che tende a «inventare tradizioni» e a richiamare «eventi comuni» [2]. A livello nazionale, questa nozione dominante di identità viene generalmente costruita da storie, simboli e rituali comuni, dalla condivisione di eventi eccezionali come elezioni politiche, catastrofi, commemorazioni, ma anche di esaltanti vittorie o drammatiche sconfitte sportive [3]. Pure la semplice riproduzione dei campionati nazionali o l’esplicito legame fra simboli nazionali e sportivi (inno, bandiera, colore delle maglie) rafforzano poi sentimenti di «nazionalismo banale» che, quasi inconsciamente, pongono le basi per un eventuale rigurgito del «nazionalismo caldo» in caso di guerre o crisi [4]. Del resto, «comunità immaginate di milioni sembrano più reali in una squadra di undici persone. L’individuo, anche quello che fa solamente il tifo, diventa un simbolo della nazione stessa» [5].
Lo sport rientra quindi a pieno titolo fra i fenomeni sociali che giocano un ruolo nel quotidiano processo di costruzione e rimodellamento dell’identità britannica. Le istituzioni sportive si sono infatti adattate all’evoluzione geopolitica dei territori dello Stato britannico, il cui nome e la cui geografia, dall’Act of Union del 1707 a oggi, sono frequentemente cambiati per rispondere alle esigenze di convivenza politica del cuore dello Stato, l’Inghilterra. Questa adottò la nozione di Britishness unicamente per incorporare e tenere insieme le nazioni vicine.

2. Sviluppatesi nelle isole britanniche tra il XVIII e il XIX secolo sulla scia della rivoluzione industriale, lo sport moderno si affermò nel corso dell’età vittoriana come un elemento identitario distintivo dell’immagine «con cui i britannici si presentavano al mondo e che i non anglosassoni associavano alla Gran Bretagna» [6]. Basti pensare a quante generazioni sono cresciute con l’affermazione leggendaria attribuita al duca di Wellington secondo cui la battaglia di Waterloo fu vinta «on the playing fields of Eton» [7] e nella convinzione che «se la noblesse francese fosse stata capace di giocare a cricket con i suoi contadini, i loro castelli non sarebbero stati bruciati» [8]. Lo sport britannico, al contrario dei giochi tradizionali legati al localismo e della ginnastica militarista di matrice continentale, possedeva un ethos moderno che si legava alla democrazia liberale poiché, se da un lato tutti avevano in partenza le stesse possibilità di partecipare e giungere alla vittoria, dall’altro educava al rispetto delle regole, pensate per fare dello sportsman un perfetto gentleman.
Ovunque andassero nel mondo, i britannici portavano il necessario per i loro games. Eppure, non sentirono mai l’esigenza di creare Nazionali sovrapponibili allo Stato, nemmeno quando si affermò l’attuale sistema basato sui Giochi olimpici e sui Campionati mondiali e continentali organizzati dalle federazioni sportive internazionali. Si riteneva infatti che lo sport fosse già di per sé un istituto unificante, alla stregua della Royal Navy o della British Army, al loro interno suddivise in reggimenti nazionali separati. Di conseguenza, finché il Regno Unito rimase il cuore dell’impero, l’indipendenza sportiva delle Home Nations e la rinuncia alla rappresentanza britannica fu sostanzialmente una delle concessioni pragmatiche del centro nei confronti delle sue periferie, cui Londra si mostrava disponibile a patto che non mettessero in discussione la sovranità.
Scozzesi, gallesi e protestanti irlandesi, felicemente inclusi in un progetto di Britishness grazie al quale potevano svolgere un ruolo preminente nella gestione dell’impero, adottarono con entusiasmo i cosiddetti sport «britannici». Al contrario, i nazionalisti irlandesi presero le distanze dal calcio, dal rugby e dal cricket, che ritenevano forme di oppressione culturale, e fondarono nel 1884 la Gaelic Athletic Association (Gaa). Attingendo alle tradizioni dei giochi folkloristici della campagne irlandesi, inventarono delle nuove discipline come l’hurling e il calcio gaelico la cui pratica divenne ben presto un’esplicita forma di resistenza politica nei confronti della cultura britannica.
Avendo insegnato al mondo how to play, per tutto il XIX e per buona parte del XX secolo i britannici godettero dal punto di vista-culturale e morale di una sorta di egemonia globale nel campo sportivo. Al di fuori dell’impero, tuttavia, la sua diffusione era avvenuta quasi esclusivamente in modo indiretto, senza proselitismi, perché lo sport era considerato un fenomeno intrinsecamente anglosassone [9]. Solo l’esigenza di essere competitivi in discipline non tradizionalmente britanniche o l’esplicito vincolo imposto da organismi sportivi internazionali come il Comitato olimpico internazionale portarono alla nascita di Nazionali sportive rappresentanti il Regno Unito.

3. Con la fine della seconda guerra mondiale, gran parte delle discipline sportive, a partire dal calcio e dall’atletica, avevano ormai cessato di essere identificate come un prodotto culturale esclusivamente britannico. Inoltre, in parallelo alla perdita di influenza nelle relazioni internazionali, lo stesso modello sportivo vittoriano aveva perso la propria centralità a discapito di quelli statunitense e sovietico. Malgrado la profonda crisi politica del Regno Unito, nel secondo dopoguerra lo sport rimase un importante elemento per definire l’identità britannica e si rivelò un fenomeno capace di assecondare i disegni di politica estera del paese. Lo sport svolse infatti un ruolo all’interno di quei tre cerchi geopolitici – l’impero, l’Anglo-America e l’Europa – individuati da Winston Churchill come centrali per il futuro della politica estera britannica [10].
All’interno del cerchio imperiale, nel corso della decolonizzazione, alcune sconfitte sportive contribuirono a evidenziare il declino della Gran Bretagna e ad assecondare le istanze dei movimenti nazionalisti e indipendentisti che, battendo i colonialisti nei loro sport, affermavano la propria emancipazione. Allo stesso tempo però, una volta concessa l’indipendenza, lo sport si rivelò un mezzo essenziale per riaffermare la continuità della solidarietà imperiale. La Gran Bretagna usò scientemente – e non senza un certo paternalismo – lo sport come strumento per rafforzare i legami informali con quei paesi di cui stava perdendo il controllo formale. Simbolo per eccellenza di questa politica furono i Giochi del Commonwealth [11]. Se fino all’edizione del 1966 1’80% degli atleti proveniva dalle quattro Homo Nations o dai White Dominions, nelle edizioni successive la partecipazione delle ex colonie aumentò radicalmente. Con la liberalizzazione del commercio mondiale il Commonwealth ha certamente perso gran parte della sua rilevanza politica ed economica, al punto che gli stessi omonimi giochi vengono ormai descritti come un anacronismo. Tuttavia, proprio i legami sportivi restano uno dei pochi aspetti capaci ancora di riunire con successo questa eterogenea «famiglia».
L’idea di una special relationship con gli Stati Uniti, capace di formare «uno spazio politico costituito da importanti relazioni economiche, politiche, ideologiche e culturali» fra i due paesi, è stata ugualmente al centro delle politiche britanniche dalla seconda metà del XX secolo [12]. Anche lo sport, che aveva contribuito alla costruzione dell’Anglo-America come una comunità immaginata solidale attraverso competizioni originariamente bilaterali come l’America’s Cup di vela e la Ryder Cup di golf, finì negli anni per evidenziare la marginalità del Regno Unito, data l’asimmetria di potere esistente fra i due attori. Dal 1964 a oggi nessun equipaggio britannico ha più raggiunto la finale di America’s Cup. Nel golf, la squadra britannica, per poter continuare a competere con gli statunitensi, si è dovuta allargare prima all’Irlanda (1973) e poi al resto d’Europa (1979).
Il terzo cerchio individuato da Churchill – l’Europa – è forse quello che ha prodotto i risultati più concreti per la politica estera britannica, ma appare allo stesso tempo il più complesso e problematico. Pur essendo un paese culturalmente, geograficamente e politicamente europeo, la Gran Bretagna ha costruito la propria identità nazionale individuando l’«altro» proprio nell’Europa [13]. Per certi versi, il mondo dello sport ha rafforzato questa visione. Basti pensare a come cricket e rugby (con l’eccezione di Francia e Italia) restino in buona parte estranei alla cultura sportiva continentale. O a come le stesse rivalità calcistiche abbiano perpetuato in diverse occasioni e con il concorso della stampa popolare fenomeni di euroscetticismo. Tornei come la Champions League, o l’Heineken Cup, soprattutto dopo la firma del trattato di Schengen, favoriscono la circolazione dei tifosi nelle principali città continentali e concorrono alla rappresentazione di un’Europa senza frontiere interne. È inoltre curioso osservare come la più celebre e pressoché unica Nazionale sportiva europea – quella golfistica della Ryder Cup – sia una diretta evoluzione di un team britannico [14]. La ritrovata competitività del trofeo ha di fatto riacceso la rivalità fra la squadra europea e quella statunitense. E nel pubblico britannico, che in quelle occasioni sventola con passione le bandiere dell’Ue, «l’anti-americanismo ha trionfato sull’euro-scetticismo» rafforzando «un senso di identità europea» [15].

4. Data la quasi totale marginalità del Commonwealth e lo svuotamento della special relationship con gli Stati Uniti, per la politica estera britannica non sembrerebbero esserci altre scelte se non – come avvenuto nel golf – una più profonda integrazione in seno all’Ue. Eppure, le posizioni antieuropeiste sono tornate maggioritarie. In un certo senso, dopo la dissoluzione dell’impero, proprio la parziale perdita di sovranità all’interno dell’Ue ha messo in discussione la necessità stessa di un’identità britannica, favorendo indirettamente il rafforzamento delle identità delle nazioni culturali del Regno Unito, compresa quella inglese che in precedenza tendeva a coincidere con quella britannica [16]. Dopo aver rischiato di perdere la Scozia, la priorità della politica estera di Londra è il cerchio che nella sua visione Churchill aveva dato per scontato: quello britannico. Senza un progetto condiviso infatti potrebbero emergere dei dubbi sull’esistenza stessa del Regno Unito [17].
All’interno di questo cerchio, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta sulla spinta del New Labour Londra aveva comunque provato a raddrizzare la declinante immagine del paese, troppo legata al passato imperiale. Lo sport rientrò a pieno titolo in quest’operazione postmoderna di rebranding dell’identità nazionale britannica celebrata dallo slogan «Cool Britannia». Il simbolo sportivo architettonico di questa rivoluzione culturale è senza dubbio l’abbattimento del vecchio British Empire Stadium di Wembley con le sue caratteristiche torri in stile imperiale e la sua avveniristica ricostruzione ex novo priva di ogni riferimento nostalgico. L’apogeo del legame fra la costruzione di questa nuova immagine britannica e lo sport è stato invece raggiunto nel corso delle Olimpiadi di Londra in virtù del successo organizzativo, delle numerose vittorie ma soprattutto di una cerimonia «pop» e autoironica in cui la regina Elisabetta apparve in volo su un paracadute.
Nemmeno un momento condiviso e unificante come i Giochi è riuscito a stemperare completamente le tensioni autonomiste. La federazione scozzese, per esempio, si rifiutò nell’occasione di concedere i propri calciatori per la squadra britannica che per la prima volta dal 1960 partecipava al torneo olimpico. L’indipendenza sportiva delle Home Nations all’interno del «cerchio britannico», offrendo un palcoscenico unico nel suo genere in cui possono essere celebrate le rispettive identità nazionali spesso in antitesi con quella inglese, è stata sempre difesa gelosamente.
Limitandosi al caso scozzese, è indubbio che il rugby e soprattutto il calcio abbiano svolto un ruolo cruciale per mantenere viva l’idea dell’indipendenza culturale quando questa non era ancora entrata nell’agenda politica. Le istanze autonomiste, specie negli incontri con l’Inghilterra, non sono certo rimaste fuori dagli stadi. La crescente richiesta di un parlamento scozzese, per esempio, si esplicitò nel 1977 con una massiccia invasione di campo dopo una vittoria in trasferta contro l’Inghilterra, al grido di «Give us an Assembly, we’ll give you back your Wembley» [18]. Negli anni successivi al fallimento del referendum (1979), preceduto dal flop ai Mondiali di calcio del 1978, emerse un gruppo di tifosi organizzati conosciuto come Tartan Army. La Tartan Army, prendendo le distanze dalla violenza e dal settarismo religioso, si fece portatrice di una nuova identità scozzese legata allo sport, recuperando alcuni simboli del folklore come il kilt e le cornamuse. In relazione alla crescita delle richieste di devoluzione, furono fatte concessioni anche in ambito sportivo. Dal 1990 Flower of Scotland viene suonato al posto di God Save the Queen come inno nazionale, mentre dal 1996 la colonna sonora del film hollywoodiano Braveheart funge da preludio degli incontri delle Nazionali scozzesi [19].
Non sempre il nazionalismo sportivo è coinciso con quello politico. Celebre è l’espressione «ninety minutes patriots», coniata dal leader dello Scottish National Party, Jim Sillars, dopo le elezioni del 1992 per definire quei suoi connazionali patriottici solamente in occasione delle manifestazioni sportive. Individuare un nesso diretto fra i due nazionalismi può essere quindi ingannevole: dopotutto, l’impennata delle preferenze per l’indipendenza è giunta in un momento in cui le Nazionali scozzesi di calcio e rugby vivono una profonda crisi di risultati e di gioco. Tuttavia, proprio un grande evento sportivo sembrerebbe aver influito sul voto: i Giochi del Commonwealth, svoltisi con successo a Glasgow dal 23 luglio al 3 agosto 2014. Nella scelta della data del referendum, gli organizzatori hanno fatto in modo che cadesse successivamente ai Giochi. I quali si sono rivelati, specie nella cerimonia d’apertura, una vetrina per affermare una storia e una cultura autonoma da quella inglese, ma soprattutto per dimostrare come la Scozia possegga la responsabilità, il know-how e le risorse per organizzare con successo un grande evento sportivo internazionale. Una mossa vincente malgrado l’esito finale del referendum. Dopo l’evento sportivo, tutti i sondaggi hanno evidenziato una riduzione della forbice fra Sì e No; a Glasgow i voti favorevoli all’indipendenza hanno superato quelli contrari.

5. In un voto estremamente divisivo seppur caratterizzato da un grande fair play «britannico» fra i contendenti, gli atleti in attività hanno mantenuto un profilo basso. Il tennista Andy Murray, il più celebre sportivo scozzese, dopo lunghi tentennamenti si è schierato timidamente per l’indipendenza. Altri suoi colleghi, a partire dall’ottocentista Lynsey Sharp, hanno lasciato pragmaticamente intendere come per il proseguo della loro carriera potesse essere più proficuo continuare a usufruire dei sussidi britannici e delle infrastrutture d’eccellenza ereditate da Londra 2012. Più esplicita invece è stata, specie a Glasgow, la mobilitazione delle tifoserie calcistiche. Sebbene le antiche fratture religiose che continuano a influenzare – pur con meno violenza che in passato – sia il tifo sia la politica scozzese siano rimaste sullo sfondo del dibattito referendario, i tifosi dei Celtic si sono generalmente schierati in favore dell’indipendenza e quelli dei Rangers per il mantenimento dell’Unione.
Lo sport ha ormai cessato di essere un fenomeno esclusivo dei britannici. Eppure resta uno degli elementi che contribuiscono a modellarne l’identità. La nostalgia imperiale espressa dai Giochi del Commonwealth, il declino delle competizioni bilaterali con gli Stati Uniti o l’inatteso europeismo che emerge in occasione della Ryder Cup evidenziano le complessità del progetto britannico. È però soprattutto all’interno del cerchio britannico che emerge l’ambivalenza dello sport come fattore identitario. L’autonomia sportiva delle Home Nations ha senza dubbio contribuito a mantenere vivi e a rinforzare sentimenti di indipendentismo, ma allo stesso tempo ha agito anche come valvola di sfogo sviluppando forme di nazionalismo limitate esclusivamente alla sfera culturale. Così nei prossimi mesi, senza che ciò rappresenti una contraddizione, molti di coloro che hanno votato No al referendum si recheranno felici ad Hampden Park o a Murrayfield per incitare la Nazionale scozzese indossando un kilt e sventolando la Saint Andrew’s Cross.


Note:
1. Si ringraziano l’ex direttore e il direttore dell’International Center for Sport History and Culture della De Montfort University di Leicester, Richard Holt e Martin Polley, per il prezioso confronto alla vigilia del referendum sull’indipendenza della Scozia.
2. Cfr. N. ELIAS, The Established and the Outsider. A Sociological Enquiry into Community Problems, London 1994, Sage.
3. Cfr. A. GIDDENS, The Nation State and Violence, Cambridge 1985, Polity Press.
4. Cfr. M. BILLIG, Banal Nationalism, London 1995, Sage.
5. Cit. in E. HOBSBAWM, Nations and Nationalism since 1780. Program, Myth, Reality, Cambridge 1990, Cambridge University Press, p. 143.
6. Cit. in R. HOLT, Sport and the British. A Modem History, Oxford, 1989, Clarendon Press, p. 2. Per una definizione di «sport moderno» come fenomeno nuovo rispetto a tutte le forme di cultura fisica precedente si veda: A. GUTTMANN, Dal Ritual al Record: la natura degli sport moderni, Napoli 1994, Edizioni Scientifiche Italiane.
7. Cit. in A. GUTTMANN, The Olympics: A History of the Modern Games, 1992, University of Illinois, p. 9.
8. Cit. in R. HOLT, op. cit., p. 268.
9. Cfr. M. POLLEY, Moving the Goalposts: A History of Sport and Society since 1945, London, 1998, Routledge, p. 41.
10. Cfr. A. GAMBLE, Between Europe and America: The Future of British Politics, Basingstoke 2003, Palgrave.
11. Nati nel 1930 come British Empire Games, nel 1954 assunsero la denominazione di British Empire and Commonwealth Games, nel 1966 di British Commonwealth Games e dal 1978 Commonwealth Games. Si veda M. POLLEY, (a cura di), «The British Empire and Commonwealth Games», Sport in History, 34, 3, 2014.
12. Cit. in A. GAMBLE, op. cit., pp. 84-86.
13. Cfr. M. MARCUSSEN, T. RISSE ET AL., «Constructing Europe? The Evolution of French, British and German Nation State Identities», Journal of European Public Policy, 6, 4, 1999, p. 625.
14. Sul caso della Ryder Cup e sulla necessità di Nazionali europee come strumento politico per rafforzare sentimenti identitari pro-Ue si veda F. CAMMARANO, «Sport e identità europea», IL Messaggero, 13/11/2009; N. SBETTI, «Se lo sport fa l’Europa», Lancillotto e Nausica, n. 1-3, 2012.
15. Cit. in R. HOLT, T. MASON, Sport in Britain 1945-2000, Oxford 2000, Blackwell, p. 141.
16. Sull’emergere di un’identità inglese separata da quella britannica nel calcio si veda T. GIBBONS, «Contrasting Representations of Englishness during FIFA World Cup Finals», Sport in History, 30, 3, 2010, pp. 422-46.
17. Cfr. A. GAMBLE, op. cit., p. 51
18. Cit. in R. HOLT, T. MASON, op. cit., pp. 134-135.
19. Sul rapporto fra sport e identità scozzese si vedano G. JARVIE, G. WALKER, Scottish Sport in the Making of the Nation: Ninety minutes patriots?, Leicester 1994, Leicester University Press, e R. KOWALSKI, «Cry for us, Argentina, Sport and National Identity in late Twentieth-Century Scotland», in A. SMITH, D. PORTER, Sport and National Identity in the Post-War World, London 2004, Routledge.