Alberto Bagnai, il Fatto Quotidiano 22/10/2014, 22 ottobre 2014
GERMANIA, L’ACQUA CALDA DEL FINTO BOOM
Siamo arrivati alla scoperta dell’acqua calda: il modello tedesco tanto vincente non è, visto che anche su di lui incombe lo spettro della recessione “tecnica”. La revisione all’1,2% delle previsioni di crescita annuali implica che il risultato del terzo trimestre sarà verosimilmente negativo, come quello del secondo. La probabilità di un’ulteriore flessione è segnalata sia dall’andamento della produzione industriale (in calo da tre trimestri nel settore trainante dei beni durevoli, con un -6.7% fra secondo e terzo trimestre), sia dall’indicatore anticipante elaborato dall’Ocse. Ciò avviene mentre l’Eurozona è l’unica regione che non ha recuperato rispetto alla crisi del 2008: tutte le altre macro-regioni dell’economia mondiale hanno oggi un livello di reddito superiore a quello del 2007. Se guardiamo la crescita, peggio ancora.
Quella dei nostri partner è su valori dignitosi e stabili: Usa al 2%, Cina e economie emergenti asiatiche intorno al 7%, economie europee in transizione al 3%. Svanisce l’altro mito fondante della teologia mediatica italiana: quello di una Germania forte perché esporta in Cina. Se la Cina continua a crescere, ma la Germania no, i conti non tornano.
Prassi vorrebbe che seguisse il commento dell’economista. Ma un economista è un esperto che saprà domani perché quello che ha previsto ieri non si è verificato oggi. Quindi in questo caso temo di non potervi essere di aiuto. Che con la sua intransigenza la Germania stesse segando il ramo sul quale era seduta (cioè l’Eurozona) l’ho detto il 23 agosto 2011 sul manifesto, e le statistiche aggiornate secondo il sistema SEC2010 ci dicono che questa facile previsione si è già verificata: la Germania è già stata in recessione tecnica fra fine 2012 e inizio 2013, anche se nessuno ne ha parlato. Quella che si potrebbe materializzare fra breve sarebbe così la terza recessione dal 2008, il triple dip. Nulla di catastrofico: forse un -0.2% sul trimestre precedente, nel contesto di una crescita annuale comunque sopra all’1% (per noi un miraggio). Ma il dato è significativo perché rivela che la Germania non può fare a meno dell’Europa.
La grama vita dell’economista offre solo l’inelegante soddisfazione di dire “io l’avevo detto” e mi scuso per averne approfittato. Non vorrei però che questo articolo passasse per la petulante rivincita del secchione che per una volta ci ha azzeccato. Vorrei invece riflettere con voi sul fatto il problema al quale siamo di fronte è piuttosto banale in termini economici (l’euro non funziona), ma è enorme in termini politici. La crisi tedesca ci impone di ripensare il modo in cui negli ultimi trent’anni abbiamo articolato il nostro rapporto con l’Europa. L’idea che gli italiani non si meritassero la democrazia, e quindi avessero bisogno di un “vincolo esterno”, di “regole europee”, per governarsi, si sta rivelando fallace non solo per il suo intrinseco fascismo (che già basterebbe a rifiutarla), ma soprattutto perché il modello che le nostre élite ci additano, cioè la Germania, è fallimentare. Il decollo del surplus commerciale tedesco a partire dall’ingresso nell’euro rivela che l’industria tedesca può prosperare solo in un mercato drogato dalla finanza tedesca. Il modello tedesco è semplice: se ti indebiti per comprare i miei beni, sono bravo io; se poi i soldi che ti ho prestato con le mie banche decotte non riesci a restituirli, sei cattivo tu. Il classico testa vinco io, croce perdi tu. Mentre i nostri giornalisti sproloquiano di una “Italietta della liretta”, la “Germaniuccia del marchetto” è sotto i nostri occhi. L’ha detto chiaro e tondo l’ex-ministro Visco in un’intervista a Stefano Feltri (13 maggio 2012): “Alla Germania servivamo nell’euro proprio perché deboli”. Nonostante le dichiarazioni avverse delle élite finanziarie tedesche, chi comandava sapeva che la presenza dei paesi del Sud avrebbe dato alla Germania il vantaggio di commerciare con una moneta che per lei era una lira travestita, dandole un vantaggio di prezzo. Ai moralisti “de noantri”, che tanto volevano “alzare la nostra asticella” (che poi non era la loro, ma quella di contribuenti e imprese) per sferzarci a essere competitivi, sfuggiva che così facendo l’abbassavano a un’economia già più produttiva della nostra, che quindi non avrebbe avuto bisogno di essere aiutata.
Ma in economia non ci sono miracoli, e i comportamenti sleali si pagano sempre. Drogando la propria competitività con una moneta per lei debole, e la propria crescita con la domanda altrui (le esportazioni), scegliendo insomma di campare sui consumi altrui anziché sugli investimenti propri, la Germania ha compromesso il proprio futuro. Oggi tutti i giornali propalano il segreto di Pulcinella: la dotazione infrastrutturale tedesca è in uno stato preoccupante, le politiche di repressione salariale hanno fatto aumentare la disuguaglianza, le banche tedesche avranno seri problemi col prossimo stress test, la produttività rallenta. Tutto vero, ma perché lo scoprono solo adesso?
Qui vengono al pettine due nodi politici. Il primo, di breve periodo, è l’evidente tentativo delle nostre élite di addossare la colpa di un sistema sbagliato al modo in cui la Germania lo ha gestito. Tentativo sleale e ingiusto: la Germania ha fatto i propri interessi, magari in modo miope (e ne pagherà i costi), ma questo non può esserle rimproverato. L’Europa infatti non nasce nel segno della solidarietà fiscale: se così fosse stato, si sarebbe creato uno stato federale. Nasce invece nel segno delle regole. Era quindi chiaro fin dall’inizio che non ci sarebbe stata la volontà politica di affrontare un percorso comune, e hanno sbagliato le nostre élite, privandoci in un simile contesto dell’arma difensiva del cambio.
Il secondo tema è di respiro più ampio. Il fallimento del modello tedesco indurrà finalmente i nostri politici ad abbandonare la retorica dell’europeismo di maniera? Quando avremo politici disposti a riconoscere che l’interesse nazionale non è un residuato bellico, ma un dato col quale confrontarsi in questa unione di paesi disparati, non mediata da alcuno strumento politico di condivisione del rischio economico? Riconosceranno mai che ripristinare lo Stato nella sua piena sovranità economica è indispensabile per tutelare i diritti economici e civili dei cittadini? Sono queste le domande che ci porremo a Montesilvano (Pe) l’8 e 9 novembre prossimi nel convegno Euro, mercati, democrazia 2014 (informazioni su asimmetrie.org ).