Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 22 Mercoledì calendario

SCOTS AND THE CITY


[Editoriale]

1. CONVIENE AMMETTERLO: DEL REFERENDUM CHE IL 18 SETTEMBRE scorso ha per ora negato alla Scozia il diritto di lasciare il Regno Unito avevamo capito poco. Credevamo che la posta in gioco fosse la Scozia, invece era l’Inghilterra, ovvero il rango di Londra nel mondo. Credevamo che la questione fosse geopolitica, quando era soprattutto politica. Credevamo che la sconfitta degli indipendentisti scozzesi avrebbe stemperato i secessionismi serpeggianti in Europa – anche in Italia – mentre li ha incentivati, a partire dalla Catalogna. Peggio: immaginavamo che il Sì fosse Sì e il No No, perché il superfluo procede dal Maligno.
Ma il discorso della Montagna non regola lo spirito britannico. Il voto non ha sciolto il dilemma cui in punto di diritto era dedicato. I nazionalisti scozzesi già studiano percorsi alternativi per giungere all’indipendenza nel giro di anni, non decenni. Di più: il risultato di una consultazione popolare tanto partecipata (il 97% degli aventi diritto si è registrato, l’84,6% ha votato), che ha tenuto in apprensione mercati finanziari, élite politico-economiche e opinioni pubbliche in tutto il pianeta, ha dissotterrato una miriade di dispute geopolitico-identitarie – dentro e fuori ciò che resta del Regno Unito – tale da impegnare Limes per il prossimo ventennio. Cominciamo subito. Esaminando uno alla volta gli equivoci sopra elencati.

2. Il primo è errore di scala. Nel momento in cui si mette sul tavolo l’indipendenza della Scozia si decide il futuro dell’Inghilterra. Attenzione: i due termini non sono omologhi. La Scozia è un’entità storicamente, territorialmente e costituzionalmente (nei limiti della uncodified Constitution che regola le istituzioni britanniche) definita. Ha una propria cultura giuridica, una religione nazionale, una struttura amministrativa distinta. La sua temperatura politica spicca per la persistenza di correnti socialiste, che si traducono nell’egemonia del Labour (40 deputati sui 59 eletti scozzesi al parlamento britannico) e nell’inclinazione verso il welfare scandinavo di gran parte del movimento indipendentista e della sua stessa avanguardia, lo Scottish National Party, di fatto a sinistra dei laburisti. Dal 2007 questo partito è al governo a Edimburgo. Dal 2011 è maggioritario nel parlamento scozzese, insediato nel palazzo di Holyrood, opera di un architetto catalano (affinità elettive?). Infine, i nazionalisti scozzesi mirano a una Carta scritta sul modello americano. Quando dici Scozia sai cosa dici.
Non così per l’Inghilterra. Il suo spazio è parte dominante della Gran Bretagna, accanto a Scozia e Galles, che con l’Irlanda del Nord forma il Regno Unito (United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, in sigla Uk), soggetto geopolitico sulla scena internazionale. Gli inglesi non hanno governo né parlamento, mentre persino gallesi e nordirlandesi dispongono di un’assemblea elettiva. Costituzionalmente l’Inghilterra non esiste. L’Encyclopædia Britannica informa che «un ruolo specificamente inglese nel governo e nella politica contemporanea è di ardua identificazione in qualsiasi senso formale» [1]. Sotto il profilo storico-identitario, l’Englishness tende a essere ricompresa nella Britishness, neanche fossero sinonimi. Nel linguaggio corrente e persino nella comunicazione politica «inglese» sta spesso per «britannico», «Inghilterra» per «Regno Unito». L’Oxford History of Britain stabilisce che l’Inghilterra è «quasi un’espressione geografica, come un tempo Metternich definì l’Italia» [2].
Eppure l’84% dei sudditi di Sua Maestà Britannica è inglese, appena l’8% scozzese. L’Inghilterra e divisa in regioni e contee centrate su Londra, cuore storico, economico e politico del Regno Unito. Stato fondato sulla sovranità del «re in parlamento», strutturalmente centralizzato. Solo allo scadere del Novecento, sotto la spinta del New Labour di Tony Blair, i governi britannici hanno accelerato la devoluzione dei poteri dal centro alle periferie. Processo disorganico. A pezzi. Incentivato dalla necessità di impedire che la diffusa insofferenza scozzese per l’establishment inglese, inasprita dall’iperliberismo dei governi Thatcher, producesse una deriva secessionista che avrebbe drasticamente ridotto il peso dei laburisti a Westminster. Ne è scaturita una devolution squilibrata a favore della Scozia. Forse era inevitabile. Nel Regno Unito qualsiasi architettura federale sarebbe sbilanciata dalla primazia inglese. Meglio, londinese. E se pure sono trascorsi settant’anni dalla seconda guerra mondiale, difficilmente il pubblico britannico potrebbe accettare una costruzione evocativa del modello tedesco. Una Bundesmonarchie sulle rive del Tamigi è indigeribile.
La devoluzione asimmetrica avrebbe dovuto sedare, oltre al montante secessionismo della Scozia, quello potenziale del Galles, e insieme scongiurare il matrimonio fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. S’è invece svelata incentivo all’indipendentismo scozzese e al sempre più disinibito autonomismo gallese, mentre la questione irlandese – dove gli unionisti filo-britannici sono per buona quota di matrice etnica scozzese – è in naftalina, perché irresolubile in termini consensuali. Quanto più Londra concede, tanto più Edimburgo e Cardiff rivendicano. Intanto Belfast attende di capire se il Regno Unito sarà ancora degno dell’aggettivo che porta.
Se il 18 settembre avesse vinto il Sì, gli inglesi avrebbero dovuto soggiacere alla scelta di un popolo dieci volte meno numeroso (5 milioni e mezzo contro 54), spesso oggetto di (ricambiata) irrisione – non solo per il peculiare rotacismo che distingue la parlata a nord e a ovest del Vallo di Adriano, nelle frange celtiche dell’arcipelago britannico. Per le élite inglesi, sovraccariche di memorie imperiali – e relativi tic – consapevoli che la vulgata storica più o meno condivisa è la base minima di convivenza in un contenitore plurinazionale, la rottura per via referendaria della poco spontanea Unione del 1707 avrebbe prodotto un trauma insopportabile. Infondo, l’annessione del vicino nordico – accelerata sull’onda dell’avventura coloniale scozzese a Darién, sull’istmo di Panamá, considerata irricevibile concorrenza dal parlamento inglese che reagì con ferree sanzioni – fu ispirata dal timore che la Francia utilizzasse le highlands celtiche quale piattaforma per aggredire l’Inghilterra. Si obietterà che nella cosiddetta èra della globalizzazione l’interesse territoriale è passé. Sarà, anche se molto intorno a noi sembra contraddire tanta asseverazione.
Resta la forza del simbolo. Il Regno Disunito è piatto difficile da servire a Londra e dintorni, non solo per lo stomaco della regina. Ma se proprio occorre divorziare, gli inglesi vogliono farlo secondo i loro termini, non quelli imposti da scelte altrui. Il revival del patriottismo anglo, con lo stendardo nazionale – rossa croce di San Giorgio su sfondo bianco – riesumato al fianco o al posto dello Union Jack in occasioni sportive e in raduni di massa, espone tale disagio.
Lo stesso primo ministro ha solennemente rilanciato la questione inglese. Celebrando l’esito del referendum in Scozia – No 55,3%, Sì 44,7% – come successo del suo conservatorismo moderato, David Cameron ha promesso una rivoluzione istituzionale. A confermare l’impegno preso dai leader dei partiti nazionali – conservatori, liberaldemocratici, laburisti – provvisoriamente riuniti sotto la bandiera del Better Together, a pochi giorni dal referendum scozzese. In gergo, è la Devolution max. Nella sostanza, la proposta è tutta da definire. È solo embrione di riforma, prodotto del panico generato a Westminster dagli ansiogeni sondaggi dell’ultima ora. Certo saranno assegnate competenze vieppiù pronunciate al parlamento di Edimburgo, specie su fiscalità e welfare. Ma il processo dovrà svolgersi contestualmente all’ulteriore devoluzione in Galles e in Irlanda del Nord. E Cameron spergiura che questa coinciderà con l’autogoverno dell’Inghilterra. Secondo il premier la devoluzione massima sarà ispirata al postulato per cui gli interessi delle quattro nazioni costituenti sono egualmente legittimi. Tea for all, come in Spagna fu café para todos quando si volle inventare una griglia autonomistica compatibile con le pulsioni centrifughe di baschi, catalani e galiziani senza umiliare Madrid. Peccato che appena ultimato lo scrutinio scozzese i partiti nazionali abbiano cominciato ad accapigliarsi sulle clausole della Devolution max. Com’è buona prassi nella madre di tutte le democrazie, orgogliosa discendente della Magna Carta, eppure talmente refrattaria alle rigidità implicite in ogni costituzione da rifiutarsi di scriverne una.
Il capo del gabinetto britannico afferma che se gli inglesi non possono più decidere per gli scozzesi sui temi di casa loro, questi non devono più interferire negli affari interni all’Inghilterra. In slogan: «English votes for English laws». Bella frase. Ma che cosa significa? Affiancare a Westminster un parlamento inglese, sovrano sulle materie devolute, appare macchinoso. I rapporti di forza fra Inghilterra e resto del Regno Unito implicherebbero l’egemonia dell’assemblea inglese su quella britannica. Impedire invece ai deputati scozzesi eletti nel parlamento della regina di esprimersi su leggi riguardanti l’Inghilterra – ammesso e non concesso che tale distinzione sia cristallina – significherebbe violare il principio di eguaglianza fra i membri della Camera dei Comuni. Se poi, come molti prevedono, i laburisti vincessero le elezioni del maggio 2015, si creerebbero probabilmente due maggioranze nello stesso parlamento. Sugli affari esteri e di difesa deciderebbe il Labour in quanto prevalente nel Regno Unito, sui dossier devoluti rischierebbe di vincere l’opposizione, visto che su di essi non potrebbero esprimersi i deputati eletti nei collegi di Scozia, quasi tutti afferenti al campo della sinistra.
Lo stesso mentore accademico di Cameron, il politologo Vernon Bogdanor, ha liquidato l’idea dell’ex pupillo, invitato a ripassare le dispense dei suoi corsi: «Voti inglesi su leggi inglesi è un principio mal concepito. È una proposta separatista che finirebbe per dividere due sistemi di governo – l’inglese e lo scozzese – che devono essere associati se si vuole rafforzare l’Unione». Meglio lasciare le cose come stanno: «L’asimmetria è il prezzo che l’Inghilterra paga per tenere la Scozia nell’Unione» [3].
La questione inglese ha poi una dimensione eminentemente territoriale. In carenza di un’identità istituzionale propria, non riducibile alla matrice britannica (ovvero imperiale) e alla correlativa gestione centrale del potere, l’Inghilterra si scopre plurale. Quante sub-Inghilterre contiene l’Inghilterra? La Cornovaglia, forte anche delle sue radici celtiche, rivendica una certa autonomia. Persino lo Yorkshire, regione che fino a ieri non sembrava suscitare attaccamento emotivo, anela l’autogoverno. L’ultimo grido del localismo ha già trovato il suo imprenditore politico: Yorkshire First, ennesima scheggia anti-establishment pronta a lanciarsi nel gran ballo della balcanizzazione in salsa inglese, al ritmo sincopato della Devo-max. Pur con le sue insospettate linee di faglia interne, il Nord inglese, tuttora sensibile al richiamo laburista, mastica insofferenza per i vincoli imposti dal centro, identificato con il Sud-Est, bastione del conservatorismo.
Eppoi c’è l’elefante nell’armadio. Londra. Città mondiale, prima che capitale del Regno Unito. Massima piazza finanziaria del pianeta. Stato a sé, giurano alcuni. State of mind, ricama il suo biografo Poter Ackroyd [4]. Metropoli multietnica, eco dell’impero che fu. Rifugio di milioni di immigrati delle più varie origini, che vi ritagliano recinti propri, talvolta esclusivi. Comunità formalmente britanniche, quando dotate di passaporto. Di sicuro non inglesi. Nelle quali matura a fatica un’identità neo-britannica, espressione post-coloniale delle gloriose tradizioni imperiali. Con una sfumatura coloured, non fosse che per opposizione al cliché dell’inglese bianco. Patchwork inebriante quanto cacofonico, mèta prediletta di studenti e giovani «globali» – moltissimi gli italiani. Nel suo cuore musulmano – Londonistan – crescono anche i jihadisti arruolati dallo Stato Islamico. Compreso forse «Jihadi John», il rapper che sgozzando a favore di telecamera due ostaggi americani ha ricostretto Obama nelle sabbie mobili dei deserti arabici da cui si sperava emancipato.
Al resto del Regno Unito, incluse le periferie nordiche e le appendici occidentali dell’Inghilterra, Londra non di rado appare come un vortice che aspira e consuma le ricchezze nazionali, assai variamente distribuite. Gestita da un’oligarchia tanto opaca da nutrire le più cupe teorie del complotto, come quella che ha travolto Blair, accusato di aver manipolato l’intelligence per accodarsi a Bush nella sciagurata campagna irachena. Élite incarnata dai gentlemen di Westminster e di Whitehall, fedeli ai partiti tradizionali dunque unionisti, con ramificazioni intellettuali a «Oxbridge» (Oxford+Cambridge, sinonimo di eccellenza come di superbia accademica) e connessioni globali con i traders della City, oggetto di leggende gotiche da far invidia agli gnomi di Zurigo. Contro questa Londra si è scatenata la voglia di autogoverno non solo della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord, ma delle Inghilterre in cerca d’autore eccitate dalle promesse devoluzioniste di quello stesso establishment da cui si sentono manipolate. Ed è in questa Supercapitale che si tracciano road maps secessioniste. Per rispondere all’eventuale disintegrazione del Regno Unito con la proclamazione dello Stato di Londra, centro della rete finanziaria mondiale. E megaparadiso fiscale.
La maionese inglese è a rischio impazzimento. Come quella britannica. Con la differenza che in quest’ultimo caso la frammentazione dovrebbe incanalarsi lungo le demarcazioni nazionali — scozzese, irlandese, gallese – mentre i limiti delle Inghilterre sono da inventare. Ossia da contestare. Per impedire tale deriva ai poteri stabiliti occorrerà attingere alle riserve di pragmatismo che la tradizione attribuisce al carattere inglese. Alla fairness politica, confermata dalla sportività con cui scozzesi e altri britannici hanno affrontato la prova del referendum – un po’ meno le successive polemiche.
Altrimenti converrà inventarsi un’Inghilterra di fantasia, usando di un’altra specialità locale, il dressing up. Come Sir Jack Pitman, il tycoon modellato sul calco di Rupert Murdoch da Julian Barnes nella trilogia England, England pubblicata all’alba della devoluzione blairiana (1998). Sir Jack progetta di affiancare all’Inghilterra effettiva, in deprimente declino, una scintillante replica virtuale in forma di parco a tema nell’isola di Wight. Dotato di segni architettonici, auguste personalità, rassicuranti simboli dello heritage inglese a uso dei visitatori globali. Da Buckingham Palace in scala dimezzata al Manchester United, dalla Royal Family a Wembley, dall’imperialismo all’ipocrisia: benvenuti a England, England, Stato indipendente nell’Unione Europea. Affresco da acido lisergico, ispirato all’inventivo imprenditore da una constatazione più che razionale, quando immagina di rivolgersi al fantasma dell’amata patria: «Così l’Inghilterra viene da me, e che cosa le dico? Senti, tesoro, affronta la realtà. Siamo nel terzo millennio e le tue tette sono cadute. La soluzione non è un reggipetto push-up» [5].

3. Cambiarne scala. Restiamo nella Grande Londra. Ma trasferiamoci da Westminster a Greenwich. Siamo a cavallo del Meridiano Zero, una gamba all’Est l’altra all’Ovest. Nessun luogo suscita visioni altrettanto globali. La memoria del più grande impero della storia universale, esteso sui cinque continenti, egemone sui sette mari, vive nel segno virtuale che bipartisce il pianeta a partire dalla propria capitale. Perché gli imperi non sono mere agglomerazioni territoriali. Sono produttori di standard: corpus iuris civilis, metro di Sèvres, Bretton Woods. Il Royal Borough di Greenwich ci ricorda che il Regno Unito non è fine in sé ma piattaforma dell’impero di ieri, che oggi vegeta nelle fruste vesti del Commonwealth e domani potrebbe risorgere sotto specie immateriale quale irradiamento della City. Nell’epoca della finanza elettronica, degli scambi algoritmici in tempo reale, perché non sognare di farne il centro di gravità permanente dei movimenti di capitale su scala globale, la Greenwich geofinanziaria del XXI secolo? Non solo fantasie. Le sirene della City sono all’opera per sedurre i gestori dei fondi cinesi e islamici. Insieme agli oligarchi russi – che Cameron vorrebbe trattenere sulla piazza di Londra malgrado il regime di sanzioni con cui l’Occidente intende castigare l’intervento di Putin in Ucraina – mandarini e sceicchi, detentori di un incommensurabile tesoro liquido, contribuirebbero a globalizzare la clearing house installata nella patria della sterlina ma specializzata nel mercato dell’euro. Progetto geofinanziario di ardua attuazione, che molto deve a una visione geopolitica di moda nell’Occidente intristito dal declino, in debito di futuro. L’idea è che il mondo in gestazione non apparterrà più agli Stati nazionali o alle loro costellazioni, come l’Unione Europea, ma alle città globali che gestiranno la ricchezza finanziaria. La dimensione territoriale conterà quasi nulla. Basteranno pochi chilometri quadrati in cui impiantare superbi grattacieli dotati di ogni diavoleria tecnologica, nel cuore di una vibrante metropoli multietnica – perché anche brokers e traders amano divertirsi, magari in un molto inglese parco giochi à la Sir Jack. In questa prospettiva, la devolution non è tragedia. È il penultimo grido della de-territorializzazione dell’impero britannico, condizione necessaria al suo rilancio in potenza e alla riscoperta del suo gene anglo, non britannico. Il Regno Unito come contenitore statuale della civiltà inglese affonda le radici nella core region altomedievale – Wessex, poi Londra e le Home Counties. La successiva accumulazione territoriale, fino a ricomprendere l’intero arcipelago britannico, è stata letta, con qualche forzatura, quale espressione di colonialismo interno. Stando allo studio pionieristico di Michael Hechter, nei secoli ascendenti l’Inghilterra ingloba e sfrutta la frangia celtica, affermando una divisione etno-culturale del lavoro non estranea alle permanenti tensioni con le ancelle Scozia, Galles e Irlanda [6]. L’impero domestico è la base geopolitica dell’impero esterno. Gli appassionati dei cicli storici vorranno vedere nella Devo-max e nelle eventuali future secessioni il compimento a ritroso del percorso che dal «Piemonte» originario, lungo il corso del Tamigi, culminò nella gloria dell’età vittoriana, salvo intraprendere, dall’alba del Novecento, la catabasi che riporterà la dominazione inglese alla città di Londra e al suo spazio di elezione nelle piane meridionali e orientali dell’isola-madre.
Non per questo il Regno si spegnerà, assicurano i teorici della nuova (anti)geopolitica virtuale. Anzi risorgerà dalla City, di qui irradiandosi quale super-hub della finanza globale. Il segno del comando non è più il possesso di colonie, nemmeno informali, ma il controllo delle nervature finanziarie che disegnano le architravi del potere reale perché impalpabile. L’ultimo standard della potenza, il marchio liquido dell’impero globale.
Megalomanie? Probabile. Ma Britannia adora combattere in categorie superiori alla sua stazza –«to punch above her weight». Come avrebbe potuto altrimenti un’isola che i conquistatori romani rifiutarono di adottare nella sua interezza, preferendo bisecarla con un limes di tuttora avvertibile pregnanza, tuffarsi in avventure ultramarine a caccia di terre esotiche? E se a noi veterocontinentali la sua esibita relazione con i non troppo stimati cugini americani può sembrare patetica, nell’establishment britannico resta traccia del complesso di superiorità che continua a ispirargli il sentimento di aver guidato la scalata di Washington alle vette del potere mondiale, in un’ideale staffetta fra imperi anglo. Non fu il premier britannico (gallese) David Lloyd George a suggerire al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, nel settembre 1918, l’idea della Società delle Nazioni, visto che «l’impero britannico è una società delle nazioni», così identificando Rule Britannia e sistema internazionale? [7]. E non fu poi Ernest Bevin, ministro degli Esteri del governo laburista eletto ad amministrare le macerie della vittoria nella guerra contro Hitler, a illustrare nell’autunno 1947 al suo omologo americano George Marshall la necessità della futura Nato come «federazione spirituale dell’Occidente»? [8]. L’impero di Londra, che sia Stato, state of mind o Money City, vive e cade nel connubio con Washington. Il Vecchio Continente viene dopo. Molto dopo. Se utile all’Anglosfera, va coltivato. Altrimenti, la Manica tornerà frontiera.
Non stupisce perciò che i fautori della nuova dimensione globale del Regno Unito (meglio: Londra plus) accarezzino insieme il patriottismo anglo e l’orizzonte del Brexit (British Exit = uscita britannica dall’Unione Europea). È il caso di quei conservatori che pretendono un parlamento anche per l’Inghilterra e spingono Cameron a mantenere la promessa di indire un referendum sul divorzio dalla rissosa famiglia comunitaria. Fino al radicalismo eurofobo di Nigel Farage, capo dello Ukip, il nuovo partito che da veicolo dell’antieuropeismo britannico sta forse mutandosi in avanguardia di un nazionalismo inglese, avverso non solo all’Ue ma anche a una devoluzione corriva verso le periferie britanniche.
Se Cameron vincerà le prossime elezioni e prenderà il rischio della consultazione popolare, come si schiererà la comunità degli affari? La City è divisa fra insofferenza per le regole comunitarie – «se continua così, regoleremo un cimitero» [9] – e la paura di vedersi sbarrato l’accesso al mercato europeo, favorendo l’emergere di uno hub continentale (Francoforte?) in grado di insidiarne lo status.
Chi invita a congedare il Vecchio Continente ricorda che la quota europea sul totale del commercio britannico è in costante calo. Nel 2002 valeva il 59%, dieci anni dopo era crollata al 48% e, in caso di secessione dall’Ue, nel 2022 si attesterebbe sul 30-35%. La destra antieuropea traccia invidiabili scenari per un Regno Unito emancipato dalla zavorra comunitaria, libero di flottare da par suo nel mare aperto illuminato dal Faro della City. «Una nazione globale aperta al mondo» è il motto dello studio firmato da un nerd trentenne, Iain Mansfield, che questo aprile ha intascato i contomila euro del Premio Brexit messo in palio da un think tank abbastanza spiritoso da pagare in «moneta unica» il miglior componimento euroscettico dell’annata [10]. Sessantanove pagine fitte di tabelle che hanno mosso qualche sopracciglio autorevole, giacché il ragazzo l’ha scritto da diplomatico di Sua Maestà presso l’ambasciata di Manila. Gli è stato perciò suggerito il silenzio stampa. Dovesse qualcuno sospettare che Mansfield esprima l’opinione dei suoi uffici. L’autore indaga gli effetti del possibile Brexit, descritto come «opportunità per abbracciare l’apertura» [11]. Sganciarsi dall’Ue significa puntare sulle potenze Brics nel frattempo piuttosto sofferenti – e sugli Stati Uniti, a compensare le perdite in territorio europeo. «Il Regno Unito è la sesta economia mondiale, una delle principali nazioni manifatturiere, il quarto paese per spesa nella difesa» [12], e anche dopo la separazione negoziata dai residui Ventisette trattativa durissirna, zeppa di trappole e incognite – avrà comunque robuste relazioni economiche e politiche con Francia, Germania e altri attori europei (fra i quali non si cita l’Italia: dubitiamo che il nostro lettore ne sia sorpreso).
Il saggio di Mansfield non sarà la Bibbia degli eurofobi che sognano l’impero anglo-globale. Pur se la cabala ricorda come ai trentenni che pubblicano a Londra un manifesto – capitò a Karl Marx nel 1848 – arrida talvolta fama universale. Ma la censura tardivamente imposta al giovanotto indica che, domato il comunismo, un nuovo spettro – la fine dell’Ue – turba il sonno di «tutte le potenze della vecchia Europa», «coalizzate in una sacra caccia alle streghe» [13]. Nel neoglobalismo mansfieldiano risuonano alcune tesi marxiane sulle meraviglie della globalizzazione. La differenza sta nel calibro dei nemici. Marx ed Engeis sfidavano «il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi» [14]. Mansfield dovrà semmai vedersela con qualche parrucca di Whitehall. E con Jean-Claude Juncker.

4. Il dramma dei progetti geopolitici è che per definizione necessitano della politica. Che cosa accade quando la politica latita? Quando i presunti leader del mondo soffrono di malinconia, reciprocamente confessandosi un lancinante senso d’impotenza? Quando in ciò che residua delle democrazie occidentali il grado di fiducia dei «popoli sovrani» negli eletti (nominati) deputati a governarli tende allo zero?
Fra i cittadini della nostra Europa lo spettro delle risposte va dalla rinuncia – tutti a casa, a curare gli avanzi del particolare – alla frenetica ricerca del Sacro Graal che ravvivi i circuiti della democrazia. E ritorno. Passando, talvolta, per la protesta. Bersaglio scontato: I’establishment. Ma c’è qualcosa di meno stabile, oggi, dei poteri stabiliti? Di qui il gioco di specchi nel quale «classe politica» e «cittadini» si scrutano a distanza, quasi rassegnati alla vanità di tutte le cose.
La Scozia ha gettato il sasso nello stagno. La formidabile partecipazione al voto, la fredda passione con cui nella campagna elettorale si sono dissezionate tesi e obiezioni di entrambe le parti, senza che scorresse una goccia di sangue, sollecitano la speranza: forse la democrazia non è condannata a morte. Almeno non dappertutto. Certo, le locali tradizioni civiche hanno aiutato. La lezione scozzese non si ferma però al Vallo di Adriano e nemmeno sulla Manica. Indica che i cittadini tornano tali quando possono decidere su ciò che li interessa. Ma che cosa li ha interessati, a Glasgow e a Edimburgo, nelle Highlands e nelle Lowlands, dalle Orcadi alle Ebridi? L’indipendenza? Parola chiave. Grilletto che ha azionato lo sparo (a salve). Eppure da sola questa spiegazione non convince. Intanto, nella prassi di ogni giorno gli scozzesi sono già notevolmente emancipati dal potere britannico. E saranno ancora più indipendenti perché hanno perso non di troppo il referendum, costringendo i partiti unionisti ad accendere il motore della Devo-max. Allo stesso tempo, se avessero vinto i Sì, capo di Stato e moneta della «Scozia libera» sarebbero rimasti Elisabetta II e lira sterlina. Di fatto, non molto sarebbe cambiato. No, l’indipendentismo non spiega tutto. In chiaro: se a qualcuno saltasse in testa che per salvare la democrazia basterebbe indire referendum sulla secessione in tutte le presunte «nazioni senza Stato» o «regioni oppresse» in Europa e nel mondo, sappia che è fuori strada. È l’illusione della presunta democrazia di prossimità, costruita riproducendo in spazi e dimensioni sempre più ridotte le stesse istituzioni e gli stessi schemi, come nel parco a tema di Sir Jack. Non è segmentando Westminster in mille Holyrood che si rida senso alla politica. Qual è dunque il punto? Che cosa hanno voluto davvero esprimere gli elettori di Scozia?
In carenza di politologi inventivi, la migliore analisi al riguardo viene da un versatile scrittore e scienziato anglo-indiano, Kenan Malik: «La motivazione decisiva nella pulsione verso l’indipendenza della Scozia era il risentimento verso Westminster e il ‘dominio inglese’. Tuttavia non c’è nulla di specificamente scozzese in questo sentimento. (...) Non solo in Scozia, nemmeno solo in Gran Bretagna, ma in tutta Europa, c’è una crisi di rappresentanza (...) che si manifesta nel crescente sostegno a partiti populisti. Il nazionalismo scozzese è un’altra espressione di questo clima. Non che Scottish National Party e Ukip esprimano le stesse politiche. A connetterli è la sconnessione fra pubblico e classe politica. (...) Supponiamo che la Scozia avesse votato per l’indipendenza. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il risentimento contro il dominio di Londra mutasse in risentimento per il ‘dominio di Edimburgo’?». Per Malik, la sfiducia nell’establishment che accomuna i britannici – noi aggiungeremmo gli italiani e molti altri europei – non può sfociare nel cambiamento politico attraverso secessioni a catena. La svolta avviene «solo quando la gente decide di agire collettivamente per mettere pressioni su chi è al potere». Conclusione: «Più ci frammentiamo, più immaginiamo che l’identità conti più dell’ideologia, meno siamo capaci di produrre il cambiamento» [15].
Malik trascura un’alternativa drastica allo stallo politico. Si chiama dittatura. La politica è malata e non si trova la cura? Finiamola. Può accadere, è accaduto, quando le crisi imputridiscono e la parola passa alle armi. Non è il caso della Scozia, del Regno Unito o delle altre democrazie occidentali, pur se la tragedia jugoslava e il conflitto ucraino dovrebbero indurre qualche dubbio nelle certezze di chi fra noi si crede immune al virus bellico. Resiste però la suggestione della scorciatoia autoritaria, magari soft. È l’illusione tecnocratica, implicita nell’utopia anglo-globale. L’impero immateriale irradiato dalla City, ultima stazione del viaggio che dal referendum di Edimburgo porta alla Devo-max e al Brexit, non necessita di cittadini. L’apoteosi della democrazia referendaria, eccitata dal risentimento verso Westminster – il Palazzo dei politici tristi – produrrà l’impero della City – il Palazzo della finanza globale, il molto effettivo luogo virtuale nel cui patrimonio genetico il fastidio per le regole, per lo Stato, per la politica tout court, è inscritto con marchio indelebile? Improbabile, non impossibile.

5. La logica del risentimento contribuisce a spiegare perché la sconfitta del Sì in Scozia non abbia calmato le rivendicazioni secessioniste o iper-autonomiste nel resto del Regno Unito e in Europa. Anzitutto, il caso scozzese rivela che con il plebiscito non perdi mai. Se vinci, vinci. Se perdi, incassi una Devo-max. Quasi lo stesso. Eppoi è un piano inclinato: in questa sequenza, di referendum in referendum ci sarà sempre una devoluzione maggiore della massima. È la legge dello strip-tease: il fascino sta nella lentezza. Il problema, semmai, è che fare alla fine. I più intelligenti fra gli indipendentisti di Scozia temevano la vittoria secca.
Inoltre, se il disincanto per la politica non conosce confini, ha però declinazioni geopolitiche modulate a seconda dei paesi. Dalla Spagna alla Russia, la lista degli Stati europei nei quali tenitori di varia dimensione e profondità identitaria mirano a spezzare o allentare i vincoli che li ancorano nei vigenti spazi nazionali è impressionante. Italia ovviamente inclusa.
La Catalogna è il caso estremo. Qui la tentazione indipendentista incuba da decenni. Lo stesso establishment catalanista sembra aver perso il controllo della marea suscitata per partorire infine, dall’autonomia, una repubblica indipendente o almeno una Devo-max adattata al Mediterraneo. Il giorno dopo l’annuncio della vittoria del No a Edimburgo, il parlamento catalano varava per decreto la consulta (referendum) sull’indipendenza, fissata per il 9 novembre. Sfida al governo di Madrid, in spregio della costituzione. Si è così avviato l’ingranaggio delle contromisure legali dal centro e dei rilanci politico-mediatici dalla periferia catalana, divisa fra una maggioranza relativa (45%) disposta a piegarsi alla volontà della Corte costituzionale – che ha sospeso gli atti del governo di Barcellona, in attesa di pronunciarsi entro cinque mesi sulla loro legittimità – mentre l’altra metà della mela è spartita fra fautori di un’acrobatica indipendenza concertata con Madrid (25%) e secessionisti duri e puri (23%), che vogliono il referendum qui e ora [16].
Nel furore antipolitico del tempo, sullo slancio scozzese e catalano, si riaffaccia a luce pubblica l’euroregionalismo. Ideologia respinta nelle vie carsiche della geopolitica continentale dopo la prima stagione di successo, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando il crollo dell’impero sovietico sembrò inaugurare un’altra «primavera dei popoli», da alcuni interpretata come occasione per ridisegnare la mappa d’Europa in chiave regionalista. In breve: l’Unione Europea come Sacro Romano Impero in formato postmoderno. Se ricordiamo il predicato finale di quella flessibile architettura – di Nazione Germanica – non ci stupiamo del fatto che fra i laudatori del rinnovando impero abbondassero tedeschi e altri germanofoni, specie austriaci, nonché nostalgici dell’incanto asburgico, tra cui sudtirolesi e furlan di casa nostra (?), oltre a raffinati esegeti della Mitteleuropa. Se ne trova eco financo nella riforma che nel 2001 riscrisse il titolo V della costituzione italiana, laddove statuiva che sono le Regioni a costituire la Repubblica, mentre prima la Repubblica si «ripartiva» in esse.
Il vantaggio di tale ideologia è che «regione» è termine sufficientemente flou. Se ne distillano interpretazioni le più inverificabili. Per alcune regione è sinonimo di nazione. In Italia la storia ne indica almeno sei: Piemonte, Lombardia, Toscana, Sardegna, Sicilia e Veneto – per quest’ultimo il passato è corroborato dalla cronaca, stante il successo dei secessionisti nell’informale quanto rivelatore referendum online del marzo scorso. L’essenziale è che il sostrato geopolitico degli euroregionalismi mobilita presunti diritti storici. Persino etnici. Non sempre temperati dal consenso civico, come in Scozia e forse in Catalogna.
La rivolta anti-establishment in corso postula più democrazia, più partecipazione, più vicinanza del cittadino ai rappresentanti che stando ai manuali di diritto costituzionale sono deputati a tradurne la volontà in leggi. Forse sarà così. O forse no. Avranno allora prevalso i seguaci dell’euroregionalismo etnico. Dunque illiberale, antidemocratico. Anzi impolitico. Come insegnava uno dei loro maestri, il sociologo Günther Ammon, a Muro da poco caduto: «La nazione deve trasformarsi in nazione culturale, libera di ogni contenuto politico». In termini operativi, «gli Stati tedeschi devono creare, al di là delle frontiere della Repubblica Federale, legami e contatti con i loro partner, ovvero Stati e regioni». A quel punto, «la Germania potrebbe diventare il centro di ricerca dove si produrrà il contenuto della cittadinanza europea» [17].
Si prepari al duello, Sir Jack. Dopo England, England a Wight, Deutschland, Deutschland a Rügen? Vinca il migliore.

1. Cfr. «England» in Encyclopædia Britannica, www.britannica.com/EBchecked/topic/700965/England/ 215125/Services
2. K.O. MORGAN (a cura di), The Oxford History of Britain, Oxford 2010, Oxford University Press, p. 710.
3. V. BOGDANOR, «Why English Votes for English Laws is a Kneejerk Absurdity-» The Guardian, 24/9/2014.
4. P. ACKROYD, London: The Concise Biography, London 2012, Vintage p. 617.
5. J. BARNES, England, England, London 2012 (edizione paperback), Vintage, p. 37.
6. Cfr. M. HECHTER, Internal Colonialism. The Celtic Fringe in British National Development, nuova edizione, New Brunswick-London 1999, Transaction Publishers. La prima edizione, della University of California Press, risale al 1975.
7. Cfr. M. MAZOWER, Governing the World. The History of an Idea, New York 2012, The Penguin Press, p. 128.
8. Cfr. D. COOK, Forging the Alliance, London 1989, Martin Secker & Warburg, p. 110.
9. Così un anonimo esponente dell’industria finanziaria londinese, citato in E. ALUERT, «La City salue le départ de Michel Barnier et l’arrivée de son successeur britannique», Le Monde, 1/10/2014.
10. I. MANSFIELII, «A Blueprint for Britain: Openness not Isolation», Institute for Economic Affairs, p. 51.
11. Ivi, p. 3.
12. Ivi, p, 22.
13. K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, Milano 1998, Silvio Berlusconi Editore, p. 3.
14. Ibidem.
15. K. MALIK, «United Kingdom, Divided People», International New York Times, 27-28/9/2014.
16. Sondaggio realizzato da Metroscopia fra il 2 e il 4 settembre 2014. Cfr. «Clima de opinión en Cataluña tras la decisión del Tribunal Constitucional», elpais.com/elpais/2014/10/04/media/1412440213_362460.html
17. G. AMMON, l’Europe des Régions, Paris 1996, Economica, p. 28.