Andrea Galli - Cesare Giuzzi, Corriere della Sera 20-21/2014, 21 ottobre 2014
Uccide la fidanzata strangolandola Due mesi fa la salvarono i vicini 20 Ottobre 2014 Il delitto in centro a Milano
Uccide la fidanzata strangolandola Due mesi fa la salvarono i vicini 20 Ottobre 2014 Il delitto in centro a Milano. L’assassino trovato in piazza Sant’Ambrogio MILANO Due mesi fa, racconta un conoscente del palazzo di fronte, scappava insanguinata e trovava rifugio nell’androne di un condominio e nell’abbraccio di alcuni vicini, rapidi nel chiamare i soccorsi. Gli agenti avevano fermato il fidanzato. «La sera lui era già a casa». Ieri, spiegano i poliziotti, non ha fatto in tempo a uscire di casa: l’ha ammazzata nell’appartamento al quarto e ultimo piano, per poi telefonare a un amico, raccontare il delitto («L’ho uccisa io, adesso cosa faccio?»), e andarsene a pochi metri dalla Basilica di Sant’Ambrogio. Lì s’è seduto su una panchina e ha aspettato. Gli agenti, che intanto avevano ricevuto la chiamata dell’amico, l’hanno rintracciato grazie al cellulare. Altri colleghi sono andati sul luogo del delitto. Una poliziotta della scientifica, quand’era mezzanotte, è uscita dal portone con un sacchetto in mano: dentro c’era un elastico da portapacchi, forse l’arma del delitto, forse avvenuto per strangolamento. Sull’omicidio, ancora a serata avanzata, c’erano poche certezze. Se non la nazionalità, italiana, dell’aggressore e della vittima; l’età (sono entrambi 42enni); e infine l’indirizzo, che per la geografia è un indirizzo nobile: siamo in via della Commenda 28, all’angolo con via Orti, nel quartiere di Porta Romana, uno dei cuori della vecchia Milano. Il civico 28 è un bel palazzo con studi professionali e abitazioni. In una di queste, è voce diffusa, erano frequenti i litigi. E i litigi, che cominciavano con urla e con insulti, spesso terminavano nello scontro fisico, nel lancio di oggetti, come ad esempio — la scena è rimasta ben impressa nei ricordi di quel conoscente del palazzo di fronte — il lancio di bottiglie di vino. I due fidanzati cercavano di coprire le risse tenendo la musica dello stereo ad altissimo volume. Un tentativo vano: nel palazzo tutti sapevano, chiamavano polizia e carabinieri. Il fidanzato ha trascorso ore in Questura, sentito dal pm di turno Giancarla Serafini insieme agli investigatori della settima sezione dell’Ufficio prevenzione generale, guidato dal primo dirigente Maria José Falcicchia. Il padre gestisce un negozio di riparazione di gioielli e di orologi, un’unica vetrina al piano terra dello stesso 28 di via della Commenda. Si tratta di persone conosciute, a Porta Romana, mentre la famiglia della donna sarebbe originaria della zona dei Navigli. Secondo i primi riscontri, il delitto sarebbe stato d’impeto, avvenuto al termine dell’ennesimo scontro. Forse l’assassino voleva scappare, e infatti il punto dove i poliziotti l’hanno fermato, in piazza Sant’Ambrogio, non è proprio vicinissimo a via della Commenda. Più probabile però che lui per primo abbia capito quanto fosse inutile fuggire, soprattutto dopo la telefonata all’amico. I primi poliziotti sono arrivati nel condominio dell’omicidio intorno alle 21. Hanno iniziato a suonare il citofono della casa al quarto piano, dopodiché hanno provato con le altre abitazioni fin quando un residente ha aperto il portone. Il cadavere è stato trasportato intorno a mezzanotte e mezza all’obitorio di piazzale Gorini. Insieme all’elastico da portapacchi, probabilmente uno di quelli utilizzati sulle macchine per legare i bagagli. La Scientifica ha raccolto e «isolato» anche uno smartphone. I rilievi dei poliziotti sono proseguiti fino all’alba; l’appartamento è stato sequestrato. Oggi gli investigatori sentiranno altri famigliari e amici della coppia, per quel poco ormai d’aiuto che può arrivare dal passato. Andrea Galli Cesare Giuzzi 21 ottobre 2014 MILANO — Sonia Trimboli soffriva di anoressia, droga, alcol; poi c’era l’amore o quel che ne restava, ed era insieme malattia e persecuzione. Il 28 agosto il suo fidanzato e assassino, Gianluca Maggioncalda, soprannominato «lancetta» per l’altezza e per essere figlio di un riparatore di orologi che lo manteneva a 42 anni, aveva cercato di strangolarla. Non c’era riuscito, come invece è successo alle 19 di domenica. Sonia, sposata e separata, senza più la mamma morta per malattia, con il padre ex dipendente di supermercati che vive in compagnia di un pastore maremmano e con un fratello che sta fuori Milano, l’aveva denunciato al commissariato Monforte-Vittoria. L’indomani Maggioncalda era stato indagato per lesioni (le ferite di Sonia avevano richiesto un prognosi di trenta giorni). Il padre Michelangelo ripete che da allora lei non aveva più voluto vederlo: nell’appartamento al terzo piano di viale Bligny — un palazzo tranquillo abitato da persone cordiali, un alloggio con le tapparelle basse, le ciotole per il cane, il cestino dei rifiuti per l’umido sul balcone chiuso da un tendone verde —, aggiunge che lui non voleva saperne di perderla. Maggioncalda la inseguiva, supplicava di perdonarlo. Sonia e Gianluca, in un legame divenuto caotica sequenza di calci e pugni, non si lasciavano. Stavano ancora insieme. Quando l’abuso di cocaina e vino sprigionava il rancore, nascevano risse. Le botte e gli insulti non attutiti dalla musica (specie di Baglioni) ad alto volume nella mansarda al quarto e ultimo piano di via della Commenda 28, ricavato sopra la casa di famiglia dei Maggioncalda, in una zona della vecchia Milano dove Gianluca, disoccupato come Sonia, sua coetanea, si faceva vedere in sella a una bici. La stessa che gli è servita, domenica, per la fuga, anzi per il tentativo di fuga: Maggioncalda ha ammazzato la fidanzata, con un elastico da pacchi; è sceso per le scale, ha incontrato il padre, gli ha detto che Sonia stava male, ha telefonato a un amico, ha raccontato del delitto. L’amico, residente nel Pavese, ha avvisato i carabinieri di Garlasco che hanno allertato la polizia di Milano. Gli agenti, grazie al segnale del cellulare, hanno rintracciato Maggioncalda che li aspettava seduto sui gradini della Basilica di Sant’Ambrogio. Uno dei due poliziotti l’ha chiamato per nome, lui s’è alzato ed è salito in macchina.«L’ho uccisa io». Per due ore, nella notte della Questura, ha raccontato l’omicidio al pm Giancarla Serafini; ha reso piena confessione, come confermato dall’avvocato Luigi Aleramo Rossi. Con Sonia avevano bevuto: ubriacarsi e «farsi un pippotto di cocaina» era un’abitudine; ha confidato che era pazzo di gelosia e che l’ultimo messaggio, «l’ennesimo di un uomo», ricevuto dalla fidanzata sul telefonino, l’aveva accecato di follia. A casa Trimboli, in una pausa sul pianerottolo, di ritorno da una veloce spesa (petti di pollo e due panini), il padre Michelangelo dice che forse la polizia doveva fermare l’assassino, perché tanto, dopo il 28 agosto, era ovvio che avrebbe riprovato, era ovvio che questo sarebbe stato il finale. Dal commissariato i dirigenti replicano che si stava indagando. È una storia che si costruisce nei commissariati, la storia di Sonia e Gianluca, che si alimenta di fascicoli e di precedenti, che anche ad andar lontano richiama solo disgrazie. Era il 2006, sempre in viale Bligny, a un civico, il 42, noto per lo spaccio. Un tunisino aveva salvato Sonia dallo stupro di un connazionale. Lui era morto, lei ferita gravemente. Michelangelo Trimboli insiste con la sua versione: «A mia figlia avevano rubato il cellulare e il portafoglio. Era convinta di poterli recuperare al 42... Ma una volta all’interno è stata aggredita...». Le carte dell’indagine, condotta dal commissariato Ticinese, sostengono un’altra verità: ci fu sì l’ingresso nel «fortino» ma per un acquisto di droga. Domenica, Sonia è stata trovata vestita, a viso in su, sopra il letto matrimoniale formato da due letti distinti, accostati e tenuti insieme con quell’elastico usato per uccidere. Andrea Galli Cesare Giuzzi *** «Dev’essersi sentito potente, quel tizio, quando l’ha vista tornare... Quando impareremo, noi donne, a riconoscere il rischio? Quando la smetteremo di perdonare la violenza?». È da molto tempo che la criminologa Anna Costanza Baldry si occupa di questi casi. E tante, troppe volte, ha seguito storie di donne perdute in una relazione sbagliata. Non è raro che donne maltrattate tornino dai loro aguzzini. «Ci sono così tante Sonie, là fuori... Noi diciamo spesso che restano o tornano nelle braccia dei loro carnefici perché non hanno alternative. Ma non è sempre così. Quando si tratta di donne adulte e senza figli, quando non vogliono denunciare nemmeno dopo averci quasi rimesso la vita, be’: per quanto si possa provarci non è possibile salvare una persona dalle sabbie mobili se non si aiuta un po’ anche lei». Perché una donna torna indietro sui suoi passi e riallaccia i fili di una relazione violenta? «Perché c’è qualcosa che distoglie i suoi pensieri dal rischio primario, cioè quello di essere uccisa. A volte è la dipendenza economica, a volte sono le difficoltà legate ai figli, altre volte sono disturbi psichiatrici veri e propri che impediscono di decodificare la realtà». Quanto conta la convinzione di essere innamorate? «Conta. Viene chiamata dipendenza affettiva e davanti agli uomini violenti e manipolatori questa dipendenza porta a sottovalutare gli elementi di rischio, rende vulnerabili, impedisce la crescita della consapevolezza che si rischia la vita». Spesso le donne pensano di poter cambiare l’uomo violento che hanno accanto. «È così ma è sbagliatissimo. Ci sono donne che credono di salvare il compagno, il marito o l’amante provando a convincerlo a parole, cercando di capirlo dove però capire vuol dire anche un po’ giustificare. Si arriva ad avere dei sensi di colpa, magari per avergli risposto così male da meritarsi, diciamo così, un ceffone. Cosa c’è di più sbagliato? Se un uomo ti prende a pugni non c’è nulla ma proprio nulla da capire. E poi c’è un’altra cosa che direi di evitare assolutamente». Quale? «Il famoso “ultimo incontro” chiesto per chiarire. Mai concederlo. È pericolosissimo. Anzitutto perché se si è arrivati a lasciarsi vuol dire che ci si è già chiariti abbastanza. E poi perché la richiesta dell’incontro chiarificatore è strumentale. Serve a farti sentire in colpa e a costringerti a dargli un’altra chance. Se gliela concedi lui impara che perseguitandoti ottiene il tuo contatto, non gli importa se lo vedi anche solo per prenderlo a parolacce, lui vuole solo regolare la tua vita». Lei dice “smettere di perdonare”. «Sì. Il perdono è una bella fregatura. Non parlo del perdono nel senso puro del termine. Parlo di quel perdono che significa annullare ciò che è successo di violento in una relazione. Parlo del dimenticare e dare un peso specifico pari a zero alla violenza subita, magari aggrappandosi ai momenti positivi di una storia e pensando a quando mi ha regalato questo, a quando ha fatto quel bel gesto...Ecco: questa si chiama distorsione cognitiva». Come si esce da tutto questo? «I passaggi sarebbero tanti. Uno per tutti: lavorare molto sull’autostima. Volersi bene, molto bene. Perché se ti vuoi bene non puoi accettare di essere maltrattata da nessuno, non puoi annullarti». Giusi Fasano