Nicoletta Melone, Amica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
FINO ALL’ULTIMO SORSO
Un goccio. Solo un goccio. Che scava la roccia. Che erode la dignità. Che corrode gli affetti. Drink. Uno stillicidio di giorni svuotati. Drink. Una stalattite di occasioni perdute.
Bisognerebbe lasciare parlare i numeri. Esempio: 24mila (le italiane che finiscono ogni anno in ospedale intossicate da una sbronza). Oppure: 34 per cento (l’aumento del consumo femminile di alcolici). Ma il linguaggio delle cifre, freddo come cubetti di ghiaccio in un cocktail, non basta a raccontare come sta cambiando il rapporto tra donne e alcol. Solo la punta di un iceberg domestico in un mare “on the rocks” di storie sommerse. Si parla molto di “binge drinking” tra i giovanissimi: un bicchiere via l’altro, rapidamente, di tutto, di getto, fino a perdere i sensi. Ma non sono solo le ragazzine a distruggersi il fegato a colpi di “shottini”. Tra le fasce più a rischio spuntano, in questi ultimi tempi, le ultraquarantacinquenni. Fanno meno notizia. Meno rumore, anche. Non svengono nei pub, non offrono sesso in disco per un giro di vodka. Si massacrano discretamente, in privato. Senza chiasso. Un goccio, solo un goccio, appunto. Un dito. Due dita soltanto, visto? Madri che si ubriacano in salotto quanto le figlie adolescenti a un rave party.
Sbronze educate, su mezzo tacco. A casa, guardando la tv, limoncello e reality o Martini e film on demand, in un blender che mescola etichette e classi sociali. Oppure all’happy hour con le amiche, anche al baretto all’angolo che fa tanto Big Apple (e pazienza se Sex and the City è finito da un pezzo, nell’immaginario collettivo femminile aleggeranno per sempre ammiccanti camerieri muscolosi con vassoi carichi di Manhattan). “Bere in pubblico non è più giudicato sconveniente”, sottolinea l’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, legando all’emancipazione “la diminuzione delle donne astemie registrato nel corso dell’ultimo ventennio”. Le bevitrici sono il 67 per cento, contro il 43 degli Anni 80. La maggior parte è convinta di avere la situazione sotto controllo. Spesso senza tenere conto che l’organismo femminile ha una capacità dimezzata di smaltire l’alcol rispetto a quello maschile. Risultato: dietro una donna che muore per incidente o per lesioni volontarie si intravede, nel 12 per cento dei casi, la silhouette di una bottiglia. Ufficialmente ci sono 13mila alcolizzate sotto trattamento nelle strutture pubbliche. Non così tante, in fondo. Perché delle altre, tutte le altre, non si parla. Sorseggiano, ai bordi delle statistiche, nella penombra di appartamenti troppo vuoti. Come gli sguardi che galleggiano oltre l’orlo del bicchiere.
Le ragazze consumano in gruppo, per lo più nel fine settimana. Compagne di sbronze. Le adulte, soprattutto fra i 35 e 45, sono le bevitrici più problematiche. E metodiche. Vino, aperitivi, amari. Con devastanti ubriacature, nel 10 per cento dei casi, rabbiose e solitarie. Le cause? «Depressione, in primo luogo», osserva la psicanalista milanese Paola Capozzi, spiegando che sono le pazienti più difficili da aiutare. «È un momento di bilanci, la cosiddetta crisi di mezza età si è spostata in avanti, l’adolescenza si dilata, praticamente dura fino a 30 anni, ma tra i 40 e 50 la vita presenta il conto, soprattutto alle donne. Che per conciliare lavoro e famiglia pagano un prezzo altissimo». C’è chi sente di avere perso qualcosa e realizza che non può più dire: “Lo troverò domani”. E chi si costruisce con l’alcol un rifugio ovattato, dai contorni sfumati. «Bere placa l’ansia e facilita una dimensione sognante, è più facile staccarsi dal quotidiano e lasciarsi andare all’immaginazione». Sindrome da nido vuoto, perché i figli crescono e se ne vanno. Matrimoni che finiscono, perché i mariti si defilano con altre donne e per loro no, a quanto pare, non è mai troppo tardi per ricominciare. “Divorzi, separazioni, solitudine, sentimenti abbandonici, mancanza di stima di sé, sentimenti di inferiorità”, recitano asettici elenchi dei principali fattori di rischio. “Perdita della giovinezza e della capacità procreativa”, rilancia l’Istituto Superiore di Sanità con lo spietato linguaggio delle ricerche ministeriali. Due rughe intorno agli occhi, due dita nel bicchiere. L’importante è tenere i conti, annota con ben altra grazia Dorothy Parker, caustica giornalista e sceneggiatrice statunitense scomparsa in una nube di alcol nel 1967: “Amo i Martini ma due al massimo. Tre e sono sotto il tavolo, quattro e sono sotto il cameriere”.
Il fatto è che si fa presto a passare dalla definizione di donna più spiritosa di New York a patetica ubriacona di mezza età, che muore sola e dimenticata in una stanza di hotel. Dietro di lei, molte bottiglie vuote sul tavolo e tre fulminanti parole sulla lapide: “Scusate la polvere”. Già, scusate. Perché le donne si perdonano meno facilmente. E le signore sbronze non diventano leggende. Quante Dorothy Parker ci sono dietro gli Hemingway, i Fitzgerald, i Bukowski? Quante Pamela Moore che ordinano cioccolata e whisky a colazione, quante Marguerite Duras che, metodiche, puntuali, ingurgitano un bicchiere di vino ogni ora? Barche contro corrente, risospinte senza posa dentro una bottiglia. Quanto silenzio sulle piccole mogli dei grandi Gatsby.
«Una donna che beve a livello sociale è più stigmatizzata di un uomo», ammette Capozzi. «La mancanza di controllo, certi atteggiamenti sessuali aggressivi, non sono tollerati quando è lei ad alzare la voce con un drink di troppo in mano». E allora meglio defilarsi, infilarsi a letto con un litro di gin, il pomeriggio, come Patricia Highsmith, un talento da Mr. Ripley nel dissimulare il malessere mescolando vino e superalcolici. «Bevo bourbon nei bicchieri della Nutella, c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel versare veleno dietro quei disegnini allegri, così innocenti, così legati al mondo dell’infanzia. Ma i figli crescono e se ne vanno. E in qualche modo devi riempire il vuoto che resta», osserva Francesca, 52 anni, divorziata, che da quattro passa da una disintossicazione all’altra: «Sono una globe trotter delle case di cura, le conosco tutte, comprese quelle svizzere, potrei fare una guida Michelin delle migliori, piccole sacche da flebo al posto delle solite stelle». Tanto, racconta, paga l’ex marito. «Saranno i sensi di colpa: se n’è andato di casa rapido come Beep Beep, il personaggio dei cartoon sul mio bicchiere preferito». Basta un niente e la vita trabocca, spiega Violetta Bellocchio in Il corpo non dimentica (Mondadori): “A un certo punto bere ha smesso di essere un passatempo ed è diventato un lavoro”. A tempo pieno. «Da ragazza mi sono fatta di cocaina», confessa Rosa, 48 anni e una diagnosi di cirrosi epatica. «Mi hanno spedito in comunità, ne sono uscita alla grande. Almeno, così credevo. Ma evidentemente ti resta qualcosa dentro, come un buco aperto, un’attitudine a saltellare sull’orlo dell’abisso. Quattro anni fa ho cominciato a ingurgitare di tutto e non ho più smesso. Perché? Non lo so, giuro. E adesso? Vado in comunità, in mezzo a ragazzini impasticcati che hanno l’età di mio figlio?». Storie come tante, sputate come noccioli in un posacenere, accanto a un bicchiere vuoto di Martini. Spazzate via dagli stanzoni un po’ tristi degli Alcolisti Anonimi, tra pulviscolo e sedie di plastica, zoppicanti come i tavolini a tre gambe di certi bar. «Quanto a dipendenze, l’alcol è peggio dell’eroina perché si trova dappertutto, esci e te lo compri al supermarket», commenta Capozzi. «Bisognerebbe fare come per il fumo, creare l’allarme, abbassare la tolleranza». Ma in fondo, avete mai visto delle quarantenni assetate di vodka scippare vecchiette davanti alle poste? Sfasciare a calci il parabrezza di un’auto come fanno i tossici? Non spaccano neanche la faccia ai mariti, quando tornano a casa sbronze. Quindi, dimentichiamole. Con quelle facce un po’ gonfie. Con quegli occhi troppo brillanti. Come direbbe la Parker: “I rasoi fanno male, i fiumi sono freddi, le droghe danno i crampi... Tanto vale vivere”. E non lasciare polvere.