Fabrizio Salvio, SportWeek 18/10/2014, 18 ottobre 2014
PROVATE A DARMI BALOTELLI
[Maurizio Sarri]
Due sconfitte tanto per aprire il campionato, poi una striscia di 3 pareggi e una vittoria e l’Empoli, dato già per retrocesso ancor prima di cominciare, è lì che vive e lotta insieme a noi. Al timone c’è Maurizio Sarri, 55 anni, toscano di Figline nato per caso a Napoli: uno abituato a tener dritta la barra sui mari in tempesta del calcio semiprofessionistico. Li ha attraversati tutti e a settembre è approdato sulla spiaggia dorata della Serie A, in tempo per dimostrare il postulato che ne ha mosso tutta la carriera: la sostanza conta ancora più dell’apparenza. Perciò: «Gli occhiali fuori moda? Mai pensato di cambiarli». (Rivolto al fotografo) «Devo mettermi in posa?! Non se ne parla. Mi imbarazzo».
A questo punto, quando i riflettori si spegneranno, tornare nell’anonimato non sarà un problema...
«A me, di essere cercato dai giornali, non interessa più di tanto. È un dovere al quale mi sottopongo, ma il piacere è altro, e lo trovo nello stare sul campo».
Ha girato 17 squadre prima della A: le sono mancati il coraggio di lasciare prima l’impiego in banca, un buon procuratore o un look più moderno?
«Mi fa arrabbiare la storia del bancario. Sembra che io sia arrivato al calcio per caso, invece ci sto da 40 anni, prima da giocatore e poi da allenatore. Lavoravo in banca perché allenare in Eccellenza può diventare una trappola dalla quale non riesci più a uscire, ma quando ho lasciato l’istituto di credito non sapevo dove sarei arrivato col calcio. Quanto al look, mi interessa che siano moderne le mie idee, non i miei occhiali».
Allenatore bancario, integralista, poco mediatico: di etichette gliene hanno appiccicate tante. Quella che più le ha dato fastidio?
«Tutte. Mi ha fatto male quella dei 33 schemi su palla inattiva. Una balla che dà un’idea limitata di una persona che prende cento decisioni al giorno. D’altra parte il calcio ha una mentalità chiusa».
C’è una definizione nella quale invece si riconosce?
«Quella di caparbio ai limiti della cocciutaggine. C’è un fondo di verità. Quando uno mi contesta una cosa, d’istinto gli dico che ho ragione io. Poi però a casa ci ripenso e, nel caso, sono capace di chiedere scusa».
Ha detto: nel calcio c’è meno dedizione e meno cultura sportiva rispetto ad altri sport.
«Confermo. Ci sono discipline nelle quali la cultura del lavoro è nettamente superiore. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di assistere agli allenamenti della Rugby Parma: un giorno, alla mattina si sono allenati, poi hanno pranzato tutti insieme, hanno guardato un video di un’ora sull’ultima partita giocata, infine uno per ruolo sono rimasti a disposizione delle giovanili. Un senso di appartenenza che nel calcio quasi mai trova riscontro».
Al di là di impegno e rispetto, cosa chiede davvero a un suo giocatore?
«Che renda al cento per cento delle sue possibilità. Tanti invece si accontentano di dare 1’80, pur avendo dentro quel qualcosa in più che gli consentirebbe di fare la differenza. Io posso offrire uno stimolo, ma rimane fine a se stesso se non scatta la molla nel giocatore».
Con Zeman ha in comune solo il vizio del fumo?
«Zeman mi appassiona come tutte le persone con idee forti e coerenti con esse».
E la sua idea forte qual è?
«Non mi accontento mai di quello che vedo in un calciatore. Ho allenato giocatori di grande professionalità tra i dilettanti e di scarsa professionalità tra i pro. La differenza vera tra gli uni e gli altri sta nel fatto che i dilettanti, per forza di cose, al calcio dedicano un’ora al giorno».
La fa arrabbiare di più l’indolenza o la presunzione?
«Preferisco un presuntuoso di grande personalità perché sbaglia per eccesso. Quando si sbaglia per pigrizia, si sbaglia per difetto».
Con Ibrahimovic o Balotelli sarebbero scintille?
(ride) «Se uno riesce a rimanere se stesso, e non ho dubbi sul fatto che io ci riuscirei, e sa parlare in maniera franca e diretta agli interessati, si possono gestire anche giocatori dalla forte personalità come loro. Arrivando se è il caso allo scontro, purché sia costruttivo».
E se uno dei due le dicesse: “Io ho vinto tutto, tu niente”?
«Risponderei che probabilmente ha vinto meno di quello che avrebbe potuto, considerate le sue qualità».
Ha avuto un modello di allenatore?
«No, almeno a livello conscio. Ho osservato il lavoro di tanti, ma non ho mai pensato: voglio copiare i metodi di questo».
E oggi quale squadra le piace di più veder giocare?
«Non guardo tanto calcio in tv. Preferisco un film, o, meglio ancora, un libro».
La appassiona John Fante. Perché?
«Mi piaceva Bukowski, da lì sono approdato a Fante. Le letture, come tutto nella vita, subiscono un’evoluzione. Leggere arricchisce anche a livello professionale: se uno ha letto cento libri o uno solo, fa differenza. E la si nota nella facilità di linguaggio. Se ce l’hai, parti avvantaggiato qualsiasi cosa tu faccia».
Il calcio italiano non vive un’epoca di prosperità, come il resto del Paese: a questo proposito, qual è la prima cosa che ha notato, arrivando in A?
«Che, visti in tv i gol del nostro campionato e quelli dei tornei inglese o tedesco, i nostri sembrano più brutti. È colpa del contorno, degli stadi in cui giochiamo. Poi, sarebbe interesse di tutti un campionato più livellato verso l’alto. Perché, se io sono un tifoso della Sampdoria e so che non potrò più vincere lo scudetto perché non ho i mezzi economici per competere con le tre o quattro squadre che si prendono la fetta più grossa dei diritti televisivi, prima o poi smetto di seguire il calcio. Se non si capisce che il bene collettivo vale più di uno scudetto in più o in meno, andremo incontro a guai grossi».
L’obiezione è che una ripartizione diversa, più “consociativa”, dei diritti televisivi, penalizzerebbe le nostre “grandi” nei confronti degli squadroni europei.
«Mi pare che nei Paesi dove i soldi delle televisioni sono distribuiti in maniera più equa, le squadre migliori svettino comunque in Champions. Se i nostri club faticano a tornare ai vertici in Europa, forse è perché hanno commesso degli errori di programmazione e investimenti».
Sulla Gazzetta un lettore ha scritto di aver invitato a casa amici inglesi per Juve-Roma e di aver cambiato canale dopo 45’ di falli e proteste.
«Il nostro calcio è vissuto in maniera malata. Ma ad avvelenarlo contribuiscono tutti, anche voi della stampa: prima di quella partita ho letto titoli che non sono da giornali, ma da tifosi».
Ha parlato dell’effetto Guardiola sui giovani tecnici.
«Ho detto che Guardiola, dopo un piccolo percorso nelle giovanili, è subito diventato allenatore del Barcellona. Ma questa dovrebbe essere l’eccezione e non la regola. Si è innescato invece un meccanismo a catena attraverso il quale sono state affidate squadre importanti ad allenatori senza esperienza, che per questo si sono “bruciati”».
È questo che invidia a Inzaghi, essere arrivato subito su una panchina importante? E Inzaghi cosa dovrebbe invidiare a lei?
«Io a Inzaghi invidio solo i piedi. Ho giocato una vita a calcio e non ho mai avuto i suoi piedi. Lui a me potrebbe invidiare l’esperienza in panchina».
La convince il toscano Renzi?
«Non del tutto, ma lasciamo perdere la politica. A Empoli voglio essere l’uomo di tutti, non di una parte soltanto».