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 2014  ottobre 18 Sabato calendario

BEAUTIFUL YOU


Un miliardo di mariti sta per essere rimpiazzato». La frase, isolata sulla prima pagina di Beautiful You, il thriller satirico-erotico che Chuck Palahniuk pubblicherà fra dieci giorni negli Stati Uniti (per Doubleday, tour di presentazione in 10 tappe da San Francisco al Canada fino a novembre) non lascia dubbi su dove voglia andare a parare la storia che inizia, nella pagina che segue, con l’incontro fulminante fra la “Cenerentola moderna” Penny Harrigan, praticante legale, e lo scapolo miliardario più ambito del pianeta, lo sciupa femmine alfa C. Linus Maxwell, già stato fidanzato – sempre inesorabilmente per 136 giorni, non uno di più – della prima presidente donna degli Usa, della nuova regina d’Inghilterra e di Alouette D’Ambrosia, la star francese più premiata di Hollywood. Chuck Palahniuk, lo scrittore americano che quasi vent’anni fa con Fight Club ha scritto la metafora – così potente da essere diventata luogo comune – del disagio maschile sublimato in palestrata autodistruttiva violenza, torna a scrutare uomini, donne e società con le lenti del paradosso e dell’eccesso. Scoprirà (e noi con lui) che non è più tempo di Sex and the City e neppure di 50 sfumature, per sua ammissione i canovacci presi in giro e ribaltati in Beautiful You. Ai giorni nostri (o almeno in quelli che per Palahniuk stanno per arrivare) la Cenerentola di turno può scoprire di essere la cavia perfetta usata dal principe azzurro per testare il “sex toy definitivo”, quello che, una volta commercializzato nella catena di negozi “Beautiful you”, garantirà a ogni donna l’estasi perfetta. E a ogni uomo, come effetto collaterale, il destino annunciato nella prima pagina. A meno che... Per leggere in italiano il finale di Beautiful You bisognerà aspettare: Mondadori, l’editore di tutti i romanzi di Palahniuk, lo pubblicherà nell’autunno 2015. Nel frattempo, dell’autore ha da poco mandato in libreria Sventura (18 euro), secondo tomo della progettata “trilogia infernale” iniziata con Dannazione, protagonista la tredicenne Madison Spencer che scrive (e manda sms) dall’anticamera dell’Ade: un giro di ironico fantasy, prima della molto realistica fantasia sulle «apocalittiche possibilità di marketing del piacere femminile» di cui pubblichiamo in esclusiva alcune pagine iniziali.
M.B.

Anticipazione:
Cornelius Linus Maxwell. C. Linus Maxwell. Per via della sua reputazione da playboy, i tabloid lo chiamavano spesso “Climax-well”. Il megamiliardario più ricco del mondo.
A lei, invece, gli stessi tabloid avevano dato il soprannome di “Cenerentola del Nerd”.
Penny Harrigan e Corny Maxwell. Si erano conosciuti un anno prima. Pareva un’altra vita. Tutt’altro mondo. Un mondo migliore.
In tutta la storia dell’umanità non c’era mai stata epoca migliore per essere donne. Penny lo sapeva.
Crescendo, lo aveva ripetuto come un mantra: «In tutta la storia dell’umanità non c’è mai stata epoca migliore per essere donne».
Il suo mondo precedente era perfetto, o giù di lì. Si era da poco diplomata alla law school, classificandosi nel terzo migliore tra i compagni di corso, ma era stata respinta due volte all’esame di avvocato. Due volte! Non dubitava di sé – non esattamente, almeno – ma un’idea aveva cominciato a tormentarla. Penny era infastidita dall’idea che forse, con tutte le sofferte vittorie del movimento di liberazione della donna, diventare un’avvocatessa volitiva e ambiziosa non era poi questo gran trionfo. Non più, perlomeno. Come proposito non era certo più audace dell’idea di fare la casalinga negli anni Cinquanta. Un paio di generazioni fa, la società l’avrebbe incentivata a diventare madre e casalinga. Ora la pressione era tutta indirizzata verso una professione: avvocato. O medico. O ingegnere aerospaziale. In ogni caso, la validità di quei ruoli aveva più a che fare con le mode e la politica che con Penny come individuo.
Da studentessa universitaria si era prodigata per guadagnarsi l’approvazione dei docenti al dipartimento di Studi di genere della University of Nebraska. Aveva abbandonato i sogni dei propri genitori in cambio dei dogmi dei professori, ma né l’una né l’altra dottrina era veramente sua, innata.
La verità era che Penelope Anne Harrigan era ancora una brava figliola – obbediente, brillante, diligente – che faceva quel che le veniva detto di fare. Si era sempre rimessa ai consigli altrui. D’altra parte, però, aspirava a qualcosa di più dell’approvazione dei genitori o di chi li aveva surrogati. Con buona pace di Simone de Beauvoir, Penny non aveva voglia di far parte della terza ondata di niente. E, con tutto il rispetto per Bella Abzug, non voleva neanche essere una post-qualcosa, non aveva voglia di ripetere le vittorie di Susan B. Anthony e Helen Gurley Brown. Voleva una scelta al di là dell’alternativa tra casalinga e avvocata, tra madonna e puttana. Un’opzione non invischiata nei residui persistenti di un sogno dell’epoca vittoriana. Penny voleva qualcosa di follemente al di là dello stesso femminismo!
A tormentarla era il pensiero che forse qualche motivo profondo le aveva impedito di superare l’esame di avvocato. Una parte sommersa di lei non voleva esercitare quella professione, e lei continuava a sperare che succedesse qualcosa a salvarla dai suoi sogni prevedibili e in scala ridotta. I suoi ideali erano stati quelli di una donna radicale di un secolo prima: diventare avvocato... competere alla pari con gli uomini. Come ogni sogno di seconda mano, però, per lei era un peso. Altri dieci milioni di donne lo avevano già realizzato. Penny voleva un sogno tutto suo.

Mentre si faceva coraggio per il terzo tentativo all’esame di avvocato, Penny cominciò a lavorare da Broome, Broome e Brillstein, lo studio legale più prestigioso di Manhattan. A dire il vero, non era un’associata a pieno titolo, ma non era neanche una stagista. Okay, a volte doveva correre immediatamente fino allo Starbucks al piano terra per una mezza dozzina di bicchieri di latte e cappuccini di soia semi-decaffeinati, ma non tutti i giorni. Altre volte veniva spedita a recuperare sedie per qualche grande riunione. Però non era una stagista. Penny Harrigan non era un avvocato, non ancora, ma di certo non era una volgare stagista. (...) Era ridicolo. BB&B era lo studio legale più potente d’America, ma non avevano mai abbastanza posti a sedere per tutti. Come nel classico gioco delle sedie, se si arrivava tardi a qualche riunione si rimaneva in piedi. Almeno finché qualche subalterno come Penny non veniva mandato a cercare una sedia.
Mentre Monique si precipitava alla riunione per cercare di guadagnare tempo, Penny provò ad aprire porte una dopo l’altra, trovandole tutte chiuse a chiave. I corridoi erano stranamente deserti, e dalle finestre che c’erano accanto a ogni porta chiusa Penny vedeva le sedie che i vari associati avevano lasciato al sicuro in ufficio, dietro le rispettive scrivanie. Nell’aria rarefatta dei piani dirigenziali regnava sempre il silenzio, ma lì la situazione era spettrale. Non c’erano voci né echi di passi rimbombanti sulle pareti rivestite di legno o da raffinati dipinti di paesaggi della valle dell’Hudson. Bottiglie aperte di Evian erano state abbandonate da così poco che ancora stavano frizzando.

Penny aveva fatto quattro anni di corso di laurea in studi di genere e due anni di law school e adesso andava in giro a recuperare sedie per gente troppo pigra o presuntuosa per portarsene una alle riunioni. Era umiliante. Questa no, certo, non era tra le cose di cui si sarebbe vantata via e-mail con i genitori.
Il suo cellulare cominciò a vibrare. Un sms di Monique: «Sorella, dove sono ‘ste sedie?». A quel punto Penny stava già correndo come una forsennata per i corridoi. Con la scatola di cartone dei caffè in precario equilibrio su una mano, si protendeva a ogni porta e ne stringeva la maniglia per il tempo necessario ad appurare che fosse chiusa a chiave. In piena frenesia, aveva praticamente abbandonato ogni speranza e correva senza più fiato da un ufficio chiuso all’altro. Alla fine una maniglia ruotò, cogliendola impreparata. La porta si aprì verso l’interno, e lei perse immediatamente l’equilibrio. Cadde al di là della soglia tra spruzzi di caffè bollente, atterrando su un che di morbido come una distesa di trifogli. Riversa a terra, vide da vicino i verdi, i rossi e i gialli intrecciati di bellissimi fiori. Tanti fiori. Era atterrata in un giardino. Uccelli esotici appollaiati tra rose e gigli. A pochi centimetri dalla sua faccia, però, incombeva una scarpa nera lucidata. Una scarpa da uomo, con la punta nella posizione ideale per darle un calcio nei denti.
Non era un vero giardino. Gli uccelli e i fiori erano solo motivi ornamentali di un tappeto orientale. Tinto e tessuto a mano in pura seta, era unico nel suo genere da BB&B, e Penny capì immediatamente in che ufficio di preciso si trovava. Si vide riflessa nel cupo splendore della scarpa: i capelli intrisi di caffè che le penzolavano davanti agli occhi, le guance avvampanti, la bocca spalancata in cerca di ossigeno, lì a terra. Il petto sussultante. Nella caduta le si era sollevata la gonna, e aveva il culo all’aria. Fortuna che le mutande erano opache, di cotone, vecchio stile. Avesse avuto addosso un perizoma osé sarebbe morta di vergogna.
Il suo sguardo risalì lungo la scarpa nera fino a una forte e tonica caviglia avvolta da un calzino a rombi. Neanche lo sbarazzino disegno verde-oro del calzino, però, riusciva a dissimulare i muscoli sottostanti. Poco più sopra l’orlo del pantalone con risvolto. Da quell’infimo punto di vista seguì la piega netta della gamba dei pantaloni di flanella grigia fino al ginocchio. Sartoria e tessuto raffinatissimi mettevano in evidenza una coscia poderosa. Gambe lunghe. Gambe da tennista, pensò Penny. Da lì, la cucitura interna condusse il suo sguardo verso una protuberanza notevole, come un grosso pugno racchiuso da liscia e morbida flanella. Sentì un calore umido tra sé e il pavimento. Stava sguazzando tra i bicchieri rovesciati. Cinque litri di roba, tra latte di soia magro, caffè semi-decafferinato, tè, latte macchiato, stavano inzuppandole i vestiti e rovinando quell’inestimabile arredo da pavimento.
Persino nel cuoio lucido ma scuro della scarpa Penny vide aumentare il rossore delle proprie guance. Deglutì. Una voce giunse infine a spezzare l’incantesimo ipnotico del momento. Un uomo disse qualcosa. Il tono era sicuro, ma morbido come il tappeto di seta. Cordiale e divertito, ripetè: «Ci conosciamo?». Penny guardò verso l’alto attraverso il velo delle lunghe ciglia frementi. Un volto si stagliava in lontananza. Nel punto di fuga di quella prospettiva di flanella grigia c’erano i tratti che tanto spesso aveva visto sulle prime pagine dei tabloid al supermercato. Aveva gli occhi azzurri, la fronte era orlata da una frangetta scomposta dei suoi capelli biondi da ragazzino. Il sorriso gentile gli incideva due fossette, una per guancia, sul viso ben rasato. L’espressione era bonaria, affabile, come quella di un bambolotto. Non aveva rughe sulla fronte né sulle guance, forse perché non aveva mai avuto preoccupazioni né ceduto al sarcasmo. Dai tabloid, Penny sapeva che quell’uomo aveva quarantanove anni. L’assenza di zampe di gallina intorno agli occhi, poi, sembrava indicare scarsa propensione al sorriso.
Brillstein, (il socio anziano dello studio) balbettando, disse: «Signor Maxwell, non può immaginare quanto io sia dispiaciuto per questa scortese interruzione». Prese il suo telefono e, premendo alcuni pulsanti, disse: «Stia pur certo che questa giovane verrà immediatamente espulsa dall’edificio». Al telefono berciò: «Sicurezza!». A giudicare dalla veemenza della sua voce, si sarebbe detto che non di un semplice licenziamento si trattava, bensì di scaraventarla giù dal tetto.
«Posso darle una mano?» domandò il biondo, chinandosi verso di lei. Al dito lui portava un anello con sigillo e una grande e lucente pietra rossa. Penny avrebbe scoperto in seguito che era il terzo rubino più grosso mai estratto nello Sri Lanka. Era appartenuto a sultani e maharaja, e ora interveniva in suo soccorso.
Il suo scintillio era accecante. Le dita che si chiusero intorno a quelle di lei la sorpresero per com’erano fredde. Una forza altrettanto strabiliante la sollevò, mentre le labbra, quelle labbra che lei aveva visto baciare tante dive del cinema ed ereditiere, dissero: «Visto che ormai è libera...». Lui le domandò: «Mi concederebbe il privilegio della sua compagnia a cena, stasera?».

Il taxi, destinazione Chez Romaine, era in ritardo. Il traffico era bloccato nel tunnel, e i telefonini erano inservibili per mancanza di campo. Andava bene lo stesso. Il tassista continuava a guardare nello specchietto retrovisore per scusarsi. E per dirle che era stupenda.
Penny sapeva che si trattava di complimenti di circostanza. Con tutti i soldi che aveva speso quel pomeriggio, non poteva non sembrare stupenda. Con grave scorno della commessa, il vestito le era cascato a pennello, avvolgendo il suo giovane corpo. Anche le nuove Prada che si era comprata, in un raptus dell’ultimo minuto, facevano una gran figura. Penny, però, era abbastanza intelligente da sapere che non sarebbe mai diventata di una bellezza sconvolgente.
Se non altro, non c’erano mosconi a ronzarle intorno. E questo era un miglioramento. Qualunque cosa era un miglioramento rispetto a una vita nel Midwest.
II Nebraska non era le si mai attagliato granché. Già da ragazza, a Omaha, e persino da bambina, quando abitava a Shippee, Penny si era sempre sentita una outsider. Per cominciare, non assomigliava in nulla ai genitori, massicci, piriformi e dai piedi piatti. Mentre loro erano i classici membri della diaspora irlandese, rossi di pelo e pieni di efelidi, Penny aveva un colorito panna e pesca. Pallida come corteccia di betulla. I suoi avevano entrambi giudicato folle il suo intento di volare a New York City.
Poco prima, appena salita sul taxi, aveva telefonato a Omaha per dare la grande notizia. Sentendo rispondere la madre, Penny le aveva domandato: «Sei seduta, mamma?».
«Arthur!», aveva gridato sua madre, lontano dall’apparecchio. «C’è tua figlia al telefono».
«Ho una notizia davvero fantastica», aveva detto Penny, quasi incapace di trattenersi. Aveva verificato che il tassista la stesse guardando. Voleva che lui origliasse.
«Anch’io!», aveva esclamato la madre. Si era udito un click, e la voce del padre di Penny si era aggiunta alla conversazione. «Tua madre ha coltivato un pomodoro che assomiglia a Danny Thomas sputato».
«Ti manderò una foto», aveva promesso la madre. «Fa impressione».
Il padre aveva domandato: «E qual è la tua buona notizia, dolcezza?».
Penny aveva indugiato per accentuare l’effetto. Poi aveva parlato con voce abbastanza forte da farsi sentire dal tassista. «Ho appuntamento con C. Linus Maxwell».
I genitori non avevano risposto. Non subito, almeno.
Per risparmiare tempo, di mattina, il padre di Penny beveva il caffè seduto sul gabinetto. Sua madre, invece, sognava un materasso ad acqua. A ogni compleanno, spediva alla figlia una Bibbia con una banconota da venti dollari infilata tra le pagine. Questi, in sintesi, erano i suoi genitori.
Penny li aveva imbeccati, domandando: «Lo sapete chi è, Maxwell?». «Certo che lo sappiamo, tesoro», aveva risposto la madre, imperturbata. «Tuo padre e io non abitiamo più a Shippee!».
Penny si era immaginata che avrebbero urlato di gioia, boccheggiato increduli, fatto qualcosa. Alla fine, suo padre le aveva detto: «Ti vogliamo bene comunque, PenPen. Non devi inventarti storie per far colpo su di noi». Le aveva dato della bugiarda.
A quel punto il taxi si era infilato sotto il fiume. Era caduta la linea. E neanche le sue coinquiline le avevano creduto, ma si erano date comunque da fare, aiutandola a mettere l’ombretto e il contorno labbra, come le damigelle d’onore di una sposa. L’indomani non avrebbero più dubitato. Di solito Penny non si dava tutta quella pena per il suo aspetto. Non si era agghindata solo per Maxwell, però: quella sera tutto il mondo l’avrebbe guardata. Penny sarebbe entrata al ristorante da completa sconosciuta, ma al dessert sarebbe già stata una persona di grido, in quel locale. Persino l’eroe di Penny, la presidente Hind, l’avrebbe conosciuta di fama.

Non era giusto. Penny ci provava sempre a spiegarlo: C. Linus Maxwell era più di un precoce genietto di Internet. Molto di più! Gestiva una galassia multinazionale di imprese leader mondiali nel campo delle reti informatiche, delle comunicazioni satellitari e dei servizi bancari. Convinta, raccontava a Monique di come le aziende di Maxwell dessero lavoro a più di un milione di persone, servendone altre centinaia di milioni. Ogni anno le sue fondazioni di beneficenza versavano un miliardo di dollari a favore di una decina di cause di rilievo, dalla lotta contro la fame nel mondo alla ricerca medica, passando per i diritti delle donne. Come la presidente Hind avrebbe potuto confermare, l’uguaglianza di genere era un sogno a cui Maxwell teneva molto. Gestiva scuole in Pakistan e in Afghanistan, dove le bambine potevano impegnarsi per un futuro migliore. Finanziava campagne politiche per portare personalità femminili alle cariche più alte in tutto il mondo.
Questo, diceva Penny, con chiunque parlasse, tutto questo orgoglio e questo altruismo facevano di Maxwell ben più di un nerd pieno di soldi.

A se stessa raccontava che le piaceva stare con lui. Un falso difficile da spacciare. Soprattutto a se stessa.
In ufficio, Monica le domandò: «Ehi, amica di Omaha, hai per caso addosso un diaframma?”. Scosse la testa con un’aria sfacciata, con acciottolio di trecce ornate di perline. Senza attendere risposta, aggiunse: «No, perché se ce l’hai... devi togliertelo! Brucialo! Butta nel cesso tutti i tuoi metodi anticoncezionali e fatti ingravidare da Quell’uomo!».
Non erano affari di Monique, ma Penny lo frequentava da un mese, e non erano ancora andati a letto insieme. A notte fonda, i genitori le telefonavano. Penny sospettava che nutrissero la speranza di coglierla in flagrante con Maxwell. Lei, assonnata, rispondeva: «Che ora è?».
Al telefono, in interurbana, la madre gridava: «Come puoi non amarlo? È talmente ricco!».
All’altro apparecchio di casa, il padre aggiungeva: «Fingi di amarlo!».
«Tuo padre e io non abbiamo mai incontrato Maxwell», sbrodolò sua madre, «ma lo consideriamo già uno di famiglia».
Penny riagganciava. Staccava il telefono e si rimetteva a dormire. Lei non voleva fare la figura di quella facile. Aveva visto tante sorelle e compagne di studi percorrere la navata di una chiesa. Troppi di quei matrimoni si erano avvitati in una squallida vita di “serate galanti” obbligatorie. Come quando uno è condannato all’ergastolo, e le visite coniugali sono poche e molto distanziate tra loro. Prima che ricchi o poveri, lei e Maxwell erano ancora due persone che avevano bisogno di passione ricambiata per decidere di vivere insieme.
Un fatto le si era impresso nella mente: nessuna delle celebri relazioni di lui era mai durata più di 136 giorni. Non poteva essere una coincidenza. Anzi, erano durate tutte esattamente 136 giorni.
E non è che Maxwell, da parte sua, avesse premuto per fare sesso. Era così distaccato, così affabile, ma anche così distante, che Penny fu indotta a domandarsi se Alouette D’Ambrosia non avesse mentito quando lo aveva definito il più grande amatore che lei avesse mai conosciuto. La diva francese doveva essere stata con uomini migliori, uomini tremendamente appassionati. Non si poteva dire che Maxwell fosse aggressivo. Faceva ben poco, a parte osservare, ascoltare e prendere appunti sul suo taccuino. Alle feste sugli yacht, donne che Penny non conosceva la guardavano male. Supermodelle magre come chiodi trattavano con sarcasmo i fianchi normali di Penny. Scuotevano incredule le loro teste dagli zigomi alti. Gli uomini le guardavano con lascivia. Sospettavano che lei possedesse un qualche talento erotico tale da stregare Maxwell. I loro sguardi libidinosi lasciavano trasparire le scene di sodomia sfrenata e di fellatio esperta che si figuravano. Che risate, se avesse detto loro che l’uomo più ricco del mondo l’aveva portata a sciare in Svizzera e alle corride a Madrid, ma non se l’era mai portata a letto.
Penny non era vergine quando aveva conosciuto Maxwell. Aveva fatto sesso con qualche ragazzo al college, pochi. Ma sempre e solo uno alla volta. E solo ragazzi. E mai da dietro! Non era una pervertita, e non era una troia. I suoi fidanzati se li era scelti perlopiù tra i membri della Sigma Chi, cui piaceva giocare a fare i gentlemen, aprendole la portiera dell’auto. Le portavano mazzolini di orchidee che le appuntavano al vestito con dita impacciate. Sulla base della sua esperienza, le pareva che tutti gli uomini si credessero, per natura, grandi ballerini e bravissimi a letto. La verità era che per la maggior parte conoscevano un solo modo di ballate – di solito il pogo – e tra le lenzuola erano come scimmie da documentario che cimentino un formicaio con un bastone.
Aveva avuto rapporti sessuali, ma non aveva mai provato un orgasmo. Non un orgasmo vero, perlomeno, di quegli orgasmi tellurici che ti anestetizzano i denti e di cui aveva letto tante volte su Cosmopolitan. No, dopo il diploma alla law school Penny non era vergine, ma neppure aveva intenzione di accasarsi.

A letto, il tocco di Maxwell era di un’esattezza quasi clinica. Le dita, per come le usava, parevano calibri, la cui unica funzione fosse quella di misurarla. Come un medico o uno scienziato, la stringeva con la punta delle dita come se stesse valutando la sua pressione sanguigna. Spesso lasciava a metà una carezza, si sporgeva di lato, verso il comodino, e scarabocchiava qualcosa con una sua misteriosa e minuta stenografia.
Quella prima notte a Parigi, Penny si ritrovò leggermente ubriaca, nuda nel letto di lui che se ne stava inginocchiato tra le sue gambe spalancate.
Il ripiano del comodino accoglieva una strana combinazione di oggetti. C’erano sfaccettate boccette di cristallo, simili a fiale di profumo, piene di liquidi dai colori diversi, ma tutti vivaci. Parevano enormi rubini, topazi e smeraldi. Ricordarono a Penny l’enorme zaffiro che aveva visto al collo di Alouette D’Ambrosia. Tra le boccette c’erano anche comunissimi becher e provette come quelli che Penny aveva sempre associato alle lezioni di chimica a scuola. C’era anche una piccola scatola di cartone, simile a quelle dei fazzolettini di carta, ma sembrava piena di guanti di lattice, dato che dalla scatola ne spuntava uno, pronto all’uso. Una beuta conteneva un assortimento di preservativi confezionati. Il taccuino di Maxwell era infilato tra tutti quegli oggetti. Ovvio. Quel taccuino era quasi una sua appendice. Un ulteriore oggetto che Penny riuscì a identificare fu un piccolo registratore audio digitale, a cui un dirigente indaffaratissimo potrebbe dettare i propri pensieri. La cosa più vicina, però, era una bottiglia di champagne.
Maxwell era già in erezione, ma non sembrava badare a quel suo stato. A pochi centimetri dalle nudità di Penny, si sporse per metà dal letto. Prima stappò la bottiglia di champagne, versando in un becher un po’ di vino che frizzò roseo. Champagne rosé. Porse il becher a Penny. Sollevando la bottiglia fece un brindisi: «All’innovazione e al progresso». Bevvero ognuno il proprio frizzantino.
«Non trangugiarlo tutto, mia cara». Maxwell schioccò le dita a indicare che voleva indietro il becher. Vi aggiunse ancora un po’ di champagne e posò la bottiglia. Con gesti sicuri, scelse alcune boccette di cristallo da cui versò nel becher di vino rosato gocce e spuzzi di sciroppi dai colori sontuosi. Ogni tanto sfogliava avanti e indietro il taccuino come se stesse consultando una ricetta codificata.

Mentre lavorava assorto, Maxwell ragionava ad alta voce: «La gente si sbaglia di grosso. Si dedica allo studio di qualunque cosa tranne quelle più importanti». Le sue labbra si piegarono in un amaro sogghigno. «Ho indagato i luoghi infinitamente sottili del mondo dei sensi. Ho studiato presso medici ed esperti di anatomia. Ho sezionato cadaveri, di uomini e donne, per capire la meccanica del piacere».
Agitando il becher per miscelarne il contenuto, Maxwell rivolse a Penny uno sguardo corrucciato e le domandò: «Hai mai provato un orgasmo?». «Certo», rispose Penny rapida. Troppo rapida. Era una bugia, e si era capito.
Maxwell fece un sorrisetto e proseguì. «Sono stato discepolo dei più grandi esperti mondiali di sesso». Non c’era vanteria nelle sue parole, solo una risolutezza irriducibile. «Ho studiato con gli sciamani tantrici in Marocco. Ho imparato a padroneggiare l’energia della kundalini. A comprendere il coefficiente di attrito tra i diversi tipi di pelle. Ho consultato i più apprezzati luminari mondiali di chimica organica». Penny lasciò vagare lo sguardo sul corpo nudo di lui. Aveva letto sul National Enquirer che aveva quarantanove anni. Era abbastanza vecchio da poter essere suo padre, ma la sua struttura asciutta lo faceva assomigliare quasi a un insetto. Le sue membra erano tutte definite e ben proporzionate come quelle di una formica o di un calabrone. La pelle pallida e glabra gli cascava a pennello come gli abiti che indossava, senza una grinza o altra imperfezione. Gli osservò le spalle e le mani, in cerca di lentiggini o di nei, ma non ne trovò. Per come parlava delle sue indagini sul sesso, si sarebbe aspettata di vederlo con i capezzoli trafitti, il torso pieno di tatuaggi o delle cicatrici di torture consensuali. E invece non c’era nulla di tutto questo. La sua era una pelle immacolata da bambino tesa a rivestire la muscolatura di un uomo adulto. «La mia ricetta segreta», disse lui, offrendole il becher da annusare. Il vino, mescolato a misteriosi additivi.
Traduzione di Gianni Pannofino
(© 2014 by Chuck Palahniuk-Allrights reserved. Published in the United States by Doubleday. Pubblicato per gentile concessione di Luigi Bernabò Literary Agents e Arnaldo Mondadori Editore)