Gloria Mattioni, DLui, la Repubblica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
MISTER LINKEDIN: IL MIO JOBS ACT
Prima di fondare LinkedIn insieme a due ex-colleghi, poco più di 10 anni fa, Reid Hoffman era già un astro nascente della Silicon Valley. Laureato in scienze sociali a Stanford e con un master in filosofia ad Oxford, aveva lavorato in Apple Computer e Fujitsu e poi partecipato al lancio di PayPal. Ma il suo nome circola da sempre dietro le quinte di ogni startup di successo, come una sorta di angel investor. Per dire, pare che ci sia stato il suo zampino anche per il buon avvio di Facebook e Zynga.
Certo, è inventando da zero il primo social dedicato ai contatti business e al networking di lavoro, che Mister LinkedIn è entrato nel gotha dei talenti-diventati-guru. Con 250milioni di utenti planetari, circa 1500 dipendenti e un fatturato annuo di quasi 200 milioni di dollari (“certificati” dalla quotazione in Borsa nel 2012), oggi Hoffman è un venture capitalist fra i più stimati al mondo. Chi lo conosce e ci ha collaborato in questi anni, però, non ha dubbi: «Il punto di forza di Reid è da sempre il suo stile nei rapporti di lavoro. La sua capacità di tirare fuori il massimo da tutti, offrendo in cambio capacità di ascoltare, accettare e sollecitare consigli e pareri, comprendere al volo esigenze e umori di chi gli sta intorno». Qualità rare nella velocissima economia hi-tech, soprattutto per indaffaratissimi Ceo della rete come lui. Non sorprende così che tutti parlino del libro da poco pubblicato negli States e in arrivo a inizio 2015 in Italia per Egea: L’alleanza. Gestire il talento nell’era del networking, scritto con i colleghi imprenditori e autori Ben Casnocha e Chris Yeh, in cui invita a ripensare la relazione tra lavoratori e datori di lavoro in tempi di incertezza e mobilità. Ed è una sorta di manuale di self-help per capi che aspirino a diventare manager illuminati e un vademecum per dipendenti che vogliano gratificazioni a breve o prospettive di carriera, agendo alla luce del sole. In anteprima per l’Italia, noi l’abbiamo incontrato.
Parafrasando il nostro pruno ministro Renzi, lei propone un suo speciale Jobs Act: l’”alleanza” tra datore di lavoro e lavoratori, soprattutto oggi che l’impiego a vita non è più una realtà. Ce lo spiega meglio?
«Se ieri si pensava al lavoro a vita, in un’azienda che diventava una sorta di famiglia e se oggi si crede possibile una mobilità totale che alla fine scontenta tutti, domani la soluzione è l’alleanza. Lo scopo è offrire a entrambi una base per la fiducia reciproca, per impegnarsi e investire uno nell’altro. Senza paternalismi, né false premesse di fedeltà a priori. Mi spiego: oggi nessuno resta nello stesso posto di lavoro per 30 anni, la flessibilità è obbligatoria per adattarsi a un mondo che cambia rapidamente. Allora il segreto è questo: capire che la comunanza d’interessi capi-dipendenti può essere temporanea, ma offrire ottime opportunità»
C’è una condizione perché l’alleanza duri a lungo?
«L’idea è parlare apertamente di piani, ambizioni, desideri. Il capo, il manager, avrà obiettivi di risultato o periodo. Il lavoratore di stipendio o carriera. E dalla comunicazione che si rinforza l’alleanza, per fare rimanere più a lungo i migliori in azienda rinnovando loro le sfide».
La chiave, sostiene lei nel libro, è la fiducia.
«Solo in un clima di lealtà si può avere una comunicazione onesta. Certo, la fiducia si costruisce day-by-day: con l’incremento progressivo di compiti da realizzare. In alcuni casi, questa strada porta alcuni ad assumere ciò che noi chiamiamo il foundational tour of duty: ovvero il dedicarsi completamente all’azienda, pensando di rimanerci a vita. Altri invece a un più salutare trans transformational tour: processi di crescita a scadenza, da completare entro un certo periodo. E quando il “tour” degli obiettivi sta per finire, è il momento di discutere insieme la prossima tappa».
Lei parla di comunicazione onesta, in contesti di individualismo e segretezza. Come può un datore di lavoro convincere i suoi che essere sinceri su cosa va o non va non avrà poi ripercussione sulle loro carriere?
«La cosa migliore è che siano proprio i manager ad aprirsi per primi, rivelando progetti e aspirazioni. Il mio partner a LinkedIn, il Ceo Jeff Weiner, dice che la fiducia viene dalla consistency: la coerenza. Come dire che, se un datore di lavoro mantiene regolarmente le sue promesse, tutti impareranno a ridarsi e ad affidarsi a lui». Pare invece che il direttore del personale di LinkedIn, Kevin Scott, faccia una domanda fissa ai candidati durante i colloqui d’assunzione...
«Non il classico “dove si vede tra 5 anni?”, Scott salta il fosso e chiede direttamente: “che lavoro pensa di fare una volta finita la sua esperienza qui a LinkedIn?”. Chiaro, no? È una dimostrazione di quanto dicevo: voler conoscere gli obiettivi di carriera di un aspirante collaboratore, anche quando magari non coincidono completamente con gli interessi dell’azienda, è fondamentale. E su questa base si possono definire percorsi ottimali».
Nel libro poi cita l’esempio di David Hahn, uno dei vostri primi assunti. Ce lo racconta?
«David è uno dei più corteggiati executive dell’intera Silicon Valley. Hanno provato più volte a portarcelo via. Ma discutendo con lui delle sue aspirazioni e al tempo stesso raccontandogli i nostri obiettivi, abbiamo elaborato negli anni dei tour of duty che lo potessero soddisfare. Quando uno si realizzava, via con un altro. E così David è ancora qui».
E cosa pensa invece della mobilità interna?
«È fondamentale, soprattutto per far rimanere il più a lungo possibile gli elementi migliori. In genere mi chiedono: “ma quindi i lavoratori a vita per la stessa azienda non esistono più?”. Sì, si traila di persone per le quali l’azienda è il fondamento della carriera e loro sono un pilastro su cui si regge l’azienda. Come il nostro Jeff Weiner, che ripete di non poter neppure immaginarsi fuori da LinkedIn ».
Poi lei parla di network intettigence. Cos’è?
«È il sapere collettivo al quale un lavoratore può attingere tramite il suo network di conoscenze. Uno strumento difficile da maneggiare, perché spesso ci sono più persone intelligenti fuori dall’azienda che al suo interno. Ogni singolo lavoratore diventa così uno scout alla scoperta di “dati” nel mondo. Può ricavarli da libri, articoli, lezioni e classi. Ma soprattutto da interazioni con amici e conoscenti. Incoraggiarli a condividerli è fondamentale perché offre un pozzo di informazioni, altrimenti inaccessibile. Incoraggiare la network intelligence è da manager lungimirante».
Come i mitici pranzi di apprendimento di HubSpot...
«Geniale! HubSpot ha un fondo apposito, chiamato learning meals: così l’azienda paga gli impiegati che ogni tot di tempo fanno un “pranzo di apprendimento” con persone esterne e tornano portando idee, informazioni e contatti».
Infine lei parla anche di incoraggiare una sorta di Corporate Alumni Networks: si tratta di associazioni di ex-impiegati che ricordano le riunioni delle classi del liceo?
«Il concetto è proprio quello: riunire chi ha un passato comune dentro l’azienda. Da questi incontri possono venire consigli su persone nuove da assumere, raccomandazioni ed endorsement. E spesso si creano anche così le basi per una riassunzione. In gergo, lo chiamiamo boomerang talent: assumere nuovamente quei quadri che ritornano all’ovile dopo avere potenziato altrove le loro conoscenze. Fino a 20 anni fa tutto ciò era impensabile. Oggi invece non è più così anche perché le aziende e i manager più illuminati hanno smesso di considerarsi “traditi” quando un dipendente accetta un’altra offerta».