Federico Rampini, DLui, la Repubblica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
CUOR DI TYCOON
Per il ventunesimo anno consecutivo Bill Gates si è conquistato il primo posto, nella classifica Forbes dei 400 americani più ricchi. Con un balzo di 9 miliardi in un anno solo, ha portato la sua fortuna personale a 81 miliardi di dollari. Lo segue il suo vecchio amico Warren Buffett, anche lui si è arricchito di quasi 9 miliardi ed è salito a quota 67. Il terzo, Larry Ellison di Oracle, noto anche per l’America’s Cup, vale 50 miliardi. E siamo alla tripletta, perché pure Ellison dal 2013 al 2014 ha rimpolpato il patrimonio con un balzo all’insù di 9 miliardi.
Sono tempi euforici per gli straricchi. La spiegazione di queste performance spettacolari sta a Wall Street. La maggior parte delle fortune si giocano in Borsa, nel senso che gli straricchi d’America hanno un patrimonio fatto in gran parte di partecipazioni societarie, quindi un’annata di record storici delle quotazioni li ha proiettati verso la stratosfera. Aumentando la loro distanza dalla stragrande maggioranza degli americani e perfino dai “semplici ricchi”. Infatti il club dei 400 diventa sempre più esclusivo: per farne parte bisogna valere almeno 1,55 miliardi di dollari. Altrimenti sei fuori. La classifica Forbes è la dimostrazione che questa ripresa americana, pur durevole e consistente, è diseguale. La macchina dell’economia Usa è ripartita già da 5 anni ma il modello di sviluppo non è sostanzialmente cambiato rispetto a quello che collassò nel 2008-2009.
Non è cambiato neppure un assioma etico-culturale di questo iper-capitalismo. Le radici affondano in quella che il sociologo Max Weber analizzò per primo come «l’etica protestante del capitalismo». Se sei ricco, recita la morale puritana dei padri fondatori, devi restituire alla comunità almeno una parte dei frutti del tuo talento imprenditoriale. Il capitalismo può essere diseguale, non egoista. Ecco che la classifica dei Paperoni d’America coincide quasi totalmente con un’altra: la lista dei benefattori munifici, dei grandi filantropi, dei mecenati caritatevoli. Guadagna tanto, poi dona tanto, è l’imperativo a cui molti di loro soggiacciono con disciplina e perfino con entusiasmo.
Bill Gates si è conquistato giustamente una fama mondiale per ben due “rivoluzioni” che lo hanno visto protagonista. La prima fu quella informatica che portò un personal computer (e un software Office o Windows) su ogni scrivania, agli albori di Internet. La seconda è stata la rivoluzione della carità. Nella sua vita da “baby-pensionato” (tuttora a 58 anni non avrebbe l’età per l’assegno previdenziale della Social Security... ) Gates si è dedicato a una seconda carriera, con la Fondazione che porta il nome suo e della moglie Melinda. Nel campo della filantropia ha trasferito la sua abilità d’imprenditore e manager, raggiungendo livelli di efficienza forse senza precedenti, riducendo sprechi e costi amministrativi in modo da massimizzare l’efficacia di ogni dollaro speso: per esempio nella lotta alla malaria che ancora affligge tante zone tropicali o, di recente, nella ricerca del farmaco anti-Ebola. Al punto che perfino dei governi scandinavi hanno gestito una parte dei loro aiuti allo sviluppo affidandosi alla consulenza della Fondazione Gates, un riconoscimento al suo know how.
La rivoluzione Gates non si ferma qui, perché l’altro impatto è proprio sui suoi colleghi miliardari. Il fondatore di Microsoft s’è fatto l’alfiere di un’iniziativa perché tutti gli straricchi prima di morire donino in beneficenza almeno metà dei loro patrimoni. Di fatto “diseredando” per almeno il 50% la progenie. I coniugi Gates avevano già dato il buon esempio: i figli riceveranno in eredità solo le briciole (pur sempre abbondanti), mentre il grosso finirà alla Fondazione. Buffett ha aderito subito. Dietro di lui molti altri, anche giovanissimi come Mark Zuckerberg, fondatore e primo azionista di Facebook.
Proprio Zuckerberg nel 2013 è balzato in testa alla classifica Philantrofy 50, quell’elenco “gemello” della Forbes, da cui si vede chi dona e quanto. I 50 filantropi più caritatevoli sono lì dentro a titolo personale (non compaiono le donazioni fatte da istituzioni come la Fondazione Gates). Le somme sono notevoli, secondo Philaniropy 50 iconiugi Mark Zuckerberg e Priscilla Chan hanno donato quasi un miliardo. L’ex sindaco di New York nonché proprietario dell’omonima società d’informazione finanziaria, Michael Bloomberg, ha dato in beneficenza 452 milioni di dollari. Il fondatore di eBay Pierre Omidyar ha elargito 225 milioni. Il co-fondatore di Google, Sergey Brin con la moglie Anne Wojcicki, 219. Il caso di Brin è interessante perché dimostra che il modello del miliardario filantropo è adottato velocemente anche da chi viene da fuori. Brin è di origine ucraina, ma si è calato perfettamente nella cultura di Max Weber e dei suoi nipotini Wasp (white, anglo-saxon, protestant).
Non che il miliardario caritatevole sia un’invenzione esclusiva del mondo protestante. Ci sono tradizione analoghe e perfino più antiche in nazioni che definiamo ancora “emergenti”, ma hanno più storia di noi. Un caso importante è l’India. La storia dei Tata è esemplare, perché questa dinastia capitalistica di religione parsi (seguaci di Zoroastro, origine persiana che risale alla notte dei tempi) ha praticato la filantropia quando ancora l’India era una colonia inglese. L’ultimo discendente, Raran Tata, è tuttora uno dei più generosi filantropi del suo paese. L’imprenditore più ricco della Cina in questo momento è Jack Ma, fondatore del sito di commercio online Alibaba, appena quotatesi a Wall Street. Il suo patrimonio personale si aggira sui 20 miliardi. Oltre a sfidare i giganti della Rete californiani, Ma si è americanizzato anche nella filantropia: ha aderito all’appello di Bill Gates dichiarando che almeno metà della sua ricchezza andrà alle charities.
L’America resta comunque in una categoria a parte, per la diffusione del fenomeno e le somme in gioco. Aiuta il fatto che qui la normativa fiscale è molto incoraggiante. Praticamente qualsiasi donazione a organismi riconosciuti meritevoli, diventa deducibile dall’imponibile fiscale. Quello che i ricchi non pagano volentieri allo Stato sotto forma di tasse sono felicissimi di donarlo a istituzioni che altrove sarebbero finanziate con fondi pubblici: ospedali, università, musei, ricerca scientifica, opera lirica o musica sinfonica. Questo è un “contratto sociale” abbastanza unico al mondo: in America la grande ricchezza è tassata poco soprattutto se è di tipo finanziario (Buffett scherza sul fatto che l’aliquota fiscale sui suoi profitti è inferiore all’Irpef che paga la sua segretaria), in compenso i miliardari Usa non si fanno pregare per aiutare chi ha bisogno.
La carità non ha colore politico, non è di sinistra o di destra. Scorrendo la lista Philantropy 50 ci si imbatte in nomi “famigerati” per l’opinione pubblica progressista. I fratelli Koch sono la quinta famiglia più ricca del paese, e la loro è una ricchezza “maledetta” dalle emissioni carboniche: business petrolchimico. Sono di destra, non perdono occasione per appoggiare (libretto d’assegni alla mano) i falchi del partito repubblicano. Finanziano campagne negazioniste sul cambiamento climatico. I politici da loro appoggiati bloccano al Congresso le normative più ambientaliste. Ma gli stessi Koch hanno pagato gran parte della costruzione del Lincoln Center, le sale di musica sinfonica e di balletto. Sempre i fratelli Koch sono generosi donatori dello Sloan Kettering, uno dei più importanti ospedali per le cure anticancro a New York (i loro avversari sottolineano la contraddizione: nelle fabbriche chimiche dei Koch si produce formaldeide, altamente cancerogena). Generosità e spirito progressista non coincidono per forza. Un’altra famiglia molto munifica è quella dei Walton, la dinastia dei proprietari di Wal-Mart: catena d’ipermercati più volte denunciata per i bassi salari e comportamenti anti-sindacali.
Qui c’è un paradosso molto americano. I miliardari sono essenziali per avere le migliori università del mondo, ospedali all’avanguardia, musei bellissimi, istituzioni culturali di gran prestigio. I miliardari, mentre le loro finanze decollano verso la stratosfera e le loro condizioni di vita si staccano sempre di più da quelle del ceto medio, sono pronti a finanziare la lotta alla povertà, mense dei senzatetto, scuole per bambini immigrati. Infine gli stessi miliardari non esitano a difendere le proprie idee politiche con elargizioni di fondi per le campagne elettorali di questo o quel candidato. Nella battaglia politica si elidono a vicenda: per un George Soros che aiuta i candidati di sinistra c’è un Koch che paga le campagne della destra; per un Bloomberg che vuole la messa al bando delle armi c’è un petroliere come Harold Simmons o un costruttore edile come Donald Trump pronto a sostenere battaglie di segno opposto. Ma anche quelli che sono considerati in qualche modo dei progressisti, come Bill Gates, con la loro forza economica finiscono per sollevare questioni delicate.
Di recente Gates si è innamorato di un nuovo metodo per insegnare la storia nelle scuole, un approccio interdisciplinare più moderno e stimolante. E ha deciso di finanziare generosamente le scuole che l’adottano. Per quel che ne so, si tratta di una cosa seria. Tutto bene? Sì, se siamo d’accordo sul principio che un singolo miliardario possa decidere su quali libri scolastici si formerà un’intera generazione. Come nella battaglia politica fra democratici e repubblicani, combattuta a colpi di assegni miliardari, il cittadino che appartiene al 99% della società civile americana rischia di sentirsi uno spettatore: esautorato, emarginato, impotente.