Stefanie Marsch, D, la Repubblica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
POTENTE SCANDALOSO KIEFER
Una scena dalla vita di Anselm Kiefer da giovane mostra un ragazzo insolitamente sicuro di sé, con un’innata fascinazione per la dimensione spirituale e un senso forte del proprio destino.
A 5 anni il piccolo Anselm – nato due mesi prima della fine della Seconda guerra mondiale tra le macerie di Donaueschingen, nella Foresta Nera – aveva già le idee chiare sul proprio futuro, e cercava di allineare la visione di sé con il mondo reale. Aveva ricevuto un’educazione cattolica e fatto il chierichetto, il suo futuro sembrava nella Chiesa. Spesso pensava: «Voglio diventare Papa». O almeno cosi è stato scritto. «Chi l’ha detto?». «Lei, in un articolo del 2007. Magari è stato un errore di stampa». «No, no». Kiefer – preciso, laconico, concentrato, arguto, tedesco – corregge l’errore. «No, io volevo essere Gesù».
Arrivato all’età della scuola aveva capito che diventare Gesù Cristo era molto improbabile, e aveva ridimensionato l’ambizione: magari poteva essere Papa. «Ma allora ero convinto che solo gli italiani potessero diventarlo. Ci sarebbe voluto mezzo secolo per un Papa tedesco». Perché questo complesso di Gesù? «Volevo essere il migliore». Del mondo? «Del mondo». Migliore in che cosa? «Il migliore. L’originale, il primo a fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto». Dice che non era brama di potere: quel desiderio veniva da una ricerca spirituale che la sua fede cattolica non riusciva a soddisfare. La prima comunione, per esempio: che delusione. «Mi dicevo: “Ora succederà qualcosa di straordinario”. Ma non successe niente. Avevo avuto dei regali, ma pensavo: “Non mi piacciono. Voglio altro”. Una rivelazione o qualcosa del genere».
L’idea di diventare un artista non era così lontana da Kiefer come poteva esserlo per i suoi coetanei. Suo padre, prima di combattere da ufficiale nella Seconda guerra mondiale, insegnava arte. Se oggi suo figlio sia o no il più grande artista vivente è opinabile, ma è un fatto che sia sempre tra i primi cinque nelle classifiche stilate dai giornali spedalizzati. «Però i tedeschi non mi amano molto», sorride lui.
Ovviamente chi agli inizi aveva comprato i suoi quadri grandi, bellissimi, commoventi – realizzati con la pittura a impasto, spessi strati sovrapposti di vernice – grazie ai quali si è fatto una reputazione, sarà felice che sia divenuto uno degli artisti più quotati. Ma sarebbe deluso se scoprisse come lui considera chi investe in arte. «Non c’è bisogno di comprare un quadro. Puoi vederlo in un museo. Comprare arte è una forma di compensazione, un gesto da industriale miliardario che improvvisamente scopre che il denaro non è tutto nella vita. Si, collezionare è una compensazione. E odio le fiere di settore. Ho proibito a tutti i miei galleristi di portarci i miei lavori. Perché stanno distruggendo l’arte. Mettono insieme le opere in modo insensato. Sono qualcosa di perverso». Gli hanno raccontato che i dealer fotografano le sue opere e poi, alle fiere, le mostrano di nascosto ai collezionisti. «Vanno in bagno e fanno partire i video». La cosa lo infastidisce da pazzi: «Non posso mica controllarli alla toilette!».
Il sospetto è che l’importanza di Kiefer nell’universo artistico dipenda anche da chi stila le classifiche: se è un tedesco oppure no. In America Kiefer è considerato un dio, se non addirittura “il” dio del mondo dell’arte. I tedeschi hanno un atteggiamento ambivalente verso i propri figli famosi. Kiefer non vive da anni in Germania, visto che si è trasferito in Italia su desiderio della sua prima moglie («Ho sempre seguito le donne!») e poi, nel 1992, nel sud della Francia, a Barjac. Lì ha comprato e restaurato un vecchio setificio circondato da 86 ettari di terreno e, nel corso di 17 anni, lo ha convertito in uno straordinario studio-residenza. Ha costruito più di 50 edifici diversi, comprese serre in vetro e acciaio, enormi torri e bunker di cemento. All’inizio del millennio ci ha aggiunto un anfiteatro e una cripta. Oggi Anselm Kiefer vive e lavora a Croissy-Beaubourg, fuori Parigi. «Da quando vivo in Francia ho scoperto quanto sono tedesco. E non sono affatto stufo di esserlo. I tedeschi sanno fare cose incredibili, nel bene e nel male. Ma si immagina, se non avessero cacciato gli ebrei? Avrebbero creato la bomba atomica. Era tutto lì, incredibile». Lo studio ha soffitti altissimi ed è grande come un museo. Le sue luminose stanze e i corridoi che le connettono sono usati principalmente da una manciata di gatti e per parcheggiare le biciclette che lui e i suoi assistenti usano per andare in giro. Il lavoro che c’è qui dentro è commovente, evocativo, stupefacente. Enorme. Alle pareti sono appese centinaia di tele con spessi strati di impasto, pittura, paglia, piombo, rame, cenere. Spesso raffigurano edifici, terre, paesaggi urbani devastati. Sul pavimento, su larghi tavoli, ci sono centinaia di attrezzi, materiali da costruzione, foto e libri a cui sta lavorando; un caos ben organizzato. Da bambino Kiefer giocava con i mattoni delle case bombardate e gli piace ancora lavorare con detriti e oggetti di scarto. Ha fatto sculture con il piombo e i mattoni della cattedrale di Colonia colpita dalle bombe durante la guerra. Prende una grande foto a colori dove ci sono due donne pesantemente truccate in un bar: una è sua moglie. Ridacchiando mi chiede di identificare l’altra. Non è brutta, anche se un po’ spigolosa e truccata male. Osservo il suo viso lungo, i denti macchiati dal tabacco, poi guardo di nuovo Kiefer, che ridacchia con i denti macchiati dal tabacco. Ma è lei? Ride e conferma: «Festeggiavamo il compleanno di mia moglie!».
Uno dei motivi per cui i tedeschi non hanno ancora deciso se amano Kiefer o no è che non sono sicuri se sia un neonazista. All’università ha studiato prima legge, e poi arte. Il suo primo lavoro importante, Occupations (1969), diventò immediatamente uno scandalo e resta una delle
sue opere più controverse. È una serie di fotografie di Kiefer che, nell’uniforme del padre, fa il saluto nazista davanti a edifici rappresentativi tipo il Colosseo in Italia, Francia e Svizzera. Voleva riprodurre l’atto militare dell’occupazione, i tedeschi lo presero alla lettera e si spaventarono. «Dissero che ero un neonazista, per via di quel saluto. È stato difficile per loro. Ho messo il dito nella piaga. Negli anni ’60 la Germania era in piena ripresa e dita nella piaga non ne volevano».
L’opera di Kiefer era figurativa, in un periodo dominato dall’arte astratta. «Dicevano: “È pericoloso. Devi pensare alle vittime!”». L’unico che prese le sue difese fu un altro pittore, Kuechnmeister. «Era stato in un campo di concentramento e difendeva il mio lavoro!». Ovvio che non si identifica con Hitler, dice. Ne ha solo replicato le azioni «per capirne la follia».
Poi, nel 1980, ha spaventato di nuovo la Germania, quando è stato scelto per rappresentare il suo Paese alla Biennale di Venezia. A quel tempo il suo lavoro era basato sull’architettura neoclassica del Terzo Reich e i suoi temi includevano il culto di Wagner e l’Olocausto. In seguito, diplomatici tedeschi lo implorarono di cancellare una mostra a Gerusalemme: “Se questo neonazista tedesco va a Gerusalemme sarà uno scandalo!”, pensavano.
Un motivo di costernazione tra i suoi connazionali era il fatto che la maggior parte dei suoi acquirenti e collezionisti fossero ebrei. «I tedeschi non potevano dire niente che avesse a che fare con gli ebrei. Era proibito. Non potevano dire: “Perché comprano quell’arte orribile?”».
Il suo studio è bianco e così grande che per vederlo tutto ci vorrebbero giorni. Qui tutti i quadri sono work in progress, dice. Il suo To The Unknown Painter (1983) è stato venduto da Christie’s nel 2011 per 3,6 milioni di dollari, un record per lui. È un quadro che ha lo stesso tema degli altri di quel periodo: la distruzione dell’arte da parte dei nazisti, paesaggi bruciati, cieli turbolenti. Quei dipinti sono un memoriale degli artisti distrutti dal fascismo tedesco.
Mia madre è tedesca e il tedesco è stata la mia prima lingua. Se guardo le tele di Kiefer penso, io che sono una cinica dell’arte, che il suo lavoro non è disturbante ma pieno di tristezza. Evoca la storia e la cultura tedesche nei secoli, non solo la guerra, ma anche tutto quello che di buono è venuto prima: gli scrittori romantici, le foreste della letteratura e le fiabe dei Grimm. È comprensibile che siano stati gli ebrei emigrati dalla Germania, e poi naturalizzati americani, a essere attratti dal suo lavoro e dalle sue allusioni all’orrendo passato recente, ma anche a quella Germania scomparsa in cui sono cresciuti per generazioni. Un altro punto interessante del passato di Kiefer sono i professori con cui ha studiato legge. «Tre di loro erano nazisti. Lo sapevo. Uno era un avvocato molto brillante ma per via del suo passato gli era stato vietato ogni tipo di insegnamento, poteva solo tenere lezioni nei primi due semestri». E «nessuno di questi avvocati orribili è stato condannato! Il problema delle rivoluzioni è che uccidono sempre le persone più capaci, e la Germania non ha mai avuto una rivoluzione. Non hanno condannato il consigliere in capo di Adenauer (il cancelliere post bellico), e lui sì che era un vero nazista. Scrisse le leggi razziali. E lo fece perché era un ottimo avvocato, cosa che poi lo rese indispensabile ad Adenauer.
Dopo gli studi d’arte Kiefer è stato a lungo povero. La vita era difficile, soprattutto dopo avere sposato Julia, la prima moglie, e avere avuto tre bambini (ora è sposato con una fotografa austriaca, Renate Graf, dalla quale ha avuto altri due figli). Ha vissuto a lungo nell’Odenwald, in mezzo al nulla, di una specie di economia del baratto con la gente del posto: lui dipingeva «mucche e altre cose» per i contadini «e loro mi davano in cambio carne e verdura».
Nel 1971 incontrò lo scultore e performance artist Joseph Beuys, e studiò con lui. Poi, nel 1974, sentì che un gallerista a Baden-Baden stava mettendo su una mostra: 14 by 14, 14 quadri di 14 artisti. «Presi le tele, le misi sul tetto del Maggiolino, andai da quell’uomo e gli dissi: “Eccomi. Voglio far parte di quella mostra”. Come un venditore ambulante. Srotolai le tele (erano enormi) e le appesi. Quello non aveva idea di chi fossi. Credo avesse solo bisogno di qualcuno per fare 14».
Ma c’era qualcosa di profetico in quella piccola mostra, un barlume del neoespressionismo, lo stile – ispirato a pittori espressionisti tedeschi degli anni ’20 come Emil Nolde e George Grosz – che avrebbe dominato l’arte fino a metà anni 80. A quei tempi gli artisti che facevano parte di 14 by 14 erano tutti sconosciuti. Inclusi Sigmund Poke, Georg Baselitz e Gerhard Richter.
E poi che cosa è accaduto? «La mostra è stata un successo. Strano, visto che era un evento piuttosto provinciale. E poi... Ah! Una specie di miracolo: un artista ha comprato tutti i miei quadri». Chi? «Baselitz». Quanto li ha pagati? «10mila marchi. Ero povero e ne fui felice». Eppure, per anni «sono rimasto uno sconosciuto. Nel 1980 ho esposto alla Biennale di Venezia. Ma i miei lavori non sono piaciuti. Dicevano che erano un revival dell’arte fascista e cose simili». Ne fu ferito? «No, mai». Irritato? «No. I giornalisti avevano scritto cose terribili, ma io restavo convinto di essere bravo. Poi nel 1982, 1983, gli ebrei americani hanno scoperto i miei lavori e hanno cominciato a collezionarli».
In Germania, due anni fa, Kiefer ha fatto scandalo di nuovo. I Verdi avevano sentito che stava comprando un impianto nucleare dismesso. «Mi aveva colpito la torre di raffreddamento. E mai stato in una torre di raffreddamento? E come il Pantheon. Fantastica. Era alta 62 metri». Ma poco prima di firmare il contratto i Verdi si misero di traverso. «Una di loro mi scrisse una lettera: “Noi non vogliamo un Pantheon per lei”. I tedeschi cancellano sempre le tracce della storia. Così l’industria nucleare non ha più voluto che comprassi l’impianto, non volevano lo scandalo». Cita l’esempio di Postdamer Platz a Berlino: una volta segnava il confine tra Germania Est e Ovest e per anni, dopo la riunificazione, è rimasta abbandonata e transennata, come un’enorme ferita nella città. Poi è stata messa a posto da uno dei migliori architetti del mondo, Renzo Piano, e ora sembra Legoland. «Io l’avrei lasciata com’era, per ragioni storiche. Ma i tedeschi vogliono sempre nascondere queste cose». Perché? «La Germania non ha grande autoconsapevolezza. Non è sicura di sé. E perciò non è davvero pacificata. Penso sia mancanza di autostima. Che compensa sentendosi superiore. E se qualcuno non è pacificato può essere pericoloso. È per questo che abbiamo bisogno di un’Europa unita».
Di recente Kiefer s’è imbattuto in un libro che lui stesso ha scritto negli anni ’60. Ride: «Avevo scritto “Sarò l’artista migliore”. Avevo 26, 27 anni». Da dove le veniva questa convinzione? «Lo vedevo. No, anzi, lo sapevo. Era una missione. Poi ho lavorato duro. Quando lavori tutto il giorno, e il giorno dopo guardi ciò che hai fatto e pensi: “È una merda”, ti stai sbagliando. Io distruggevo: era un rifiuto che veniva da dentro».
Anselm Kiefer l’ho incontrato per la prima volta alla conferenza stampa per la sua retrospettiva che il 27 settembre si è inaugurata alla Royal Academy. I curatori erano terrorizzati che potesse offendersi, andarsene furioso, comportarsi... da artista. Era un po’ come se in quella stanza lei fosse Dio, gli dico. «Sono un uomo semplice». Che però vuole essere Dio... «La gente confonde l’opera con l’artista. Io sono una persona normale. C’è qualcosa che lavora dentro ognuno di noi. Non ne sono responsabile al 100 per cento».
(©The Times Magazine/ NI Syndication )