Davide Pittioni; Stefano Tieri, pagina99 18/10/2014, 18 ottobre 2014
PICCOLE SEVIZIE DA TERZA ETÀ CHE AFFARE LE CASE DI RIPOSO
TRIESTE. Un gruppo di anziani, in silenzio, è seduto attorno a un televisore acceso. Qualcuno ha gli occhi sullo schermo, altri fissano con aria persa il vuoto. Un’operatrice urla all’orecchio di un’ospite, dicendole che la cena sarà pronta non prima di mezz’ora. Sono da poco passate le 16. «Chi non riceve visite non ha molto da fare qui, e passa la giornata nell’attesa di questi piccoli eventi», ci racconta Cinzia, che accompagniamo nella consueta visita alla madre, ospite in una casa di riposo privata per malati d’Alzheimer. Tornano alla mente le parole dello scrittore triestino Italo Svevo che, nel racconto Il vegliardo, osserva: «La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai, il futuro, rende la vita più semplice, ma anche tanto priva di senso».
Siamo in un palazzo liberty del centro, in una delle 92 case di riposo triestine. L’ambiente è curato, pulito, le stanze da due a quattro letti ciascuna – racchiudono gli effetti personali degli ospiti. La domenica un prete viene a celebrare messa e un pianista ad allietare gli anziani con le canzoni della loro gioventù. «Noi paghiamo 1.630 euro di retta, ma al piano superiore c’è un’altra residenza per anziani, una delle più lussuose della città, di cui non voglio nemmeno immaginare il tariffario», continua Cinzia.
Trieste è la provincia col secondo tasso di anzianità più alto d’Italia, dopo Savona. Considerate le dimensioni ridotte della città, non ci stupiamo di trovare in un unico palazzo ben due strutture le quali, come nella maggior parte dei casi, sono ricavate da abitazioni civili del centro. Entrati nell’appartamento veniamo colpiti dal suono intermittente dell’allarme collegato alla porta.
Qui, come ci dirà Cinzia, uno dei problemi è la fuga degli ospiti: «Mia madre è riuscita a scappare cinque volte in due anni». Comprensibile, dato che è malata d’Alzheimer e crede di essere al lavoro. Meno comprensibile è il numero del personale, composto da soli due operatori e una cuoca per turno, che deve occuparsi di una trentina di ospiti. Li troviamo indaffarati per tutto il tempo della visita, e mentre ce ne andiamo – facendo scattare l’allarme – nessuno si gira per vedere chi sta uscendo.
La carenza di personale non è un problema raro in questo tipo di strutture, dove vengono ospitati anziani non pienamente auto-sufficienti. Sergio Vicini è un ex operatore socio-sanitario e ora gestisce lo Sportello aperto anziani, centro che raccoglie le criticità legate alla terza età a Trieste: «Nelle case di riposo della città, 1’80% delle quali è gestito da privati, abbiamo riscontrato numerosi casi di insufficienza di personale, scarsa preparazione, operatori sottopagati (la retribuzione media è di 8 euro lordi)».
Circostanze confermate da Marina, che ha lavorato per dieci anni in un istituto privato: «Il turno notturno di 12 ore era spesso seguito dal turno mattutino, di ulteriori 3 ore». Un tipo di contratto che nell’ambiente è definito, ironicamente, ecclesiale, per la miseria dello stipendio «simile a quello delle suore». «Il personale era poco», continua Marina, «nonostante le rette fossero molto alte: una situazione frustrante per noi dipendenti, che alla prima occasione ce ne siamo andati».
Sono questi alcuni degli elementi che contribuiscono a creare le condizioni di quello che Vicini definisce un sottobosco di micro-pratiche di negligenza. Nessun caso eclatante è stato recentemente registrato a Trieste, male diverse voci raccolte tratteggiano un quadro generale non proprio idilliaco: piccole inadempienze che, non trovando spazio nelle vetrine dell’informazione sensazionalistica, rischiano di scomparire nell’indifferenza. Ce ne parla per esempio Livio, la cui nonna è stata ospite di una casa di riposo privata: «Nonostante la retta pattuita fosse di l.500 euro al mese, più di una volta si sono verificati episodi molto spiacevoli». I ricordi si susseguono veloci: il pannolone pulito sistemato sopra quello sporco («fino a domani puoi restare così», disse l’inserviente all’anziana), i farmaci somministrati senza rispettare le prescrizioni del medico, lo stesso operatore costretto a dividersi tra la cucina e l’assistenza igienica degli ospiti. Tutto questo in soli tre giorni di permanenza: «La misura era colma, abbiamo deciso di riportare subito a casa mia nonna». «Quanti altri anziani», conclude Livio, «hanno la fortuna di avere dei parenti che tengono sotto controllo la situazione?».
Non in tutte le case di riposo si segnalano casi di questo genere, e di solito il discrimine lo fa il personale: «Abbiamo spesso incontrato uomini e donne che fanno il proprio lavoro con passione e solerzia, all’interno di strutture molto valide», ci racconta Luigi. «È vero però che, spesso, nelle strutture migliori (e in quelle pubbliche, dove la retta è più accessibile), la lista d’attesa è molto lunga: tre mesi fa ho fatto richiesta per mia madre in due diverse strutture, ma non ho ancora ricevuto risposta».
A detta di chi lavora nel settore, nella città c’è un forte sbilanciamento a favore di alcune tipologie di residenza: a fronte di un eccesso di posti nelle strutture a carattere alberghiero, c’è una carenza di posti nelle “case protette”, le cui liste d’attesa si misurano in mesi.
Anche per questo motivo i familiari finiscono per rivolgersi alle strutture private, dove l’accesso è immediato e la retta non è compensata dai sussidi pubblici. «Le case private risparmiano su tutto, soprattutto sul personale», ci dice ancora Marina, raccontandoci le sue ultime esperienze con le case di riposo. «Un mio prozio era ricoverato in questa struttura e, quando è deceduto, abbiamo scoperto che i proprietari della casa possedevano anche un’agenzia di pompe funebri». Un business che ruota attorno alla morte, dall’invecchiamento fino al funerale. Gli anziani, nel frattempo, diventano variabili di una partita economica, sospinti verso un ruolo sempre più freddo e asettico, costi e ricavi del mercato dell’assistenza: «Per i clienti della casa c’è un prezzo di favore», ammiccava l’imprenditore ai familiari sbigottiti.
Dietro alla soluzione classica delle case di riposo, spesso considerata inevitabile e per questo sempre più invadente nelle sue dimensioni, crescono timidamente realtà che stanno ideando e mettendo in pratica proposte alternative. Maria Grazia Cogliati, coordinatrice sociale dell’Azienda sanitaria, ce le racconta. «A Trieste da anni si parla di ridurre il numero degli ospiti nelle case di riposo, attraverso progetti come i “gruppi di convivenza solidale” tra anziani». In una società frammentata come quella triestina (molto più che altrove), dove i nuclei monofamiliari sono sempre più numerosi, si cercano delle alternative alle famiglie tradizionali, favorendo forme sperimentali di convivenza.
Una logica simile porta ai progetti di coabitazione possibile, in cui dei giovani possono usufruire delle case popolari in cambio di ore di volontariato negli appartamenti degli anziani. E ancora i condomini solidali, l’assistenza domiciliare (attualmente riservata a terapie specifiche) e altri progetti per ora solo teorici come l’istituzione della badante di condo. Il problema dunque, prima che sanitario, è anche sociale, come ci confida un dirigente dell’Azienda sanitaria che preferisce restare anonimo: «Nelle zone della città in cui il reddito è più basso, si verifica un picco di problemi sanitari. E lo stesso concetto vale per l’assistenza agli anziani: se mancano gli interventi strutturali sul piano sociale, le riforme sanitarie diventano dei gusci vuoti».
Nonostante le intenzioni dichiarate dagli enti pubblici, che mirano a favorire la domiciliarità piuttosto che «il ricovero e l’istituzionalizzazione di lunga durata», queste pratiche alternative sono ancora a uno stato embrionale. «L’obiettivo nella pratica è stato realizzato troppo poco rispetto alla mole di ospiti nelle case di riposo», continua Cogliati, «servirebbe un forte investimento politico e lo spostamento delle risorse dalle strutture alle persone».
«Nei primi anni 2000 organizzammo delle iniziative per portare gli anziani all’aria aperta, fuori dalle case di riposo. Alcuni di loro, nonostante vivessero a pochi passi dalle rive, non vedevano il mare da più di dieci anni». Erano prigionieri di quattro mura, nella città che – con Basaglia – per prima ha spezzato la cortina di coercizione e silenzio edificata attorno ai manicomi. Paragone non così peregrino, se la stessa Cogliati afferma che «la quotidianità nelle residenze per anziani è simile a quella degli ospedali psichiatrici, manicomi diffusi che racchiudono delle vite senza tempo». Esistenze separate, ai margini della vita sociale, che non trovano possibilità di contatto con il mondo esterno. E mentre il nostro presente immemore si illude di aver accantonato definitivamente il suo passato di segregazione e isolamento, questo invece sopravvive e riemerge in altre e nuove forme, spesso invisibili.