Mario Serenellini, il Venerdì 17/10/2014, 17 ottobre 2014
WOODY – TUTTO L’ALDILÀ CHE CI È PERMESSO È L’AMORE
PARIGI. Con l’aldilà Woody allena ha sempre giocherellato. Esorcizzandolo a colpi di battute. Tipo: «Non credo in una vita futura, ma in ogni caso porterò con me un cambio di camicie». Il nuovo film, Magic in the Moonlight, deliziosa commedia ambientata negli anni 20 nel lusso sans souci delle famiglie americane miliardarie in Costa Azzurra (che dopo aver inaugurato il Festival du Cinéma Américain a Deauvile arriverà in Italia il 4 dicembre, tre giorni dopo il 79mo compleanno del regista), si fa ancor più intrigante sul mistero del «dopo», grazie all’ironia eversiva sia rispetto agli ingenti trucchetti dell’occulto che alle saputelle certezze della ragione, cui danno corpo (e anima?) due interpreti adorabili, la lunare, argentea Emma Stone, applaudita a Venezia in Birdman, e Colin Firth, impeccabile nell’elegante fragilità della sua superiorità british.
Il film, il cinquantesimo del regista, cadenzato dall’incantevole jazz New Orleans, riavvicina magicamente Allen a noi e Allen all’aldilà. E qui ci vuole un’altra sua battuta: «Non c’è dubbio che esiste un mondo invisibile. Il problema è di sapere quanto dista dal centro e se l’orario è continuato, anche di notte... E, dopo la morte, è ancora possibile farsi una doccia?».
L’incontro con il regista – alla vigilia della partenza per New York, dove ha da montare con la consueta impazienza il prossimo film, girato quest’estate a Providence, in Rhode Island, di nuovo con Emma Stone, sua nuova musa, Joaquin Phoenix e Parker Posey – è a Parigi, nella suite 202 al Grand Hotel Bristol, suo quartier generale dai tempi di Midnight in Paris, nel cuore della gran moda francese e italiana. Minuscolo e timido, come sempre, ciuffo bianco d’antico birichino del cinema, camicia di cotone e pantaloni di tela di colori già autunnali, il grande cineasta, che Truffaut, recensendo Io e Annie, aveva definito «il pessimista allegro», s’accoccola, come in punizione, incrociando mani e gambe, sulla poltrona più vicina.
Caro Woody, la magia percorre il suo cinema come la sua infanzia, quando s’addestrava con tenacia in giochi di prestigio. Magia uguale cinema, cinema uguale aldilà?
«È vero che la magia gironzola a suo piacimento nei miei film, per esempio in Ombre e nebbia (1991). Io stesso ho fatto il mago in Scoop, con Scarlett Johansson. Da bambino, ero un accanito apprendista stregone. Trascorrevo ore e ore al giorno per imparare i trucchi del mestiere, tra palle di biliardo, monetine, carte, anelli, invidioso degli amici che avevano a disposizione mazzi di carte di peso e spessore perfetti per ogni genere di prestidigitazione. Leggevo tutto il possibile, mi affascinavano soprattutto le acrobazie manuali, come spegnere la sigaretta nella sciarpina di seta di mia madre. Prima di intraprendere la mia carriera di regista, volevo diventare un mago. In Magic in the Moonlight, ambientato in un’epoca dove erano in auge medium da strapazzo ma anche grandi maghi come Houdini o lucidi decifratori d’enigmi come Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes e attratto come pochi dall’occulto, ho voluto risvegliare questo mondo inesplicabile e sfuggente. Magico nelle sue promesse, non nella realtà. Non nella mia, comunque: sono sempre stato una vittima del realismo. Da quel che so e immagino, la magia non esiste. Peccato, vero? E i medium sono un bluff».
Emma Stone, la medium del film, è però diventata una sua cine-certezza, un bis nella prossima pellicola: è la sua nuova Scarlett Johansson?
«Emma è un’attrice meravigliosa, qui lontana dai suoi ruoli di routine nei blockbuster hollywoodiani. Avevo raccomandato al mio capo operatore di avvolgere in una luminosità radiosa i suoi occhi azzurri, i capelli rossi, la pallida pelle trasparente, facendola apparire ogni volta in una luce di latte. Come Scarlett, ha ridato linfa al mio cinema. E, fuori dal set, mi ha istruito sulle attuali magie tecnologiche, a esempio l’iPhone, che finora utilizzavo solo per le chiamate, non per le mail o il web. Sono un subtecnologico. Scrivo ancora con la mia Olympia portatile. Emma mi ha fatto capire come scaricare programmi e musiche dei miei jazzisti preferiti. Per me è stata una vera medium!».
Dai tempi di Io e Annie, ci ha abituati, in una commedia, a dialoghi che mescolano frivolo e filosofico, night & day: Sartre e Cole Porter, Kierkegaard e jazz club. Qui, qua e là, zampillano Nietzsche e Beethoven, con la sentenza: la Settima è la migliore.
«Naturalmente amo anche la Quinta e la Nona. Ma la Settima è la mia favorita, perché è quella che sprigiona più energia. Mi piace enormemente la musica classica, non solo il jazz. Non ho tempo, purtroppo, per andare all’Opera e ai concerti: li ascolto a casa. Ma tra un paio di settimane sarò, a New York, a un concerto di musiche per film italiani, tra cui quelle di Nino Rota, di cui sono un fan».
E Nietzsche, che lei ha sbeffeggiato, proponendo le «ricette del Superuomo», tra cui le crêpes Al di là del Bene e del Male, nel racconto gastro-comico Così mangiò Zarathustra?
«Nietzsche è per me una lettura stupenda. Non è uno che passa di li e incontriamo per caso, sta tra i più grandi filosofi, tra i più stimolanti. La sua visione del mondo è immensa. Certo, ci lascia un interrogativo: se la vita non ha senso, che facciamo del brodino con la pasta di lettere d’alfabeto? E poi, se Dio è morto, è tutto permesso, no? Grande abbuffata, allora, di profiteroles e anche d’ali di pollo fritte, a volontà».
La musica jazz Anni 20 zampetta sul suo film e si sente che lei ne è felice. C’è anche l’ukulele: un omaggio alla Marilyn di A qualcuno piace caldo?
«Pensi che avevo preso lezioni, quattro o cinque in un mese, per imparare a suonarlo. C’è stato un tempo in cui era molto popolare in tv, negli Usa. Ma il mio più grosso impegno musicale è stato il sassofono, per il quale non ero molto dotato, seguito dal clarinetto, dopo che a 14 anni ero rimasto fulminato da Sidney Bechet, sentito alla radio. Purtroppo non l’ho mai incontrato. Ho invece conosciuto Louis Armstrong. Ero troppo giovane, un ragazzino, rispetto ai miei miti jazz: Gerry Mulligan, Charlie Parker... È a loro che ripenso, quando, ogni lunedì, mi produco al Carlyle Hotel di Manhattan con la mia jazz band New Orleans, con la quale nel 1996 ho fatto il tour italiano ed europeo, da cui è nato il documentario Wild Man Blues. Il mio nome, Woody (il nome di nascita è Allan Stewart Königsberg, ndr) l’ho preso in prestito da uno dei miei idoli, il clarinettista Woody Herman. E ho dato un battesimo jazzistico alle mie due figlie adottive: Bechet, che ha ora 15 anni, e Manzie, di 14».
Riassumendo: magia di ieri (il jazz New Orleans, il fascino di gesti e abiti primo ’900, discorsi che evitano la chiacchiera tv del presente), ma sempre magia terrena. Niente aldilà.
«Ma ognuno di noi è in un perpetuo aldilà: anzi, in un’altalena, drammatica e struggente, tra aldilà e al di qua, cioè, come mostra Magic in the Mooonlight, tra noi e l’amore. Il protagonista s’innamora, a sua insaputa e controvoglia, proprio della medium che si era incaricato di smascherare. Eccoli, sulla bilancia, il di qua e l’aldilà. Cervello e cuore. I miei due organi preferiti: anche se, per cuore, mi riferivo ad altro. Questo è tutto l’aldilà che ci è permesso: da vivi».
Mario Serenellini