Paolo Bertinetti, La Stampa 19/10/2014, 19 ottobre 2014
IL POETA CHE RIVESTÌ LE PAROLE DI LINFA E SANGUE
Nei primi Anni Cinquanta Dylan Thomas, per sistemare le sue dissestate finanze, andò a più riprese negli Stati Uniti a tenere delle conferenze e delle letture pubbliche delle sue poesie. Dato che beveva moltissimo e c’era il rischio che non riuscisse neppure a stare in piedi sul palco, una volta, lo chiusero a chiave nella sua camera d’albergo per impedirgli di scendere al bar a riempirsi di whisky. Si calò dalla finestra. Lo trovarono più tardi, ubriaco fradicio, in un locale lì vicino.
Len Deighton, l’autore di La pratica Ipcress, sostiene che due sono le cose che distruggono uno scrittore (o almeno uno scrittore anglosassone): le lodi e l’alcol. Le lodi Dylan Thomas le aveva ricevute sin dall’uscita della sua prima raccolta di versi, 18 Poems, pubblicata ne 1934, quando aveva soltanto vent’anni. Ma soprattutto dopo la seconda raccolta, 25 Poems, del 1936, salutata con grande favore da critici e poeti, in particolare da Edith Sitwell, una delle figure più autorevoli della scena culturale inglese di quegli anni. Dietro la sua poesia si poteva scorgere l’eco dei poeti metafisici del Seicento e di Blake (con il loro legato, rispettivamente, di virtuosismi retorici affascinanti e di un quasi mistico impeto visionario). E poi l’eco del paesaggio e dell’immaginario della cultura gallese.
Dylan Thomas era infatti nato nel 1914 a Swansea, nel Galles meridionale, dove aveva frequentato la locale Grammar School (un tipo di scuola paragonabile al nostro liceo), in cui il padre insegnava inglese. Non volle andare all’università. A diciassette anni, finita la scuola, si mise a lavorare come giornalista – cosa che però non gli impedì di dedicarsi intensamente alla scrittura creativa e alla poesia. Nel 1934 aveva poi lasciato temporaneamente il Galles per trasferirsi a Londra, in coincidenza con la pubblicazione della sua prima raccolta di versi.
Le sue liriche, per la verità, suscitarono le perplessità di alcuni, sconcertati dall’ermetismo presente nel suo linguaggio. Agli occhi dei più, invece, prevalse l’ammirazione per il flusso tumultuoso di immagini, cadenze, suoni che rispondevano al rivelarsi di un’energia prorompente, vitale, come quella della natura stessa. Le parole delle sue liriche, la loro musicalità vibrante, la loro capacità di veicolare le emozioni primarie del vivere, costituivano un’alternativa stimolante rispetto a quelle dei due grandi poeti del tempo, Eliot e Auden, che pur nella loro bellezza spesso tradivano una freddezza intellettuale e un disincantato virtuosismo agli antipodi della vitalità debordante che il giovanissimo poeta dispiegava.
Allo scoppio della guerra Dylan Thomas, a causa della sua salute precaria, fu riformato. Il suo contributo alla lotta contro la Germania nazista fu di natura artistica: testi per la Bbc, che lui stesso leggeva, e cinque sceneggiature di film per una casa di produzione che faceva capo al ministero dell’Informazione. Alla fine del conflitto, a partire dall’autunno del 1945, ci fu la svolta decisa, quando la Bbc divenne il suo datore di lavoro (e la ragione principale del suo enorme successo popolare): nei successivi tre anni partecipò a più di cento trasmissioni. Il che significò due cose: fama e una seppur minimale sicurezza economica.
La sua notorietà e la sua assidua presenza sulla scena culturale inglese molto dipendevano dal successo radiofonico. Ma sicuramente importante fu anche il successo critico che accolse l’uscita di Death and Entrances, la raccolta di liriche pubblicata nel 1946; e definitiva conferma venne da In country sleep, uscito nel 1952. I giovani poeti, tra cui Allen Ginsberg lo apprezzavano molto (e Bob Dylan, che si chiama Zimmerman, cambiò il proprio cognome in suo omaggio); i critici (i molti a lui favorevoli) erano incantati dalla originale bellezza dei suoi versi; i lettori, oltre a questo, erano incantati dal «genio e sregolatezza» del suo autore. E dalla sua voce. Per questo riempivano le sale dove si esibiva.
La poesia di Dylan Thomas, che affronta i temi «elementari» della nascita, dell’amore, della morte, è caratterizzata dalla presenza quasi ossessiva del corpo, dell’insieme della sue sensazioni fisiche, dei suoi slanci emotivi, che trovano la loro incarnazione nelle parole e nelle immagini che danno vita ai suoi versi. «Tutti i pensieri e le azioni - scrisse Thomas, - provengono dal corpo. Perciò la descrizione di un pensiero o di un’azione può essere fatta riducendola al livello fisico. Ogni idea può essere tradotta nei termini del corpo, della sua carne, pelle, sangue, tendini, vene».
Questa «corporeità», che lui rintracciava nella poesia di John Donne, il grande poeta metafisico, doveva essere alla base della sua poesia. La quale però, diceva Thomas, aveva bisogno di una «schiera di immagini» che lasciava si creassero in lui «emotivamente, cozzando l’una contro l’altra», in un rapporto dialettico di costruzione e distruzione. In quel turbinio di immagini, che nel loro scontrarsi volevano corrispondere al modo di operare dei processi organici della natura, come è evidentissimo nelle sue liriche più famose, «La forza che nella verde miccia spinge il fiore», oppure «La collina delle felci», risiede la suggestione e la forza della poesia di Thomas. In quelle immagini e nell’incanto della parola, che è presente anche nelle prose, in particolare nel radiodramma Under Milk Wood, titolo tradotto in italiano come Sotto il bosco di latte («milk wood» è il nome di un albero sempreverde dal fitto fogliame).
Nell’ottobre del 1953 Dylan Thomas tornò di nuovo negli Stati Uniti, per assistere, tra l’altro alle prove di Under Milk Wood. Scese al Chelsea Hotel, in condizioni di salute alquanto precarie. Un medico, chiamato dalla sua recente amante americana, Liz Reitell, lo imbottì a più riprese di vari farmaci. Cosa che non gli impedì di passare da un bar all’altro, tra i quali un pub chiamato White Horse. Thomas si vantò di avere bevuto 18 bicchieri di whisky di fila nel locale (soltanto nove, disse poi il barista). Era la notte tra il 3 e il 4 novembre. Nel pomeriggio tornò di nuovo al White Horse con Liz Reitell. A mezzanotte fu portato in ospedale. Morì il 9 novembre; ma non per l’alcol, bensì di polmonite.
Paolo Bertinetti, La Stampa 19/10/2014