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 2014  ottobre 19 Domenica calendario

SALMAN RUSHDIE LO SCRITTORE E L’INTEGRALISTA

Nel 1993 il regista David Leveaux diresse una nuova produzione del dramma di Harold Pinter Terra di Nessuno all’Almeida Theatre, con Paul Eddington e lo stesso Pinter nei ruoli cui diedero vita in origine John Gielgud e Ralph Richardson al National Theatre nel 1975. Leveaux mi ha raccontato che durante le prove ci fu un momento in cui Paul Eddington, perplesso, chiese ad Harold di aiutarlo a capire un particolare momento del dramma, cosa cercasse il suo personaggio, in che direzione dovesse andare, quale obiettivo avesse. Harold prese il copione dalle mani di Eddington, diede un’occhiata e glielo restituì dicendo: «Dal testo non si capisce bene quale sia l’intento dell’autore». Qualche tempo dopo domandai a Harold se fosse davvero andata in questo modo. «Sì», mi rispose. «Può essere che io abbia detto così». Ma perché, gli domandai. Non sarebbe stato più semplice limitarsi a rispondere alla domanda di Eddington? «Ho scritto quel [imprecazione] dramma quasi venticinque anni fa. Che cosa [imprecazione] avrei dovuto sapere?». Del resto era noto quanto Harold fosse restio a spiegare il significato delle sue pièce, essendo consapevole che la forza di un’opera d’arte sta nella resistenza al concetto di “significato”, o quanto meno al ridurre tale significato alla semplice spiegazione verbale del “tema” di una scena, di una pièce, di una poesia o di un romanzo. A chi osava chiedergli quale fosse il “tema”, ad esempio, de Il compleanno, poteva benissimo rispondere che c’era un tizio seduto in una stanza e poi entravano altre due persone. Oppure dare alla domanda una risposta ancora più breve e se possibile più brusca.
Harold preferiva sempre il concreto e il tangibile all’astratto e al teorico. Poco dopo averlo conosciuto mi chiese de I figli della mezzanotte e può anche darsi che ne abbia elogiato la valanga di dettagli concreti ma, a quanto ricordo, disse poi che era amorfo. All’epoca nei suoi confronti nutrivo una profonda soggezione, ma biascicai in mia difesa che dietro la profusione di avvenimenti e personaggi esisteva qualcosa di definibile come una «struttura profonda». Harold sfoderò uno dei suoi celebri, terribili, scintillanti sorrisi e ripeté: «Struttura profonda. E quale sarebbe?». Fui preso dal panico e farfugliai che mi interessava il concetto wagneriano di leitmotiv, per come l’uso ripetuto di un’immagine in contesti diversi — una sputacchiera d’argento, la sagoma di una mano con l’indice puntato, il ticchettio di un orologio — potevano condurre a interessanti accumuli di significato. Ma esaurii ben presto gli argomenti. Mi ascoltavo parlare da teorico, non da romanziere. Trassi insegnamento dal sorriso crudele di Harold e in seguito mi sforzai di non ricorrere mai più a quel linguaggio da critico letterario. Se il deciso rifiuto di Pinter si colloca a un’estremità dello spettro artistico, al polo opposto troviamo i sostenitori di un punto di vista che ho sentito esprimere per la prima volta da Wim Wenders. Il regista mi disse che nella nostra epoca complessa e disorientante era importante che nel narrare storie gli artisti evitassero accuratamente l’ironia. Ormai non potevamo più permettercela. Bisognava invece essere espliciti e cristallini, così che il pubblico, o il lettore, non avesse dubbi circa gli intenti dell’artista. Era un’affermazione importante dalle labbra dell’autore del solenne e, a mio avviso, profondamente criptico, Il cielo sopra Berlino . Così in quel film, chiesi a Wenders, gli angeli Bruno Ganz e Otto Sander appollaiati sopra la città come gargolle in carne e ossa, che guardano con invidia l’umanità dabbasso, e Peter Falk nel ruolo dell’ex-angelo che ha rinunciato all’immortalità per poter vivere la vita invece di limitarsi a osservarla — quegli angeli andavano «letti» testualmente? Sì, rispose Wenders inequivocabile. Peccato, pensai.
In questo spettro io scelgo per empatia il polo di Pinter. Ma l’esigenza di spiegazioni permane. A Delhi, poco dopo la pubblicazione de I figli della mezzanotte, presentai il mio libro in un incontro pubblico alla Jawaharlal Nehru University e nello spazio riservato alle domande una ragazza si alzò e disse: «Ho letto il suo libro. È molto lungo, ma l’ho letto tutto. E la domanda che voglio farle è questa: in buona sostanza, che cosa ha voluto dire?». Prima che potessi aprire bocca aggiunse: «So cosa sta per rispondere. Che sta tutto scritto nel libro, dalla prima all’ultima frase. È questo che stava per dire, vero?». Risposi che sì, in realtà pensavo a una cosa del genere. «Non regge», replicò decisa. «È un libro molto lungo, come lei ha detto giustamente», obiettai, «deve necessariamente voler dire una sola cosa?». La ragazza fu irremovibile. «Sostanzialmente si», ribattè. Non seppi cosa rispondere allora e, a dire il vero, non ho alcuna intenzione di risponderle ora. Potrei alludere all’intreccio tra il grande mondo della storia e i piccoli mondi delle nostre vite private ma, come Bartleby, lo scrivano di Melville, preferirei evitare.
Ho sempre pensato che il lettore completi il libro, che dall’intimità tra estranei creata dall’atto di leggere emerga il libro per come è per il lettore, e che da quell’atto privato di unione nasca l’amore, l’amore per la letteratura, per la lettura, per quel particolare libro. Perché mai dovresti orientare la lettura stabilendo il significato del testo e interferire così con quella magnifica fusione di immagini mentali? Bene, perché così vogliono tutti. Non che credano necessariamente che tu sia in grado di farlo. Nelle università oggi si estrae il significato dalla bocca del libro come un dente guasto, con l’ausilio di strumenti sempre più tecnici. I metodi analitici della semiotica e dello strutturalismo e gran parte della teoria critica si basa sull’assunto che non si può più esser certi che l’autore comprenda il motivo del suo agire. Su di lui pesano molte forze sociali, intellettuali ed essenzialmente esterne ed egli non è necessariamente del tutto consapevole dell’impatto che esercitano. Per cui non chiedete a lui, chiedete a un critico. Così anche se gli autori vengono costantemente interrogati sul senso della loro opera, devono anche ammettere di non conoscerne il significato.
Tutto questo è piuttosto sconcertante. Forse dovremmo smetterla di chiedere all’autore di spiegare il significato o al critico di analizzarlo e tornare invece a goderci semplicemente il testo, leggendolo attentamente per capire che cosa vuole dire a noi, scoprire il nostro libro nel libro e stabilire cosa ne pensiamo da lettori. Riconosco di somigliare a Re Canuto quando ordinava ai flutti di ritirarsi e ricordo che lo fece per dimostrare l’inutilità del gesto, come atto di umiltà, non di arroganza. È con questo spirito che anch’io dico indietro, indietro, sapendo che la marea non si ritirerà, o lo farà quando lo vuole, e certo non perché l’ho chiesto io. Ma lo chiedo comunque.
IL LIBRO RIGA PER RIGA
A proposito dell’intreccio del grande mondo della storia con i piccoli mondi delle nostre vite private, la mia resistenza alle eccessive spiegazioni deriva in parte da ciò che accadde dopo la pubblicazione de I versi satanici nell’autunno del 1988. All’epoca i nemici del libro si accinsero con notevole successo a indicarne il significato ai loro seguaci e per molti, ancora oggi, quelle interpretazioni sono tuttora valide e spiegano perfettamente il motivo per cui il romanzo sarebbe, per così dire, marcio. Inizialmente confidavo che fosse evidente che si trattava di interpretazioni distorte e faziose e che il libro si sarebbe difeso al meglio da solo. Speravo anche che il mio passato di autore, quello che avevo scritto, quello che avevo fatto, la persona che ero stata, avrebbero rappresentato la miglior difesa contro la demonizzazione in atto del mio personaggio e delle mie motivazioni.
Ma quel modo di pensare apparteneva al passato, a prima che noi tutti nutrissimo tanto timore nei confronti della religione in generale e di una specifica religione in particolare — religione ridefinita come capacità dei fanatici religiosi di commettere violenze sulla terra nel nome del loro dio che sta nei cieli — a differenza dell’epoca in cui oggi viviamo, in cui ciò che dovrebbe essere palese sembra ormai viziato, in cui le limitate pseudo interpretazioni della religione, insite nel nuovo — o in realtà antichissimo — lessico di blasfemia e offesa, orientano sempre più il dibattito.
Nel pieno dell’attacco nei miei confronti mi sentii per un lungo periodo obbligato a reagire contro la creazione di quella falsa versione de I versi satanici fornendo le mie controspiegazioni. Era per me un esercizio odioso e spesso avevo l’impressione che la difesa quasi riga per riga del testo, che pareva necessaria, guastasse quella lettura aperta, privata, del mio romanzo che, come ogni autore, auspicavo. Fui costretto a pormi un arduo interrogativo. Se credevo, come credevo, che il lettore completa il libro e che tutte le versioni del libro, i libri che esistevano nella mente di tutti coloro che l’avevano letto, erano versioni valide, in realtà da me auspicate — allora le versioni che suscitavano tanta indignazione erano autentiche quanto quelle vive nella mente dei lettori più solidali con il libro?
Il concetto che avevo della natura dell’esperienza letteraria minava forse la mia difesa del libro? L’unica risposta cui sono pervenuto è che occorre distinguere tra giudizio e reazione. Le persone hanno il diritto di giudicare un libro con benevolenza o con durezza, nella misura che desiderano, ma nel caso in cui reagiscano con violenza o minacce di violenza, le cose cambiano, e l’interrogativo diventa: come fronteggiare le minacce? Da allora siamo alle prese con la risposta su molti fronti.
Il discorso che Harold Pinter tenne in occasione del conferimento del premio Nobel iniziava così: «Nel 1958 ho scritto che non ci sono distinzioni nette tra ciò che è reale e ciò che è irreale, tra ciò che è vero e ciò che è falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa; può essere allo stesso tempo vera e falsa. Sono convinto che queste affermazioni continuino ad avere un senso e che si possano sempre applicare all’esplorazione della realtà tramite l’arte. Come autore, dunque, le sottoscrivo ancora, mentre non posso farlo come cittadino. Come cittadino, io devo chiedermi: Cosa è vero? Cosa è falso?».
In omaggio a questa necessità di cittadino Pinter si oppose apertamente e con ardore al fanatismo, al pregiudizio, alla censura e all’abuso di potere da parte dei potenti. Nelle sue ultime pièce, politiche, Il linguaggio della montagna e Party Time, riuscì anche a dare alle proprie tesi adeguata forma drammaturgica. E certo chi di noi ha avuto la fortuna di conoscerlo sapeva, negli anni Ottanta e Novanta, che la semplice menzione del termine “America Latina” andava a innescare una filippica pinteriana. Così a volte evitavamo persino di menzionare il termine “Stati Uniti”.
Ma era sempre il linguaggio a subire il più attento scrutinio da parte di Pinter. Famoso è il suo discorso sulla scoperta di «un morbo al centro stesso del linguaggio così che la lingua diventa una messinscena permanente, un arazzo di bugie. La mutilazione cinica e spietata degli esseri umani, il degrado del corpo e della mente… sono azioni giustificate da stratagemmi retorici, terminologia sterile e fetidi concetti di potere. Mi chiedo se ci porremo mai il problema del linguaggio che usiamo. Rientra nelle nostre capacità?… La realtà resta essenzialmente al di fuori del linguaggio, distinta, ostinata, estranea, non suscettibile di descrizione? La corrispondenza precisa e vitale tra ciò che è e la percezione che ne abbiamo è impossibile? Oppure siamo costretti a usare il linguaggio solo per offuscare e distorcere la realtà — distorcere ciò che è — per distorcere ciò che accade — perché ne abbiamo paura? Credo che sia a motivo dell’uso che facciamo del linguaggio se ci siamo infilati in questa terribile trappola in cui parole come libertà, democrazia e valori cristiani sono ancora usate per giustificare politiche e azioni barbare e vergognose».
Preoccupa anche me lo scempio del linguaggio che rende possibile la nascita della tirannia. Ma, forse prevedibilmente, oggi guardo in una direzione diversa rispetto alla eloquente polemica di Harold. Perché esiste un altro linguaggio orribilmente storpiato nella nostra epoca ed è il linguaggio della religione. La lamentazione di Harold era diretta in primo luogo alla distorsione del linguaggio a opera dei poteri laici e delle maggiori superpotenze mondiali in particolare, ma tutto ciò di cui parla vale per le brutture perpetrate in tutto il mondo nel nome di questa o quella fede. È giusto dire che più di una religione merita un esame attento. Gli estremisti cristiani oggi negli Stati Uniti attaccano le libertà delle donne e i diritti omosessuali con un linguaggio che dicono derivi da Dio. Gli estremisti indù in India attaccano la libertà di espressione e cercano, letteralmente, di riscrivere la storia, proponendo cambiamenti nei libri di testo a vantaggio del loro ristretto dogmatismo zafferano.
Ma il grosso del problema risiede nel mondo dell’Islam, e in gran parte ha radice nel linguaggio ideologico di guerra e sangue che viene dal movimento salafita in seno all’Islam, sostenuto in generale dall’Arabia Saudita. Ed Husain ha scritto di recente sul New York Times: «Diciamolo chiaramente: Al Qaeda, lo Stato Islamico in Iraq e Siria, Boko Haram, al-Shabab e altri sono tutti gruppi violenti salafiti sunniti. Da cinquant’anni l’Arabia Saudita è sponsor ufficiale del salafismo sunnita in tutto il mondo. La maggioranza dei musulmani sunniti nel mondo, circa il novanta per cento della popolazione musulmana, non sono salafiti. Il salafismo è considerato troppo rigido, troppo letterale, troppo distante dall’Islam tradizionale… I salafiti ed altri fondamentalisti rappresentano il tre per cento dei musulmani nel mondo». A quel tre per cento sunnita si può forse aggiungere una percentuale di estremisti sciiti finanziati dalla rivoluzione iraniana, il cui ideologo, Ali Shariati, adattando il linguaggio marxista, ha definito la rivoluzione di Khomeini una ”rivolta contro la storia”. In questo senso sciiti e sunniti sono identici. Il nemico è la modernità stessa, con il suo linguaggio di libertà, per le donne come per gli uomini, l’accento posto sulla legittimità di governo contrapposta alla tirannia, e con la forte tendenza al laicismo e al distacco dalla religione. Il linguaggio del mondo moderno è stato preso di mira dal linguaggio deformato di radice medievale del fanatismo, sostenuto con armi moderne.
COME È COOL LA GUERRA SANTA
Questo linguaggio ha preso piede, si sente sempre di più nelle moschee e sui social media, e per certi giovani ha un fascino (jihadicool) tale da persuadere centinaia, forse migliaia di musulmani britannici a unirsi ai barbari decapitatori dell’Isis (è preoccupante che siano molto più numerosi i musulmani del Regno Unito che si uniscono ai jihadisti rispetto a quelli che si arruolano nelle forze armate britanniche). Su alcuni social network circola un sondaggio saudita secondo cui il 92 per cento degli intervistati concorda che l’Isis «si conforma ai valori dell’Islam e della legge islamica ». Se validi, questi dati rendono il tre per cento di Ed Husain un po’ troppo ottimistico. Ma anche senza tener conto di questo sondaggio, considerandolo truffaldino, è difficile non concludere che la retorica religiosa carica d’odio che dalla bocca di fanatici spietati si riversa nelle orecchie di giovani arrabbiati è diventata una nuova arma, la più pericolosa che esista oggi al mondo.
È stato coniato un termine che non mi piace affatto, “islamofobia”, per screditare chi punta il dito contro questi eccessi, tacciandolo di intolleranza. Tanto per cominciare, se a me le tue idee non piacciono devo poterlo dire, come tu devi poter dire che non ti piacciono le mie.
Le idee non si possono blindare solo perché vantano di avere al proprio fianco un qualche immaginario dio del cielo. E in secondo luogo è importante ricordare che la maggior parte di coloro che soffrono sotto il giogo del nuovo fanatismo islamico sono a loro volta musulmani. I Taliban oppressero il popolo afgano e potrebbero tornare a farlo; gli ayatollah continuano a opprimere il popolo iraniano; oggi i morti in Iraq sono quasi tutti musulmani, uccisi nel nome della loro stessa religione, ridisegnata in termini settari per consentire il loro eccidio. È giusto essere fobici nei confronti di tutto questo. Come hanno detto vari commentatori, in Iraq non vengono uccisi solo esseri umani, ma un’intera cultura. Provare avversione nei confronti di una simile forza non è intolleranza. È l’unica possibile reazione all’orrore degli eventi.
Come Harold Pinter, preferisco di gran lunga il linguaggio dell’artista, ambiguo e indiretto, che consente molteplici letture di un’opera. Ma, seguendo l’esempio di Harold, non posso, come cittadino, evitare di parlare dell’orrore del mondo in questa nuova era di caos religioso e del linguaggio che lo evoca e lo giustifica, così che i giovani, inclusi i giovani britannici, spinti verso azioni di estrema brutalità, sono convinti di combattere una guerra giusta.
© 2-014 Salman Rushdie (Traduzione di Emilia Benghi)
Salman Rushdie, la Repubblica 19/10/2014

IL TESTO
Quello pubblicato in queste pagine è il testo letto da Salman Rushdie lo scorso 9 ottobre alla British Library di Londra durante la cerimonia per la consegna del Pen Pinter Prize 2014. il riconoscimento è stato istituito dal Pen Club nel 2009 in ricordo dello scrittore e drammaturgo inglese Harold Pinter (1930-2008), premio nobel della letteratura nel 2005