Filippo Di Giacomo, il Venerdì 17/10/2014, 17 ottobre 2014
MA QUALI DIVORZIATI? I TRE QUARTI DEI CATTOLICI NEANCHE SI SPOSA
ROMA. Era la fine dello scorso luglio e come ogni estate alcuni capiredattori erano in affanno davanti ai menabò vuoti dei giornali. È così che la notizia, afferrata un po’ per i capelli, veniva fatta rimbombare sui nostri media. La diocesi di Benevento era tacciata di essere la capitale italiana delle nullità matrimoniali: «La strada preferita per archiviare definitivamente foto e bomboniere del matrimonio con l’annullamento della Sacra Rota», laicamente annotava una sagace penna femminile. Insomma, complice la collocazione geografica in quel Sannio campano, terra di furbi e chissà di quali altre connivenze clerico-occulte, la pacifica circoscrizione diocesana (14 parrocchie, per 70 mila abitanti) veniva affissa all’albo dei pubblici sospettati: durante il 2013, contro 111 divorzi statuiti dal locale tribunale civile, quello ecclesiastico aveva concesso ben 312 sentenze di nullità.
La Sacra Rota (in realtà si chiama Rota Romana), non c’entrava nulla. Come diocesi e come città, uno dei pochi privilegi che Benevento conserva del suo glorioso e millenario passato di capitale del ducato che ne portava il nome, è quello di essere ancora sede di uno dei diciannove Tribunali Ecclesiastici Regionali ai quali è deputata (dal 1938) la trattazione delle cause di nullità matrimoniali del nostro Paese. Nei tribunali della Chiesa, «la causa passa in giudicato» con il meccanismo della «doppia conforme»: perché una sentenza diventi effettiva deve essere dunque confermata da un’altra, simile, emessa da un tribunale d’appello. E Benevento, oltre che primo grado per le otto diocesi campane sottoposte alla primazia del suo arcivescovo, funge da appello per il tribunale ecclesiastico della regione abruzzese-molisana (12 diocesi, per un milione e seicentomila abitanti) e per quello della regione Puglia (19 diocesi, per più di quattro milioni di abitanti). Fatta la somma, e la tara delle approssimazioni giornalistiche, 312 ratifiche di nullità per un’utenza composta da 39 diocesi (quindi una media di 8 sentenze a diocesi) e più di sei milioni di abitanti oltre a non mettere il tribunale ecclesiastico in cima ad alcuna classifica manifestava chiaramente, anche nel centro-sud del nostro Paese, l’inefficienza della presenza strutturale ecclesiale all’interno dei conflitti esistenziali delle coppie cattoliche in crisi. Per questo Papa Francesco rompendo gli indugi, e bypassando i soloni di quelle accademie romane che sul matrimonio (la definizione è di Ratzinger ai tempi di Wojtyla) hanno costruito una «Chiesa di carta», a fine settembre ha istituto una commissione per lo studio della riforma del processo matrimoniale canonico. In realtà, la decisione è datata 27 agosto, ma per arrivare sulle pagine del bollettino stampa della Santa Sede ha impiegato un mese. In effetti un processo matrimoniale più adatto alle necessità contemporanee era già stato studiato da una laboriosa ed erudita commissione che il compianto cardinale Mario Francesco Pompedda, principe dei canonisti del dopo Concilio, aveva composto e riunito (due volte a settimana) dal 1995 al 1997, mentre era decano della Rota Romana. Del risultato di quel suo lavoro, esiste un’autorevole traccia nella prima intervista che l’allora cardinale Ratzinger rilasciò a Peter Sewald e che nel 1996 fu pubblicata nel libro Il sale della terra: un processo di un solo grado, celebrato in diocesi, con una meno sospettosa valutazione della «confessione giudiziale» delle parti in causa. La bozza di riforma però non riuscì mai ad arrivare sulla scrivania di Giovanni Paolo II e, chissà perché, neanche Papa Ratzinger se la sentì di tirare fuori dal cassetto quel testo che aveva manifestato di gradire.
Eppure l’undici febbraio del 2013, prima di scendere nella sala Clementina ad annunciare le sue dimissioni Benedetto XVI firmò il decreto che concedeva «speciali facoltà» alla Rota Romana compresa quella di deliberare con un sola sentenza, salvo appello di parte. L’abolizione della «doppia conforme» non solo ha permesso alla Rota di smaltire un arretrato gigantesco, ma ha dimostrato come con un piccolo sforzo, e il superamento di chiusure dettate più dalla presunzione che dalla dottrina, la Chiesa sarebbe ampiamente attrezzata per affrontare il dialogo con le coppie in crisi. Il problema, forse, è altrove. Il matrimonio che celebra la Chiesa si basa su una fictio juris, (dice la Treccani: «Fenomeno giuridico per il quale la norma viene applicata ad una fattispecie diversa da quella per cui era stata posta, fingendo che si siano verificati i presupposti di fatto di questa») che finge due affermazioni destinate ad essere sempre più smentite dall’evoluzione culturale: il consenso espresso con il fatidico «sì» corrisponde veramente alla volontà di chi lo pronunzia; il sacramento nasce quando si perfeziona il contratto. Una definizione del matrimonio figlia della filosofia greca e del diritto romano, ma quando nella Chiesa Cattolica l’ottanta per cento dei fedeli abita fuori dall’Occidente, che senso ha obbligarli a diventare prima greco-romani per poi poter celebrare il sacramento del matrimonio? In fondo in Europa, dal Portogallo alla Polonia, Paesi dalla forte presenza cattolica, i matrimoni hanno un tasso di fallimento che oscilla solo tra il 20 e il 22 per cento. La vera crisi, il matrimonio cattolico la conosce altrove: in Asia, Africa e anche in America latina, lì dove i fedeli nutriti da una evangelizzazione assai dinamica non amano sposarsi né in Chiesa né davanti all’ufficiale civile. I matrimoni vengono contratti solo dalle classi più agiate ed europeizzate e la stragrande maggioranza preferisce fondare la propria famiglia seguendo le tradizioni culturali del gruppo etnico di appartenenza. E anche in mancanza di un «matrimonio regolare» secondo le norme canoniche, nessuno impedisce loro di frequentare i sacramenti e di partecipare alla vita della Chiesa.
Non solo: sfogliando le raccolte di sentenze ecclesiastiche, non si trovano casi riconducibili a Paesi extra europei con forte presenza cattolica, cosa che lascia intendere che anche quando i matrimoni vanno in crisi, nelle Filippine, in Brasile, in India e in tutte le diocesi dell’Africa, le Chiese sanno risolvere i problemi senza preoccuparsi troppo che le soluzioni siano conformi ai codici e ai codicilli prodotti a Roma. Per strano che possa sembrare, questa è una realtà che la Chiesa conosce e «sopporta», dai tempi di Giovanni XXIII. All’epoca, veniva proibita l’ordinazione dei figli naturali e di quelli provenienti da famiglie separate. Tale proibizione, era poi «dirimente», impediva cioè, la loro ammissione all’episcopato, ma quando con la decolonizzazione Papa Roncalli fu obbligato a nazionalizzare clero e gerarchia in decine di Paesi emergenti, non tenne alcun conto del diritto canonico. E nelle leggi ecclesiali vigenti, per entrare in seminario non è più necessario esibire il certificato del matrimonio dei propri genitori. Forse, in Europa, per comprendere quando un rapporto sentimentale diventa sacramento, i cattolici dovranno osservare bene i cristiani che vivono «quasi alla fine del mondo»: il nuovo che avanza, parte da casa loro.