Silvio Piersanti, il Venerdì 17/10/2014, 17 ottobre 2014
LA DONNA GIAPPONESE, VERGINE E CONTENTA. MAMMA, NO
TOKYO. «Il piacere è effimero, la posizione ridicola e si paga dannatamente caro». Questa era la disdegnosa analisi dell’atto sessuale, espressa dal quarto conte di Chesterfield nel diciottesimo secolo. Sono sempre più numerose le donne giapponesi che sembrano aver fatto proprio l’amaro punto di vista dello statista inglese. All’offerta di sesso e matrimonio, molte rispondono: «No grazie, me la cavo da sola». Lo rivelano gli stupefacenti dati resi pubblici in questi giorni dal ministero della salute giapponese: il 40,1 per cento delle donne giapponesi di età tra i 20 e i 24 anni sono vergini. Hanno l’imene intatto anche il 25,5 per cento di quelle tra i 35 e i 39 anni. Estrapolando i dati ministeriali, il settimanale Shukan Post calcola che «il 30 per cento delle giapponesi attorno ai 30 anni non abbia perso la verginità». Ma è poi così strano?, si domanda il periodico.
A prima vista si direbbe di sì: molto strano. Il Paese della più lussureggiante industria pornografica del mondo, il Paese senza nessuna remora morale nei confronti del sesso, il Paese dove dilaga la prostituzione, può vantare un esercito di giovani donne vergini. Normale non è di certo, almeno agli occhi del governo che, impegnato in una strenua campagna contro la denatalità, ha accolto con grande preoccupazione i nuovi dati. Il virginity trend delle donne giapponesi appare confermato da una recente ricerca effettuata da Sagami Original, una grande azienda produttrice di preservativi (con le sue buone ragioni per essere allarmata).
Cosa provoca questa nuova ondata di astinenza sessuale e di riluttanza al vincolo matrimoniale di una donna su quattro?
La risposta che emerge dalle interviste non lascia dubbi: è la necessità di dare la priorità alla carriera sulla famiglia, se si vuole emergere vincenti contro la concorrenza maschile. Come appare chiaro nelle parole di Naoko Mikitani, 34 anni, dirigente di una ditta di Tokyo: «I tuoi genitori fanno debiti per mandarti alle dispendiose scuole d’élite per assicurarti un futuro da manager, dall’asilo al liceo, dall’università al master post-laurea. Tu gli dai sotto con lo studio, cancellando dalla tua vita vacanze, karaoke, flirt, viaggi; consegui il dottorato, vinci uno, due, tre concorsi. Finalmente stai per ottenere l’agognato posto di dirigente, ma una sera bevi un po’ più di sakè, ti fai imbambolare dalle chiacchiere di un bel ragazzo, cedi alle lusinghe di Cupido e dopo meno di un anno ti ritrovi quasi trentenne davanti ai fornelli a cucinare pasti per marito e prole. E passi dallo Chanel 5 all’odore di salsa di soya che permea tutta la casa e chi ci abita. È successo ad una mia amica coetanea che adesso, ogni volta che vado a trovarla, al momento dei saluti, non manca mai di sospirare: Beata te!».
«La mia verginità la sacrificherò tra qualche anno, quando avrò consolidato la mia posizione in ditta. E l’uomo a cui spero di donarla sarà sui 50/60 anni, pacato, senza troppi grilli per la testa, con una sua posizione sociale ben definita e che sappia sempre rispettare la mia priorità assoluta per la carriera. Figli? Non se parla neanche». Anche a K.K., 28 anni, non difetta la franchezza, ma vuole comprensibilmente mantenere l’anonimato: «Sono vergine in un senso e non lo sono in un altro. Non ho mai avuto rapporti sessuali completi con un uomo, per non avere complicazioni che avrebbero potuto sfociare in un ménage matrimoniale, mettendo in pericolo la mia carriera di fashion designer. Ma non mi sono fatta mancare nessun sex toy per soddisfare ogni mio desiderio, senza dovermi preoccupare delle conseguenze. L’uomo mi appare sempre più come un inutile ingombro. Poche sere fa, ho accettato un invito a cena da un corteggiatore. Al momento di pagare il conto mi ha detto: Dividiamo, no? Sì, certo, gli ho risposto. Allora tu mi devi 500.000 yen (circa 360 euro), ossia la metà di quello che ho speso per questo vestito, queste scarpe, questa borsa e per il parrucchiere, tutte spese fatte per venire a cena con te. Ti posso dare gli scontrini. Per un lungo attimo è rimasto senza parole, poi ha pagato tutto il conto del ristorante, ma la serata è finita sotto zero. Me ne sono tornata a casa in taxi e ho aperto il cassetto segreto dei miei giocattoli. Alla faccia di quel tirchio...».
Cosa vuol dire voler avere una famiglia per una donna in carriera giapponese, emerge drammaticamente dal racconto di Sayaka Osabake, 37 anni. «Tornata al lavoro subito dopo il mio secondo aborto spontaneo» ha raccontato Japan Times di Tokyo «le prime domande che mi sono sentita rivolgere dal capo sono state: Intende avere ancora rapporti sessuali? Vuole ancora provare a sfornare bambini? Ha ricominciato ad avere le mestruazioni? Dopo aver già perso il primo figlio per un aborto spontaneo, avevo chiesto di spostarmi di reparto per avere un lavoro meno stressante e darmi tempo di recuperare energie. La risposta che ebbi fu: Si astenga dai rapporti sessuali per due o tre anni e si concentri sul lavoro. Durante la mia seconda complicata gravidanza ero a letto per qualche giorno di riposo. Il mio capo è venuto a casa per convincermi a firmare una lettera di dimissioni perché la mia assenza stava causando problemi in ditta».
Ma il capo aveva trovato pane per i suoi denti. La battagliera Sayaka-san non solo non ha firmato alcuna lettera, ma ha portato il suo caso davanti al giudice che le ha dato pienamente ragione, condannando la ditta ad un congrue risarcimento per danni morali. E non si è fermata lì: ha fondato il Movimento Matahara (un neologismo giapponese nato dalla fusione delle parole inglesi maternity e harassment (maternità e vessazione) a cui hanno subito aderito centinaia di giovani donne che intendono intraprendere azioni legali contro i datori di lavoro». Conciliare lavoro e famiglia è difficile ovunque, ma lo è particolarmente in Giappone, dove si richiede sempre il massimo e anche di più ai propri dipendenti. Quando la moglie torna a casa, trova un marito cresciuto ed educato in famiglie e scuole radicate in un mondo maschilista, che raramente dà una mano nei lavori domestici, anche perché lui stesso toma a casa distrutto da lunghi turni di lavoro. Solo il 46 per cento delle donne mantiene il posto di lavoro dopo il primo figlio. Quindi, per più della metà delle donne lavoratrici, partorire vuol dire essere licenziate o ostracizzate. L’arrivo di un figlio, che nel mondo normalmente viene accolto con gioia dalla famiglia, in Giappone può diventare l’annuncio di una sciagura».
Lo Shukan Post narra la storia di una donna in carriera di 33 anni che, vergognandosi del suo stato virginale, lo ha tenuto nascosto per anni. Quando dopo il lavoro le capitava di scambiare due chiacchiere con le colleghe bevendo un bicchiere di sakè, se si toccava l’argomento sesso, ammutoliva, sperando che non si accorgessero del suo imbarazzo. Il giorno del suo 30° compleanno, aiutata da un giro extra di sakè, ammise davanti alle colleghe di essere ancora vergine. Si aspettava commenti di derisione ed incredulità. E invece l’inaspettata reazione fu: «E che c’è di strano? Beata te, non devi stare a litigare con il tuo capo in ufficio e con tuo marito a casa». Da allora sono passati tre anni e adesso accetta la sua verginità come una parte normale della sua esistenza e come conditio sine qua non del suo successo.
Dal virginity trend sta emergendo una donna orgogliosa di essere nubile e vergine, che rovescia le carte in tavola rispetto alle battaglie femministe per l’emancipazione sessuale.
E le poesie, le lettere, i fiori, le canzoni d’amore, la seduzione, i bambini? Per un numero sempre crescente di giapponesi sono mine vaganti sul loro cammino: attente a non pestarle.