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 2014  ottobre 17 Venerdì calendario

RITRATTO D’ARTISTA IN UN TINELLO MARRON


[Paolo Conte]

ASTI. Su Paolo Conte ci sono diverse scuole di pensiero. Una dice che il verso più bello è donna che stai entrando nella mia vita, con una valigia di perplessità, naturalmente tratta da quel gioiello jazz che è Un gelato al limon; un’altra sostiene che è invece ora convivo con un’austriaca, ci siamo comprati un tinello marron, della saga del mitico Mocambo Bar. Una corrente voterebbe per It’s wonderful, good luck my babe... chips chips chips, du du du du da Vieni via con me. Tutti, in genere, concordano che, se proprio dobbiamo cambiare l’inno nazionale, allora scegliamo Azzurro, dal momento che è già da quasi cinquant’anni quello più cantato nelle gite scolastiche, vero collante della nazione dagli anni Settanta del Novecento alla fine della Seconda repubblica. E sarebbe fantastico vedere la nazionale di calcio che finalmente sa le parole di quello che adesso solo borbotta.
Ah, dimenticavo. Ci sono anche i fan di E i ballerini aspettan su una gamba l’ultima carità di un’altra rumba, di Sudamerica. E come dargli torto.
Tutto questo per dire che Paolo Conte ha un successo colossale, da quarant’anni. Le sue canzoni non solo fanno parte della colonna sonora della nostra vita, ma continuano a provocare piacere, un piacere fisico. E se ci fosse un sondaggio: chi è il miglior cantautore italiano, credo proprio che vincerebbe lui, l’avvocato di Asti. Come riconosceva già tanti anni fa Francesco Guccini aprendo i suoi concerti: «Ci sono due Italie. Una è quella che quando si dice l’avvocato pensa a Gianni Agnelli. L’altra quella che pensa a Paolo Conte. Io sto con la seconda».
Paolo Conte ha settantasette anni ed è un vero avvocato, che ha praticato la professione per quarant’anni nel toro di Asti. Figlio di un notaio, che abitava nel centralissimo corso Dante (Asti ha una discreta monotonia nella sua toponomastica: qui si chiama tutto Vittorio Alfieri. Per il resto è nota perché il Carducci la definì repubblicana, facendole fin troppo onore. Quando ci sono andato, la settimana scorsa, il cielo era davvero nero, e infatti annunciava l’alluvione di Genova. Quella Genova per noi, quel miraggio dei provinciali che «fu davvero facile da fare; era lì, si trattava solo di dirlo»), Paolo ha conservato in corso Dante quello che era il suo studio professionale e sulla via ha lasciato la scritta Avvocato Conte, in grandi caratteri corsivi incisa nel granito.
La casa ha i pavimenti in gres, il water con la catena, l’attaccapanni in corridoio come quelli delle nostre nonne. C’è uno studio grande, pieno di medaglie, targhe, onorificenze, una sua gigantografia («Scusi il disordine, ma mia moglie non sa più dove metterle»). In quella che era la sala d’aspetto dei clienti, sullo scaffale si allineano i manuali giuridici, i massimari e alcuni deliziosi opuscoli dal titolo: La tutela del terzo nel processo esecutivo, edizioni Giuffrè; Gli onorari di avvocato e procuratore per la penna di Cesare Ruperto; Compendio e guida ai contenziosi condominiali, di Autori Vari.
Niente da fare, Paolo Conte non è proprio una rockstar; non riuscirebbe mai a mettersi un giubbotto di pelle, braccialetti ai polsi o occhiali a specchio. L’avvocato, peraltro, non si è mai concesso alla pubblicità, non va in televisione (anzi, non la guarda neanche), non salirebbe mai su un palco per una pubblica dichiarazione. Appare solo in teatro, seduto al piano, in giacca scura e bow tie. Neanche la sua faccia è mai stata quella di una rockstar. Un uomo alto e solido, ossuto, con un gran naso, una voce roca («è il caffè che è letale chiama la sigaretta»), una erre piemontese. Se lo avete visto in concerto, avrete notato come la sua faccia si contorca veramente seguendo le dita sulla tastiera; a me ha stupito invece quanto nella conversazione, per esempio di fronte a una curiosità, quel volto si possa trasformare in un’immagine di fanciullità (la stessa che aveva Pavarotti nella voce) e gli occhi possano diventare quelli di un gattone. Trent’anni fa lo colse bene Hugo Pratt, che lo disegnò a carboncino immerso nelle sue donne di fantasia, come un membro della tribù dei Corto Maltese.
Siamo a casa sua perché è uscito, dopo quattro anni di silenzio, il suo nuovo album, il numero 26 dal 1974. Si chiama Snob, sono quindici nuove canzoni minimaliste che continuano il discorso, anzi la saga; quasi fossero tanti caffè ristretti a una sola goccia bollente, accompagnati dal sontuoso arrangiamento orchestrale cui Conte ormai ci ha abituati. Ci sono una donna dal profumo di caffè, una prostituta di periferia, un camionista peruviano, pezzi di puro jazz e di ribellione, ritorna la nostalgia per il Sud America e la sua fregatura total e impareremo a stare alla larga dall’insopportabile snob con il suo champagne e patè. L’avvocato parte in tour: Legnano, Bologna, Monaco, Barcellona, Parma, Milano, Roma, Parigi, Amsterdam. L’America lo vorrebbe, ma lui non ha più voglia di lunghi viaggi aerei. E neanche di lunghi viaggi in treno. Sarà come in tutti i precedenti tour trionfali. Teatri pieni e affascinati. Per lui, prima e dopo il concerto, una passeggiata, uno spuntino in camerino, e il ritorno in albergo.
Gli chiedo di parlarmi della genesi della sua musica.
«Io vengo da una famiglia di notai, avvocati, uomini di legge. E a quei tempi, in quegli ambienti, gli interessi umanistici erano coltivati. Per esempio sia mio padre che mia madre suonavano il piano (molto meglio di me), erano patiti di tutta la musica. Erano giovani e quindi si appassionarono al jazz, anche perché era vietato sotto il fascismo e si faceva fatica a trovare un disco. E dopo la guerra, da ragazzo la ricerca del jazz per me diventò una frenesia. I dischi a 78 giri, i viaggi in Europa per andare a sentire Armstrong, Count Basie, Duke Ellington: da svenire per l’emozione. Eravamo un gruppetto, quattro gatti e facevamo un po’ di musica. Io suonavo il vibrafono. Gli scrittori americani sono venuti dopo; prima ancora ci fu il cinema. C’erano cinque cinematografi ad Asti, che davano quasi sempre delle porcate, ma ogni tanto capitava uno di quei film che ti lasciavano senza fiato. Poi i miei poeti: Dino Campana, Camillo Sbarbaro, Guido Gozzano. Poi il grande Pavese, anche se voleva fare un po’ troppo l’americano. Ma è stata soprattutto la musica. Il jazz per me era una sensazione di sensualità feroce, teatrale. È un grido che viene da un mondo di mistero, di quella gente di cui sai solo che è oppressa. Senti il jazz e poi tutte le altre canzoni ti sembrano troppo dolci. E poi non si esaurisce mai, riprende sempre il filo in mano e quando finisce è come se ci fosse stato il gong che ferma i boxeur sul ring. La musica è sempre stata la mia passione, fare l’avvocato era il mio lavoro. E l’ho fatto fino a quando la passione ha vinto la definitiva battaglia».
E così lo sconosciuto avvocato Conte, che dal silenzio del suo studio di Asti aveva scritto Azzurro, Siamo la coppia più bella del mondo, Genova per noi (per Bruno Lauzi), Insieme a te non ci sto più, per Caterina Caselli, fece la sua comparsa nell’olimpo dei cantautori, il Club Tenco. E fu uno shock. Suonava il piano e non la chitarra, portava la giacca e non il giubbotto, aveva i capelli corti.
«Il Club Tenco fu la mia prima fortuna, perché mi ospitarono in nome dell’alternatività. Allora c’era il cantautore impegnato, cosa che io non ero. Ma ero ugualmente alternativo e ho preso quell’onda favorevole. E così ho cominciato a incidere, con la Rea. E ho preso anche ad andare in pubblico. Ho fatto tanti di quei festival dell’Unità! E mi sono sempre trovato bene. Io quindi mi posso definire un cantautore, un autore cantante. Era un mondo davvero importante, con grandi personalità, musicisti colti come Guccini, che è anche un professore e uno scrittore. Lui divideva la musica in due: da ballo o da cantastorie. Scelse l’epica. Fabrizio De André, molto dotato, che portò in Italia la grande scuola di Georges Brassens. E cantanti di grande sincerità. Penso per esempio alla forza di Caterina Caselli; io le dicevo: “Sei bravissima, canti come una lavandaia”. Ma più di tutti, l’Italia ha avuto Enzo Jannacci. Lui è il padre assoluto, è uno che ha annusato in profondo, è andato alle radici della musica antica e l’ha difesa; ha introdotto parole realistiche, non si è mai posto problemi dichiarativi, è entrato da musicista e ha regalato una purezza da far stringere il cuore».
Eventi che hanno influito sulla sua musica?
«No, non me ne vengono in mente. Io arrivo dalla provincia, ma mi sono sempre sentito cittadino del mondo. Ho cantato di liguri e piemontesi, due razze simili, gente ritrosa, ma non mi sono mai divertito a fare il paesaggista o il bozzettista. La provincia per me è stata la vicinanza con la città, ma anche l’attrazione per Parigi, questo suo contenere tutto. Non sono però mai stato attratto dalle masse, anzi proprio non riesco a trovarci niente di buono. Sono invece attratto dalle mescolanze, dal meticciato, ho sempre invidiato alla Francia la sua immigrazione, quando noi non ce l’avevamo. Ma il mio contatto con il mondo reale è venuto soprattutto dalla professione. Fare l’avvocato ti mette a contatto con le persone semplici, i loro sbagli, le loro passioni. Io da avvocato ho fatto anche il curatore di fallimenti e nelle mie canzoni c’è molto spesso la mia solidarietà per il genere umano. Come quel tipo che nei tempi del dopoguerra aveva tentato di fare un gran colpo, aprire un bar grosso, pretenzioso, spatuss, come diciamo noi, con un nome esotico, Mocambo, e naturalmente fallisce. E dice, “il curatore è un buon diavolo, oggi mi ha offerto il caffè”. Mi fa piacere pensare che quel curatore ero io». Mi racconta Azzurro? Era un’altra Italia? Oggi la scriverebbe diversa?
«Azzurro è nata in due tempi. La musica, prima, che mi tenevo nel cassetto da un paio d’anni. Poi, il testo è venuto fuori di getto, in una notte di marzo, fredda e con la pioggia, pensando all’estate. Il suo successo è dovuto, secondo me, a tre fattori. Il primo è che è molto orecchiabile e facile, ha qualcosa di antico, con immagini che appartengono alla vita di tutti. La solitudine, la nostalgia, la lunghezza di certi pomeriggi. Il secondo è che ha un tempo di marcia, e quindi nel subconscio favorisce un gruppo, uno stare insieme, un’appartenenza solidale. La terza è che l’ha cantata Celentano, che è grandissimo, perché senti che la sua è una voce che appartiene al popolo, una voce che cerca la verità, senza diaframmi. Oggi non cambierei una virgola. In effetti è una canzone nazionale, anche se ora l’idea di Italia unita è messa in discussione. Certo molto è cambiato, io per esempio mi trovo a disagio con la tecnologia, non ho telefonino, mi sembra che queste cose abbiano fatto perdere qualità di vita più di quanto abbiano dato. Ma questo è solo perché sono un tradizionalista benpensante».
Lei ha fatto l’avvocato tutta la vita. Che idea si è fatto della giustizia?
«Prima di tutto devo dire che, purtroppo, molte cause le ho anche perse. Sempre con stile, però. Riconosco che è difficile fare il giudice, è capitato anche me quando ho fatto il giudice popolare. I giudici purtroppo trovano più facile condannare che assolvere. Io invece tenderei ad assolvere. Sono proprio un garantista assoluto. È il mio modo di difendere anche la libertà. La libertà è il più grande desiderio dell’uomo».
Cos’è la felicità, per lei?
«Ci penso spesso, ho scoperto che in realtà si pensa più ai sintomi della felicità, che cosa ti può provocare, che non alla sua essenza. Credo che questa sia lo stato di giungla, la magia primitiva. So che è una stupidaggine, però quando vai allo zoo sulla gabbia del leone c’è scritto “Felix Leo”, che naturalmente vuol dire felino, ma a me ha sempre fatto pensare all’animale libero. La felicità non è uno stato intellettuale, è quella cosa lì, del leone».
Come ha reagito al successo?
«Con sorpresa, con gratitudine. Non l’ho mai desiderato, ma mi piace che sia una ricompensa per l’essere stato un buon artigiano. Devo molto ai cantautori che mi hanno ospitato e ai francesi, che mi hanno scoperto e mi hanno aperto le porte. È strano, i francesi di cui abbiamo sempre un po’ soggezione, per la loro grandeur. È curioso, ho molto successo all’estero e quasi sempre il pubblico non capisce le parole. Credo che li sia perché vince la musica, la fantasia. Però è strano: i francesi credono di capire tutte le parole, ma secondo me fanno finta; i tedeschi sono più precisi, si documentano prima. Ma in realtà credo che i concerti, quel tipo di orchestra, il pianoforte, comunichino una strana sensazione di piacere. Io, per me, ho imparato che la prima regola è non annoiare, non sbrodolare. Le canzoni devono essere brevi, le parole poche. Io faccio un gran lavoro di gomma, tolgo, tolgo in continuazione».
Mi parli della Donna nelle sue canzoni.
«È l’enorme fascino che su di me esercitano, l’attrazione che esercita il totalmente diverso, è il loro mistero, di cui vorrei essere messo a parte. Vengo da una generazione in cui tra uomini e donne c’erano molti tabù, difficoltà di comunicazione. Le mie canzoni credo li riflettano, insieme a una galanteria amatoria, un essere cavaliere che mi viene molto spontaneo. È strano, una volta ai miei concerti venivano soprattutto uomini, credo che vedessero in me un difensore della loro solitudine nei confronti della donna, il non essere capiti dalle donne. Adesso, la maggioranza del mio pubblico sono donne. E ne sono proprio contento».
Come si vede adesso?
«Bene, spero di tener duro con la salute. Ho una moglie adorabile, non abbiamo figli, viviamo in campagna perché sono un vecchio orso. Abbiamo due cani anziani, purtroppo i miei amici non ci sono più, ma ho i miei hobby, gli arrangiamenti musicali, che mi aiutano a passare il tempo. Sono una persona felice, e me lo merito. Perché ho lavorato molto».
Enrico Deaglio