Marco Vallora, La Stampa 18/10/2014, 18 ottobre 2014
Il vitalista decadente che mise Nietzsche sulle tele Tra divisionismo e simbolismo a Milano ritorna il maestro trentino di fine Ottocento capace di influenzare anche De Chirico Marco Vallora Orfano precocissimo, sbandato, malamato, accolto da un fratellastro distratto in una bottega di ritocco fotografico (che molto influenzerà il suo sguardo «grafico») nutrito di cultura lombarda e scapigliata, talento nativo ed apolide per destino, il trentino-svizzero- austriaco Segantini, che non era nulla di queste cose, in quel momento drammatico di disgregazione dell’Impero austro-ungarico non conosceva davvero l’italiano
Il vitalista decadente che mise Nietzsche sulle tele Tra divisionismo e simbolismo a Milano ritorna il maestro trentino di fine Ottocento capace di influenzare anche De Chirico Marco Vallora Orfano precocissimo, sbandato, malamato, accolto da un fratellastro distratto in una bottega di ritocco fotografico (che molto influenzerà il suo sguardo «grafico») nutrito di cultura lombarda e scapigliata, talento nativo ed apolide per destino, il trentino-svizzero- austriaco Segantini, che non era nulla di queste cose, in quel momento drammatico di disgregazione dell’Impero austro-ungarico non conosceva davvero l’italiano. Lo storpiava con genialità espressionistica e parlava più volentieri il tedesco. Ascoltiamolo, nella sua eccitata sgrammaticatura esplosiva: «L’arte moderna deve dare delle sensazioni nuove, perciò ci vuole nervi di finissima delicatezza che radopino le più lievi impressioni». Quando declina questo «decalogo», probabilmente non sa e non si cura nemmeno di sapere che altrove sta scoppiando una rivoluzione impressionista. Lui che è colto ma come imbozzolato nel proprio mondo isolato e non può viaggiare, causa quel suo vagheggiato possesso d’un passaporto «dismesso». Secondo la curatrice Quinsac di questa finalmente completa mostra su di lui, riparatore «Ritorno a Milano», tale distacco solipsistico è quasi un atout, perché il «non contatto» con lo Zeitgeist del suo mondo «lo porta a sviluppi del tutto personali». Ma come possiamo non rimanere colpiti da quei «nervi di finissima delicatezza», che devono «raddoppiare», moltiplicare e far vibrare, le più «lievi impressioni», che la realtà sottopone? Qualcosa che va al di là della prosaica «poesia del vero», cara anche alla sua poetica d’esordio, quando lo vediamo levitare, disegnatore provetto, dallo schizzo innamorato del naturale, di quella rubiconda Ninetta del Verzé. Li conosce bene, i suoi nervi sensibili e nevropatici. Ma li usa appunto come un sensore, una vibrissa pittorica, che va al di là della sterile abitudinarietà riproduttiva . «Sotto il pennello la gamma deve scorrere smaliante e deve far nascere gli oggetti le persone le linie». Non esiste una realtà in sé, prima della mimesi pittorica: è la linia che fa sorgere figure e paesaggi. «Il vero cosidetto si deve oltrepassare, la pasione febriccitante dell’Arte deve involgere tutto d’un interno tremito». È una confessione dolorosa e dolorante, ove l’Arte con maiuscola, il Credo dell’Arte, si pone quale medium di veggenza e di oltrepassamento nicciano del «cosiddetto» reale umano troppo umano, come transustanziazione laica ed ebbra del vituperato Sacro cristiano. «La nervosa commozione che prova l’artista», l’artista-sacerdote e Vate, deve saperla comunicare al mondo, stregato ed orante. L’Artista colto dalla febbre morbosa del Bello deve riuscire a sostituire alla Fede questa nuova fede dell’Oltre (e lo dimostrano bene i suoi Autoritratti, che ci accolgono ad inizio-mostra). È la via in fibrillazione della sua adesione al credo «scientifico» del Divisionismo: che lui declina però in un modo molto diverso da quello chimico-razionale ed ottico del Pointillisme francese. Per lui, più della religione dello sguardo e della percezione, è importante la serpentinata possanza simbolica della Vita e del Vitalismo decadente. I suoi coltivatori di patate non sono poi così lontani da quelli del «predicatore» Van Gogh, anche se Segantini pare pescare molto di più da Millet e Toorop e, in certi profili di scaricatori, da Dorè o Daumier. Altro che non aver visto! È quel cedimento al Simbolismo internazionale e «todesco», che farà indignare il nazionalista e sordo-ingrato Boccioni, che pure sappiamo esser nato divisionista: «Segantini ignorantissimo, circondato da tedescherie, posa a gran sacerdote di una nuova religione della natura e piano piano sdrucciola dagli azzurri ghiacciai italiani alla sterile bassura germanica». Macché scientificità, Segantini è ben chiaro: «La vita deve essere dappertutto, la fatica non deve essere». Non si deve avvertire lo zelo diligente del pennello descrittore, ma l’«involgente tremito» della totalità trascinante. Altro che spettro ottico-analitico! «Davanti all’osservatore tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di Vita vera vita palpitante». «Insomma io non voglio che nel quadro si veda la fatica poverile dell’uomo», ch’era il suo modo di tradurre Nietzsche in pennellata. «Voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore». E per fortuna che incontra la Natura! Lo dimostra anche questa mostra: a parte l’influsso di Magnasco, per un baffo di pittura sacra, che bamboleggio all’inizio! e che vagare, tra bozzettismo macchiaiolo e galoppi fattoriani, in quel boldineggio vacuo dei Sorrisi di donna. Ma ecco che, appena giunge alla fonte di natura, ed incontra l’incanto dei Grigioni, la pittura si solleva e trova la sua strada (potremmo dire ch’egli porta finalmente i prodigi di sprezzatura nevrile, delle spatolate alla Boldini, tra le sue malghe e le ossigenate verità alpine). E si fa subito maestro: di Mancini, Spadini, persino di De Chirico. Passa un treno alla Turner, la pittura s’illivida, sulle zucche, i bambini si terrorizzano, ma non c’è più bozzettismo carducciano. È ormai pura folata di pura pittura. Sino al contorto simbolismo grisaille delle Cattive Madri, al suo disperato progetto interrotto del Panorama d’Engadina, così ben evocato da Pietro Bellasi nel raccomandabile catalogo Skira.