Elena Pontiggia, La Stampa 18/10/2014, 18 ottobre 2014
Tra dipinti e disegni la fatica di vivere 50 opere ripercorrono il legame dell’artista con la natura e ne fanno capire la grandezza Elena Pontiggia Chiariamo subito una cosa
Tra dipinti e disegni la fatica di vivere 50 opere ripercorrono il legame dell’artista con la natura e ne fanno capire la grandezza Elena Pontiggia Chiariamo subito una cosa. La mostra «Van Gogh. L’uomo e la terra», che si apre oggi a Palazzo Reale, non vuole essere una mostra «completa» su Van Gogh, né avrebbe potuto esserlo. Se uno va a vederla aspettandosi di trovare le opere più famose dell’artista, i girasoli, gli iris, e via dicendo cioè quelle opere che si vedono anche nella pubblicità forse potrebbe rimanere deluso. Eppure il ritorno di Van Gogh al milanese Palazzo Reale a 61 anni dalla celebre retrospettiva del 1953 (oggi sarebbe impossibile realizzarla) è ricco di motivi di interesse e permette di approfondire un momento importante del suo percorso artistico. Quello che la mostra propone lo annuncia già il titolo: punta sulle opere del Van Gogh giovane e su quelle della maturità legate al tema della terra. Paesaggi e nature morte, in gran parte. Come terra, qui si intende l’alma mater, la terra che dà nutrimento (tema anche dell’Expo 2015). Il primo dipinto è l’Autoritratto, piccolo e quasi sperduto, con cui la mostra si apre. È un’opera tutta impostata sulla tecnica puntinista, ripresa da Seurat. Van Gogh era arrivato a Parigi nel 1886, a trentatré anni, e aveva subito compreso gli orientamenti più vitali del momento. Per lui, però, la stesura a punti e lineette non è un modo per illuminare il quadro, ma i sentimenti dell’io. «Ho cercato di esprimere col rosso e col verde le terribili passioni umane» scrive una volta al fratello Theo. È una dichiarazione di poetica emblematica. Van Gogh sta dicendo che la pittura è troppo importante per lasciarla ai pittori. Anche lui, come molti artisti della sua epoca, ragiona sulle leggi scientifiche della tavolozza: il rosso e il verde di cui scrive al fratello sono, non a caso, colori complementari. Capisce però che consultare le scale cromatiche o le grammatiche del disegno, come dipingere all’aria aperta o in studio, usare le gamme delle terre o quelle dell’arcobaleno, adoprare il chiaroscuro o le ombre azzurre, sono scelte stilistiche che hanno poca importanza, se poi la pittura non esprime la bellezza e la drammaticità della vita. Van Gogh è stato definito post-impressionista, perché supera la stagione di Monet e compagni, e pre-espressionista, perché anticipa l’epoca dei fauves e della Brücke. Ma lui non era né pre né post. Era un pittore che si interrogava sull’esistenza: non un esistenzialista, intendiamoci, ma un pittore-filosofo. Dopo l’Autoritratto la mostra - che comprende circa cinquanta opere, provenienti quasi tutte dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, oltre a un gruppo di lettere del Museo Van Gogh di Amsterdam– presenta una serie di disegni e di quadri giovanili dell’artista, segnati dall’influsso di Millet. I contadini al lavoro nei campi, o fermi in un ritratto, esibiscono con dignità e perfino con fierezza la loro grama sorte, i volti neri come la terra che coltivano. Van Gogh trova in loro il suo soggetto preferito, quello che ripete con maggior ostinazione. «Zappatori, seminatori, aratori: ora devo disegnarli continuamente. Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino» scrive ancora a Theo. Van Gogh non cerca particolari pittoreschi, scene bucoliche di maniera, pastorellerie edulcorate. Davanti a quegli uomini e a quelle donne si chiede prima di tutto che destino hanno. Non sono un «motivo» da dipingere, sono un motivo per pensare. Ma continuiamo a seguire il percorso espositivo. Dopo una serie di ritratti, tra cui una versione del Postino Roulin che, visto un po’ dal basso e circondato da un’aureola di fiori, sembra imponente come una divinità, ecco una sequenza di nature morte. Che sono, soprattutto le più tarde, nature vive, disposte in uno spazio inquieto e pericolante. Ed ecco, ancora, i paesaggi, sempre sul tema della terra, con gli agitati e roteanti Covoni che chiudono la mostra. Paesaggio, etimologicamente, deriva dalla radice «pak», la stessa di «pace», ma in Van Gogh nulla è pacifico. Campi e prati, divorati dal sole, sono carichi di trasalimenti e di tensioni. Le nostre. Van Gogh è uno di quegli artisti che non sono pittori, ma leggende. I requisiti da romanzo in lui c’erano tutti: il suo giovanile rapporto con una prostituta, l’apostolato presso i poveri e i minatori del Borinage, la miseria (anche se non tanta come si è detto), il dissidio con Gauguin che lo spinge al gesto estremo di tagliarsi un orecchio. E poi la pazzia e il suicidio. E’ invece un merito della mostra, col suo tema prosaico e antiretorico, farci dimenticare il Van Gogh tragicamente aneddotico che piace alla gente per restituirci un Van Gogh solo, splendidamente, pittore.