Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
DALLA NAZIONALE ALL’IS. NIDHAL, L’ASSO DEL CALCIO CADUTO PER IL CALIFFATO
L’abbraccio delle vergini, il premio per i martiri caduti nel nome di Dio, è stato una tentazione più forte della festa dei compagni dopo il goal. Nidhal Selmi aveva scelto: alla maglietta rossa che lo identificava come giovanissima promessa della nazionale tunisina aveva preferito la mimetica, la cuffia bianca di preghiera, e naturalmente il kalashnikov, imbracciato con orgoglio nelle ultime foto inviate ai familiari. Nelle stesse ore in cui gli ex compagni battevano la squadra del Senegal, dalla Siria arrivava la conferma che Nidhal era caduto a vent’anni combattendo in Siria “contro gli infedeli”.
Nidhal è uno dei tanti giovani tunisini che hanno risposto al richiamo della Jihad. A vent’anni era considerato un astro nascente della nazionale e della Stella del Sahel, poi è arrivata la svolta: sul suo profilo Facebook, al posto del suo viso con la barbetta rada è comparsa la bandiera nera con la Shahada, i versetti della dichiarazione di fede islamica. Poi, invece delle immagini delle auto di grossa cilindrata per cui Nidhal andava pazzo, è comparsa l’immagine di una zona della Siria controllata dai jihadisti. Ad aprile è arrivata la conferma: il giovane aveva scelto il gruppo integralista che si fa definire Stato islamico, era diventato uno dei tanti ragazzi tunisini votati all’integralismo.
Con Nidhal c’era anche suo fratello Rayan: secondo una testimonianza raccolta da Sousse, città natale del ragazzo, anche questo giovane è caduto nei giorni scorsi combattendo contro le truppe di Bashar Assad. Chi si è avvicinato alla casa di famiglia dopo la conferma delle notizie siriane racconta di aver sentito pianti e urla strazianti.
Sono almeno tremila i tunisini che hanno seguito il richiamo della jihad e sono partiti per combattere sotto la bandiera nera in Siria e Iraq, sia con l’Is che con il fronte Al Nusra. Tre volte tanto, secondo fonti governative, sono gli aspiranti a cui le autorità tunisine hanno impedito la partenza. E almeno 250 sono invece i jihadisti rientrati in patria. Un problema non da poco per la repubblica mediterranea, dove per il momento la minaccia terroristica sembrava limitata ai gruppi rifugiati nelle montagne di Kef, vicino al confine algerino. L’attività di questi gruppi si limitava a qualche attacco contro la polizia nei villaggi vicini. Nelle città e sulle coste, zone meno esposte all’influenza qaedista, la presenza dell’islam radicale si limitava a gruppi salafisti. Ma adesso l’enorme spazio di reclutamento, e allo stesso tempo la presenza di un robusto nucleo di reduci dotati di addestramento militare, anche se sono seguiti passo passo dalla polizia, autorizzano qualche preoccupazione.
Il meccanismo del reclutamento si basa sulla predicazione di tunisini che erano in carcere ai tempi di Ben Ali, o magari erano all’estero, e hanno un’idea di jihad tutta loro, basata sulla violenza e sulla sopraffazione. «Sono come la mafia », taglia corto Mohamed Iqbel Ben Rejeb, che per recuperare il fratello Hamza, disabile e aspirante martire, ha fondato una “Associazione di salvataggio per tunisini intrappolati all’estero”. Chi ritorna dai campi di battaglia in Iraq e in Siria non racconta nemmeno dove sono caduti i compatrioti, dice Ben Rejeb, per via delle minacce e del senso di lealtà al gruppo. Ma per qualche motivo i tunisini sembrano essere le truppe più facili da spendere, carne da cannone di poco valore, «come i pedoni negli scacchi».
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