Pietro Colaprico, la Repubblica 18/10/2014, 18 ottobre 2014
«SONO ANDATO A LOURDES E LI’ HO DECISO DI LASCIARE»
Un viaggio a Lourdes, prima delle dimissioni da magistrato. Un viaggio per cercare, attraverso la fede e la preghiera, il se stesso più profondo e «aiutarsi » a scegliere di fare, come dice lui alle persone che gli sono state più vicine, «la cosa giusta». Giusta: da quale punto di vista?
Non dal punto di vista dei propri vantaggi o svantaggi, questo pare evidente in chi conosce questo giudice tutto d’un pezzo che, quindici mesi prima della pensione, decide di lasciare la toga e di andarsene in pensione. E lo fa appena dopo il deposito delle motivazioni sul perché Silvio Berlusconi sia stato assolto dai reati di concussione e prostituzione minorile.
«La mia - confida Tranfa ai colleghi che conosce - è stata una decisione solitaria, maturata a lungo, meditata, che solo io potevo prendere, e senza chiedere consigli a nessuno. So che c’è chi mi avrebbe detto: “Stai attento alle conseguenze” e chi mi avrebbe chiesto: “Sei proprio sicuro?”. Chi avrebbe approvato e chi no. Ma nessuno è indispensabile e non ho bisogno di sentire gli altri quando devo sentirmi in pace con me stesso».
Questo «essere in pace con se stesso», nel cuore di un giudice di 69 anni, entrato in carriera nel 1975, e di un credente che stava nell’Azione cattolica, non può essere banalizzato o sottovalutato. Ieri, appena la notizia data dal Corriere della Sera s’è diffusa nel palazzo di giustizia, tra i magistrati c’era chi si chiedeva: «Ma se era contrario, perché non ha inchiodato i due in camera di consiglio per giorni e giorni? Era il presidente, poteva dire: “Convincetemi” ». E chi storceva il viso: «Andarsene senza spiegare non è istituzionale». Eppure, è quel «in pace con me stesso» che, senza spiegare nulla, si spiegano molte cose: «Non volevo e non voglio fare polemiche, non cercavo e non cerco popolarità. Anzi, vorrei proprio scomparire. Ho dato le dimissioni, punto. Ognuno pensi ciò che vuole. E comunque non intendo dire nulla, se non che non ho agito d’impulso», ripete agli amici.
Le dimissioni sono un gesto secco e netto in contrasto - Tranfa non l’ha smentito - con le motivazioni della sentenza. Il contrasto era nato durante le udienze e forse non era un caso che il procuratore generale Piero De Petris, quando parlava a braccio e chiedeva la conferma nel processo d’appello dei sette anni di carcere per Silvio Berlusconi, osservasse i giudici, uno per uno, esortandoli a «guardare tutti i tasselli » della vicenda. Forse non era un caso che Tranfa, alla fine della requisitoria, apparisse provato e «tirato» in volto: per uno come lui, era molto significativo il comportamento dei poliziotti, comportamento corretto che cambia dopo la telefonata di Silvio Berlusconi. E da uomo di famiglia, trovava (e trova) sconcertante che una minorenne «Qui si dimentica che abbiamo a che fare con una minorenne», ripeteva Tranfa - fosse andata a finire proprio là dove un magistrato, Anna Maria Fiorillo, aveva ordinato che non andasse, e cioè nel bilocale ammezzato in periferia di una prostituta brasiliana.
«Non ci vuole una zingara per capire com’è andata quella notte in questura», sono le parole Tranfa ai suoi amici. Ma non l’hanno pensata come lui Concetta Lo Curto, giudice estensore della sentenza, e Alberto Puccinelli, consigliere.
Ora, per onore di verità, bisogna dire che il reato di concussione basato sulla telefonata ha spesso avuto visioni discordanti tra magistrati, avvocati, giornalisti. E se in primo grado è stata vista in pieno la «costrizione» subita dai poliziotti, in secondo grado ci può stare che possa esistere un’altra visione. Tranfa, però, appare granitico: «Ognuno può leggere le motivazioni e può trarre in ogni sede le sue conclusioni, quanto a me - ripete ai colleghi ho deciso di essere in pace con me stesso».
Ieri si è tentato di parlare con gli altri due giudici, anche informalmente, ma erano non rintracciabili. Vengono descritti «basiti», «costernati». Che ci fossero stati i contrasti nella decisione di assolvere l’imputato Berlusconi lo sapevano bene. Che il presidente non avesse digerito il modo in cui tutta la responsabilità venisse scaricata su Pietro Ostuni e sul suo presunto «timore reverenziale» era loro noto. Così come che per il presidente il comportamento dei poliziotti, nell’interrogatorio da parte di Ilda Boccassini e Antonio Sangermano, rivelasse poca collaborazione: quei «non ricordo», le menzogne, le spiegazioni poco logiche andavano pesati con enorme attenzione. Ed per chiunque conosca l’esperienza e la bravura di alcuni ispettori delle volanti è davvero difficile immaginare che non sapessero quello che stavano facendo con Ruby: ci sarebbero potuti arrivare osservando ebbene, è proprio così - solo le facce e gli atteggiamenti delle protagoniste della nottata. Tutto ciò bolliva dietro le quinte, in segreto, finché ieri è deflagrato con le inattese dimissioni.
Che Tranfa non ha comunicato a nessuno. Non alla presidente Livia Pomodoro. Non al procuratore capo Bruti Liberati. L’unico che lo sapeva, a tarda sera, era il presidente della corte d’appello, Giovanni Canzio. Tranfa voleva e vuole davvero «stare in pace» facendo «la cosa giusta».
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Enrico Tranfa (al centro) ha presieduto il collegio della Corte d’appello che il 18 luglio scorso ha assolto Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Tranfa, 70 anni, originario di Ceppaloni (Benevento) è entrato in magistratura nel ’75. I giudici a latere del processo Ruby sono Alberto Puccinelli, 54 anni, che ha svolto il ruolo di relatore, e Concetta Locurto, 51 anni, che ha redatto le motivazioni della sentenza depositate giovedì scorso