Giovanni Montanaro, Corriere della Sera 18/10/2014, 18 ottobre 2014
I CAMPI COLOR CAFFE’, POI GLI ALBERI BLU. NELLE CAMPAGNE PER CERCARE SE STESSO
È solo un ragazzo di ventisei anni, i capelli rossicci, gli occhi azzurro pallido, i vestiti laceri, stanchi. È scontroso e disoccupato. Ha un curriculum non dei migliori. L’hanno licenziato da una scuola elementare perché è incapace di incassare le rette dalle famiglie degli alunni. L’hanno allontanato dalla galleria d’arte dello zio perché sconsiglia di comprare i quadri che vende, che non gli piacciono. Ha ottenuto un contratto a termine, di sei mesi, per predicare nel Borinage, la zona mineraria del Belgio. Non gli viene rinnovato; non sta bene che un pastore venda i suoi beni, dorma sul pavimento, si cosparga la faccia di cenere per somigliare a quelli che riemergono la sera da sottoterra.
È il marzo del 1880 e Vincent van Gogh si mette a camminare. È il suo modo per mettere in ordine le idee. Niente di strano. A chi non capita, ogni tanto, di voler solo uscire, anche senza darsi una meta. Solo per far camminare un po’ tutti i dolori, i dispiaceri, le domande, le cose che non si capisce ancora che posto hanno nella vita. Che poi si arriva in un punto, e si sente che si deve tornare. E così va a finire che si decide la casa, il posto dove si deve stare. È che Van Gogh è fatto a modo suo, esce e cammina per ottanta chilometri. Va verso Courrières, in Francia, dove vive Jules Breton, un paesaggista vivido ma di maniera. Van Gogh ha sempre amato quello che lui stesso chiama «il paese dei quadri». Non sa ancora che finirà per abitarci; non ha mai dipinto nulla, solo qualche acquerello. Ma le sue torrenziali lettere ai familiari si interrompono spesso; quando le parole non gli bastano, fa un disegno.
Così, scrivendo a Theo del 24 ottobre 1880 ricorda quel pellegrinaggio decisivo. La piana è inospitale, brulla, ma la neve si sta ritirando, escono i colori. La terra è color caffè, più chiara di quella che conosce lui. Il cielo si fa terso, allontanandosi dal carbone. Ci sono campi giallo-verdi, pruno e torba. Van Gogh bivacca dentro le carrozze o, più spesso, all’addiaccio. Le case sono rare. Le persone povere. Quando arriva allo studio di Breton, si ferma.
Certo, raggiungere la meta, arrivare all’appuntamento, mette sempre paura, che tutto finisca, di non sapere cosa fare, di non essere all’altezza. Ma per Vincent è soprattutto una delusione. Scruta l’edificio; nuovo, geometrico, pulito, le finestre chiuse, banale. No, l’arte non abita lì. Van Gogh torna indietro. È fatto a modo suo: ottanta chilometri per andare da Breton e neanche lo saluta. Ma è intorno a quella passeggiata, nel quel lungo periodo — quasi un anno — di cui si sa poco o nulla della sua vita, che Van Gogh scriverà a Theo: «Riprenderò in mano la matita». Diventerà pittore. È una svolta dolorosa; trovare se stesso lo condanna per sempre, alla povertà, alla solitudine. Al colore. In qualche modo, preferisce la natura allo studio di Breton, e capisce che l’arte sta dappertutto, che gli alberi invecchiano e dicono come gli uomini, e le radici possono essere blu, se gonfie di vita, e le case gialle, quando sono spaventate. Dipende da chi le vede. Vincent non smetterà mai di camminare.
Cambierà spesso modo di dipingere; cambierà lui e, insieme, quel che ha intorno. Per dire, solo nella campagna di Arles troverà i colori che ha sempre cercato davvero, quella luce calda che al Nord non esiste. E solo dopo il manicomio di Saint-Rémy sentirà davvero il tempo, vedrà che il suo cielo si è riempito di corvi. Ma questo è, in fondo, Vincent van Gogh. Che dipinga un girasole o un ramo di mandorlo, il vuoto di una sedia o il volto di una donna, c’è sempre lui. E, chissà come è possibile, ci siamo sempre anche noi.