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 2014  ottobre 18 Sabato calendario

VAN GOGH TERRA MIA

«I contadini e i pescatori dei piccoli paesi, ovunque si vada, sono diversi. Ricordano la terra, a volte sembra che ne siano plasmati». In quel fluviale dialogo scritto che per tutta la vita lo legò al fratello Theo, Vincent Van Gogh tracciò una metafisica del lavoro rurale che non è mai identificazione. I contadini che descriveva, dipingeva, frequentava nei soggiorni nella campagna del Brabante e poi della Francia, erano altro da sé : erano oggetto di ammirazione, studio, ascolto.
Erano un approdo spirituale: è nella vita nei campi che si nasconde l’intima natura della purezza da raggiungere. È questo il filo che cuce le 47 opere in mostra da oggi a Palazzo Reale in Van Gogh. L’uomo e la terra , un progetto che mette in scena uno degli aspetti più profondi dell’olandese. «Una visione spirituale della terra, che racconta le figure umane, le nature morte e i paesaggi con la stessa lingua», dice la curatrice, Kathleen Adler.
E sembra di vederlo, il fragile Vincent, mentre osserva i contadini «ispidi come uno spinone» che mangiano in silenzio, mani nodose e sporche («Ma un quadro con contadini non deve essere profumato», scrive a Theo). Li vedeva da lontano quando, da bambino, tutta la famiglia faceva lunghe passeggiate all’aria aperta e poi si leggeva tutti ad alta voce. Li vedeva già allora con l’occhio acceso del padre, pastore calvinista, una piccola comunità da tenere insieme in un territorio dominato da cattolici. Li vedeva semplici, puri nella preghiera, stanchi e silenziosi. Certo, come li aveva visti il suo amato pittore Jean-François Millet, il primo ad ideare un’estetica della terra che influenzerà anche Dalí. Ma in Vincent è diverso.
Qui, il Seminatore con cesta e lo Zappatore in un momento di riposo (1881), le Contadine che raccolgono patate (1885) e la litografia che precede il capolavoro del quale porta il nome, I mangiatori di patate , vanno oltre. C’è una santificazione del lavoro, una mistica febbrile della fatica che corre nei tratti durissimi, realistici (com’erano diverse le figure semi idealizzate di Millet) dei volti contadini. Sembrano i protagonisti di uno dei sermoni del padre tutto «rigore, fede e lavoro». Ecco l’evoluzione da Millet, che passa anche attraverso Gustave Courbet, padre del realismo e cantore degli ultimi: Van Gogh fonde la spiritualità del primo con il gusto naturalista del secondo, fino a ottenere quello che voleva: un’allegoria del sacro purificata nel sudore.
«Van Gogh ha cercato spesso conforto nella religione e ha seguito i sermoni del predicatore battista Charles Spurgeon», ricorda Adler. Ma, negli anni in cui Vincent si avvicina alla pittura, dalla fine del 1881, le città europee sono percorse da una vena mistico-sociale: Dostoevskij ha appena pubblicato I fratelli Karamazov , nel 1883 Nietzsche scrive Così parlò Zarathustra e nello stesso anno muoiono Wagner e Marx. Van Gogh matura una visione panteistica della natura, che non poteva però prescindere da una riflessione sul reale, riverberata negli still life come Natura morta con patate o Natura morta con statuetta di gesso e libri — in esposizione.
Nascono così anche i bellissimi ritratti in mostra, primo tra tutti Ritratto di Joseph Roulin (1889): la serenità del postino di Arles non affiora tanto dal personaggio quanto dal gioco di rimandi orientali (i fiori, lo sfondo): Vincent aveva scoperto il Giappone, un’estetica nuova attraverso la quale guardare la sua campagna. «La Provenza è il mio Giappone» dirà mentre aspettava l’amico Gauguin nel Midi. In quell’universo incontaminato (il Paese era appena uscito dall’isolamento durato oltre due secoli, conservando intatti i valori culturali) vedeva una strada dolce e pura per raggiungere una dimensione di assoluta bellezza.
La mostra corre lungo i toccanti scritti di Vincent, che accompagnano le opere. Si legge: «Nell’amore così come in tutta la natura c’è un appassire e un rifiorire, ma non una morte definitiva». Un’intuizione profonda che porta dritti all’ultima parte della mostra, quei paesaggi senza la linea dell’orizzonte che fondono la sensibilità occidentale con la prospettiva libera, tipica dell’arte orientale. Una sintesi? Non sarebbe un termine giusto: ogni fase di Van Gogh è stata una conquista strappata al tempo. Verso la fine, quando sentiva avvicinarsi l’indicibile, scrisse: «Lavoro febbrilmente, di fretta, come un minatore che non vede via di scampo». Anche qui non rinunciò a sentirsi uno degli «ultimi» che aveva raccontato.

rscorranese@corriere.it