Luca Ricolfi, Panorama 16/10/2014, 16 ottobre 2014
JOBS ACT
Supponete di essere un insegnante di italiano. Supponete che un vostro allievo abbia commesso una mancanza grave, tipo fare un tema pieno di insulti, o copiare di sana pianta da internet. Supponete di essere molto arrabbiati, e di volerlo punire dandogli un compito di italiano difficilissimo.
Che cosa fate?
Se quell’insegnante fossi io saprei che cosa fare. Gli farei leggere le sette pagine del maxiemendamento del governo Renzi alla legge delega sul mercato del lavoro (pomposamente denominata Jobs act), e gli darei quattro ore di tempo per farne un riassunto di una pagina.
Il maxiemendamento dovrebbe enunciare i «principi e criteri direttivi» cui il governo intende attenersi nel redigere i decreti attuativi della delega. In realtà non contiene affatto principi guida, ma decine e decine di punti, sotto-punti, e sotto-sotto-punti formulati in un linguaggio mostruoso.
Vediamone uno, di questi presunti principi guida:
«revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà, con particolare riferimento all’articolo 2 del decreto legge 30 ottobre 1984, n.726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n.863, nonché alla messa a regime dei contratti di solidarietà di cui all’articolo 5, commi 5 e 8, del decreto legge 20 maggio 1993, n.148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n.236» [punto 2, lettera a), sottopunto 8, dell’articolo 1 del maxi emendamento governativo].
Voi ci avete capito qualcosa?
Io non ci ho capito niente, e questo per due ragioni distinte. La prima ragione è che anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, come tutti i suoi predecessori, non rispetta la legge, una violazione che, curiosamente, il presidente Giorgio Napolitano, anche qui come tutti i suoi predecessori, si guarda bene dal fargli notare.
La legge che il governo in carica non ha rispettato è la legge 400 del 23 agosto 1988, che all’articolo 13-bis (Chiarezza dei testi normativi), tra le altre cose prescrive: «Il governo, nell’ambito delle proprie competenze, provvede a che: a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe, indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo ovvero la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento o il principio, contenuto nelle norme cui si rinvia, che esse intendono richiamare».
È evidente che il maxiemendamento, facendo continuamente e tortuosamente riferimento ad altre norme senza alcuna indicazione del loro contenuto, viola sia la lettera sia lo spirito della legge 400 del 1988. Altroché lotta alla burocrazia, il maxiemendamento del governo è uno straordinario esercizio di «azzeccagarbuglismo»... Ma c’è anche una seconda ragione, ancora più importante, per cui non ci ho capito niente, ed è che nel punto riportato non si enuncia alcun principio guida. Dire che si intende «rivedere l’ambito di applicazione» e le «regole di funzionamento» di qualcosa non è un principio guida perché non dice in che senso si intende effettuare la revisione. L’ambito di applicazione va ristretto? Va ampliato? Per quali categorie di soggetti? Le regole di funzionamento vanno modificate, ma in che direzione, secondo quali principi, per ottenere quali risultati?
Leggendo l’insieme del Jobs act, di passaggi di questo genere se ne incontrano tantissimi. Alla fine l’esausto lettore si ritrova con un pugno di mosche. Ha letto tutto, ma non ha la minima idea di come cambierà il mercato del lavoro quando i decreti delegati vedranno la luce. Per settimane ha sentito gli esponenti del Pd litigare sull’articolo 18, ma leggendo il maxiemendamento scopre che l’articolo 18 non viene nominato neppure una volta. Che cosa pensare? Mah, intanto che è curioso questo contrasto fra i due linguaggi di Renzi. Nella produzione legislativa il barocco giuridico italiano tocca vertici di rara oscurità e contorsione, in perfetta continuità con tutta la tradizione del dopoguerra, sia della prima che della seconda Repubblica. Nei tweet e nelle dichiarazioni ai mass media, invece, il grado di complessità del messaggio crolla al livello mentale di un bimbo di sei anni. Come se il premier pensasse che il pubblico sia fatto di gente sempliciotta, capace al massimo di digerire qualche slogan ma del tutto disinteressato al merito delle riforme.
Ci sarebbe poi anche un’altra riflessione. Uno dei pregi di Renzi è il decisionismo, la sua idea che si può discutere con tutti ma poi arriva il momento delle decisioni, e il governo decide. E tuttavia, proprio se si ha questa visione della politica, c’è un dovere speciale di chiarezza. Il governo ha tutto il diritto di mettere la fiducia sulle sue leggi, ma sarebbe bene metterla su testi chiari, che indicano in modo esplicito la direzione di marcia. Il maxiemendamento al Jobs act non è un testo di questo tipo. Delega il governo a riformare il mercato del lavoro, ma lo fa in modo così vago che nessuno è in grado di prevedere che cosa alla fine ne potrà venir fuori. È questa democristiana opacità, non il fatto di pretendere craxianamente di decidere, il vero limite della democrazia in salsa renziana.