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 2014  ottobre 17 Venerdì calendario

IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI MARIO LUZI, PRINCIPALE ESPONENTE DELLA «GENERAZIONE DI MEZZO». ERMETICO E CLASSICO, UN POETA CHE SI ESPOSE ALLA REALTÀ


Quello di Mario Luzi, che si celebra in questi giorni, è il quarto centenario importante che riguarda la poesia in quattro anni di seguito. A partire dal 2011, infatti, è toccato via via a Bertolucci, Caproni, Sereni, ed ora appunto a Luzi (era nato a Castello, nel comune di Firenze, il 20 ottobre 1914). Anche se non bisognerebbe dimenticare Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi, che di Luzi sono stati a lungo compagni di strada (anche loro nati nel ’14), va detto subito che si tratta dei quattro esponenti principali della terza generazione della poesia italiana del Novecento, detta anche generazione di mezzo. Da un punto di vista storico-poetico, infatti, questi poeti hanno svolto una fondamentale funzione di cucitura tra la stagione delle avanguardie e dei movimenti poetici della prima parte del secolo, e le aperture tematiche, linguistiche, teatrali, narrative, che hanno caratterizzato i suoi decenni conclusivi. Seguendo lo svolgimento del loro arco poetico, dai libri d’esordio fino alle opere della tarda maturità, si può dunque verificare passo per passo la trasformazione della nostra poesia. Anche se, è importante precisarlo, tale verifica ha un senso soltanto se si riconosce che sono stati anzitutto loro, i poeti della terza generazione, i principali artefici di questa trasformazione.
Se si guarda proprio all’arco di sviluppo, la poesia di Luzi è quella che ha conosciuto probabilmente l’escursione più ampia. Il principale esponente dell’ermetismo fiorentino degli anni Trenta arriverà a scrivere, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, una poesia completamente rinnovata: dalla torre d’avorio della letteratura, com’è stato detto, coi suoi endecasillabi perfettamente torniti ( Avorio è una poesia emblematica della prima stagione di Luzi: «Parla il cipresso equinoziale, oscuro / e montuoso esulta il capriolo, / dentro le fonti rosse le criniere / dai baci adagio lavan le cavalle»), a un discorso poetico che appare come scoperchiato, in cui il verso si fa molto più fluido e reattivo, la lingua diventa insieme più disponibile e prensile, mentre la poesia alla lettera si apre a situazioni, temi, registri, voci anche molto variate. Dall’avorio alla compromissione del magma – Nel magma è appunto una sua fondamentale raccolta del 1963 – il passo di Luzi, insomma, è stato lunghissimo.
Va dato merito a questo poeta, allora, dell’investimento etico che è stato tutt’uno con la sua crescita poetica. L’aumentata capacità inclusiva della sua poesia, infatti, non può essere disgiunta da una nuova capacità, detto in tutti i sensi, di comprensione. Paul Celan, un poeta molto stimato anche da Luzi, ha parlato della necessaria «esposizione» del poeta nei confronti della realtà a partire dall’angolo d’incidenza della sua stessa vita. Ed è proprio questo, credo, che è accaduto in Luzi.
In una così grande trasformazione, cosa invece non è mai cambiato? L’idea della letteratura, e della poesia in particolare. «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi»: si tratta del suo passaggio forse più noto. A quest’idea totale e appunto alta della parola poetica, che gli veniva dal suo retaggio simbolista e dai principali maestri che si era scelto, Rimbaud, Mallarmé, Rilke, Ungaretti e Campana, Luzi non è mai venuto meno, per acclimatarsi, per così dire, a una pratica rinunciataria e in fondo più comoda della poesia. Perfino con qualche eccesso. I suoi ultimi vent’anni, che pure hanno grandi estimatori, ma che personalmente apprezzo meno, peccano spesso per un di più di eloquenza, d’astrattezza e di rarefazione intellettuale, e insomma di quell’assolutezza che è tutt’uno con la vista dall’alto e con la considerazione sub specie aeternitatis della vita dell’uomo.
Viceversa, il Luzi migliore e più resistente credo si trovi nella sua splendida stagione centrale, la più densa e insieme temperata, tra anni Cinquanta e Sessanta. È il Luzi terroso, grave e malinconico, tutto ad altezza d’uomo, di Primizie del deserto , Onore del vero (per me il suo libro più bello) e Dal fondo delle campagne , lì dove le inquietudini, la solitudine, l’astenia, il torpore esistenziale dentro alle «ore lentissime a passare», il possibile disamore, la decisione etica, ma anche la speranza, trovano un concretissimo correlativo oggettivo nella natura appenninica e in borghi o luoghi così lasciati a se stessi da far temere che tutti, persino Dio, li abbiano abbandonati: «Io sono qui, persona in una stanza, / uomo nel fondo di una casa, ascolto / lo stridere che fa la fiamma, il cuore / che accelera i suoi moti, siedo, attendo. / Tu dove sei? sparita anche la traccia... / Se guardo qui la furia e se più oltre / l’erba, la povertà grigia dei monti».