Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 16 Martedì calendario

IVAN L’IMMANCABILE ALLA PARTITA DELL’ODIO


Sinisa Mihailovic è un traditore, perché ha sposato una donna italiana e non parla in serbo con i suoi figli. Per questo Ivan Bogdanov lo disprezza, «si è venduto: e meno male che nella Sampdoria c’è Nenad Krsticic, lui sì che è un bravo ragazzo».
Nenad ha appena avuto un bimbo da Jelena, moglie e buoi dei paesi tuoi, ed è facile immaginare che lo cullerà intonando ninnananne in madrelingua. Ci vuole poco per guadagnarsi la benevolenza di Ivan, che la sera del 12 ottobre 2010 cavalcava la recinzione del prato di Marassi brandendo un paio di cesoie da siepe. Un pizzico di patriottismo. Perché il Terribile è «una persona mite e sensibile», lo santificano i vicini di casa, ma guai a toccargli i sacri lidi. Figuratevi dunque come ha reagito durante Serbia-Albania, la partita che l’Uefa ha avuto l’intelligenza di inserire in un girone delle qualificazioni ai campionati europei. Stadio di Belgrado. Folla delle grandi occasioni. A un certo punto dalle tribune si leva un drone uno di quegli elicotterini senza pilota che si possono comandare a distanza. Issa la bandiera della Grande Albania. Gelo. Smarrimento. Poi, di fronte al drappo nero che al posto dell’aquila bicipite ostenta i confini di un Paese che comprende il Kosovo, e altri angoli di ex Jugoslavia, la folla esplode.
Uria, inni nazionalisti, un giocatore serbo riesce ad avventarsi sul drone che irride lo stadio (del Partizan) volando a bassa quota. La bandiera viene stracciata. La partita, sospesa. Mancano pochi minuti alla fine del primo tempo e a rappresentare le ragioni dei serbi, rieccolo!, c’è Ivan Bogdanovic. Chi ha pilotato il drone?
I sistemi sono gli stessi sperimentati a Genova. Anche quella sera i giocatori serbi sfilavano davanti al Terribile innalzando il pollice, il medio e l’indice: che non stava a significare, come sostenevano soavi i cronisti sportivi, il rischio di perdere tre a zero la partita. No, le dita indicavano la trinità Dio-Patria-Famiglia, la ragion d’essere dei figli della Grande Serbia: paese che non esiste, almeno sulle carte geografiche, e quando è esistita si chiamava Jugoslavia. Non è un caso che il Cheers Bar, il ritrovo dei tifosi-teppisti della Stella Rossa, sia a metà strada tra il museo del defunto Stato e il mausoleo di Tito. Lo stadio è appena più in là.
Ivan Bogdanov lo trovi tutti i giorni a bere lattine di birra assieme a Nikola Klickovic, condannato a tre anni per i fatti di Genova, oppure a Daniel Janjic, solo quattro mesi in meno per la medesima impresa. Nikola si definisce «tifoso professionista». Daniel ha imparato nel carcere di Pontedecimo un campionario di bestemmie e volgarità che ne fanno uno dei più apprezzati esponenti della torcida biancorossa. La quale torcida, sì,pretende di rappresentare l’anima nazionalista del popolo oppresso dalle potenze straniere e umiliato dai trattati di pace: ma lo fa, al Cheers Bar, con i soldi di papà.
Ivan Bogdanov è figlio di una coppia di avvocati, ancorché separati, e vive in una palazzina del più elegante quartiere della capitale, quello che ospita appunto i monumenti patri e lo stadio della Stella Rossa. Si preoccupa della propria forma fisica, ma non di lavorare: una volta faceva la guardia del corpo, adesso vive alla giornata.
Gli altri, come lui. «Siamo quasi tutti disoccupati», ammetteva Bogdanov in un’intervista concessa al Secolo XIX dopo la sua liberazione, «ma non è vero che siamo legati a gruppi paramilitari. Quella sera a Genova dovevamo punire la squadra, perché perdeva da troppe partite e c’era un onore da difendere». Figurarsi cosa dev’essere scattato, nel petto dei patrioti del Cheers Bar, quando il drone con la bandiera della Grande Albania ha cominciato a sorvolare lo stadio. Quando io a Belgrado di fronte al nazionalismo serbo, dopato dagli ormoni di un nazionalismo che non arretra di fronte alla pulizia etnica, si è stagliato il suo fratello gemello albanese. Cristiani ortodossi i primi, musulmani i secondi. Ma balcanici entrambi, e dunque estranei alla storia perché troppo impegnati a raccontarsene una che vale solo per loro.
«Il calcio rappresenta il valore dell’appartenenza», sproloquiava Bogdanov dopo tre anni di galera. Ora ci tornerà, per approfondire gli studi.
PAOLO CRECCHI
crecchi@ilsecoloxix.it