Lavinia Farnese, Vanity Fair 15/10/2014, 15 ottobre 2014
80 ANNI SENZA PAURA
«Mi sono sempre detta: “Che importa, in fondo, dove?”. E invece... Mi piacerebbe morire al mare. O nella casina che ho preso a Venezia, alle Zattere, facendo finta che la laguna lì davanti sia il mare. Ben intesi: più in là che si può».
Con Ornella Vanoni ci incontriamo nella sua casa di Milano. Ha un abito lungo e comodo, verde pistacchio, il seno libero da costrizioni, i capelli arresi al bel disordine dei ricci. Se ne sta come si starebbe sul proprio divano in assenza di ospiti, un libro vicino – L’utilità dell’inutile – pieno di pagine segnate, una lettera da Parigi di un’ammiratrice che «scrive cose deliziose, e non chiede niente, non lascia neanche l’indirizzo».
Ottant’anni appena compiuti, li festeggia con un disco antologico (il triplo cofanetto Più di me, più di te, più di tutto) e tornando nei teatri con Un filo di trucco, un filo di tacco... l’ultimo tour! «Parlavamo con Dacia Maraini di quanto siamo stupefatte. Mica ce lo aspettavamo, di arrivare a questa età. Ci siamo dette: “Abbiamo dato, ora ci basta stare bene”».
La vernice alle pareti è fresca: in questa casa si è sistemata da poco, da quando le spese per il suo appartamento storico sono diventate «folli e insostenibili». Le tele d’autore, il camino, le finestre bianche sul verde del cortile, sono da «costruzione di un amore».
Beve acqua per cautela indotta, e con poco entusiasmo. «Pare che debba dosarmi, ed è una tragedia. Sono una spritzomane».
Perché, quando pensa alla morte, pensa al mare?
«Forse dipende da come sono nata: asciutta, perché dopo tre giorni di travaglio, mia madre aveva perso tutte le acque. Ho sempre subìto il fascino e il richiamo del mare».
Che effetto fa «l’ultimo tour»?
«Divento Ornella. Mi tolgo il manto da “diva”. Non significa che dopo smetterò di cantare. Lascio il pop. Lo fa troppa gente, in Italia. Magari mi butto sul jazz».
Come Gino Paoli, che è stato il suo grande amore. Coincidenza vuole che abbiate compiuto entrambi 80 anni, a distanza di un giorno: lei il 22 settembre, lui il 23. Dovevate festeggiare alla Scala. E invece?
«Sarebbe stato bello. Qualcuno, però, mi ha detto: “Tu sì, perché sei di Milano. Lui no, perché è genovese”».
Siete Senza fine?
«In un certo senso, sì. Abbiamo un rapporto affettuoso. Adoro sua moglie Paola, che l’ha voluto e se l’è tenuto a tutti i costi. Io allora piangevo sempre. Ero sposata, lui pure. Si metteva al piano, e io non azzeccavo più una nota. Una sera mi porta al Cral di Genova, non era elegantissimo, io in oro. Mi guarda e mi fa: “Sembri un gianduiotto”. Ancora adesso è capace di dirmi: “Ti ricordi le risate?”. Le sue. Io a casa piangevo. La moglie a casa piangeva. Le sue, di risate. Un giorno, mentre lui schiacciava un pisolino, ci siamo ritrovate una davanti all’altra. E io ho fatto l’amante che se ne va. Solo che lui non aveva capito che me ne andavo per sempre. Dopo anni mi dice: “Sei sparita, è stata colpa tua se ho iniziato a bere”».
Che cosa rivorrebbe del passato?
«Quando d’estate, in macchina con i miei genitori verso la Liguria, sotto le gallerie mi coprivo gli occhi e urlavo “Lumino!”, sperando di azzeccare nel buio la luce. Un altro periodo che rivivrei è il dopoguerra: il fatto solo di essere vivi dava una gioia incredibile. E i 40 anni. Di una bellezza franca, consapevole. Finito di esibirmi, c’era tutto un “dopo”. Ora me ne vado a casa e non vedo l’ora di mettermi a letto, e c’è da scongiurare la sciatica».
Il sesso le manca?
«Ne ho avuto abbastanza. Era il mio propellente per proseguire. La mia medicina. Da dieci anni, non più».
E adesso è innamorata?
«Ho incontrato un uomo. Teneva una conferenza, ad ascoltarlo mi sono venute le lacrime. Quando mi è stato più vicino l’ho abbracciato da dietro. Da lì, è stato tutto un chiamarci, un cercarci. Gli piace che gli canti Averti addosso».
Chi è?
«Uno scrittore di talento (Pino Roveredo, ndr). Ha vinto il premio Campiello, vive a Trieste. Ci vediamo poco, ma il “come” appassiona».
Che nonna è?
«Matta. I miei nipoti mi divertono. Una sera Lavezzi ha buttato sul palco Camilla, avrà avuto 13 anni, in pieno applauso. La sera dopo le ho chiesto: “Vieni? La nonna canta”. E lei: “Per carità, da ieri ho una stanchezza da stress che non hai idea”».
Chi le fa compagnia?
«Ho un cagnolino, Why, dorme con me. Se qualcuno si siede sul letto, ringhia».
Si è mai rifatta?
«Guardo la mia faccia allo specchio, e provo una certa tenerezza. Qualche punturina non gliel’ho negata. Ma la bocca è mia, così carnosa dai tempi della mala».
E quel segno sul collo?
«Una cicatrice. Colpa di una tisi ghiandolare. Mi ha torturata fino a 20 anni. Andavo, tutta fasciata, nel reparto dei mutilati del viso. Ho visto i mostri. Ha intristito molto la mia infanzia, quella piaga lì».
Con l’età cresce la paura?
«Anche da giovane se ne ha, ma non ci pensi. Io ne ho una: diventare dipendente da qualcuno. La vecchiaia è anche bella, se stai benino. Sono stata figlia unica di mamma malata di Alzheimer e papà di Parkinson. Non lo auguro a nessuno. Io, per fortuna, le malattie le ho sempre prese in tempo. Un giorno mi usciva sangue da un’unghia. Era un cancro».
Ha rimpianti il suo cuore?
«...Però si è preso tutto, però si è dato tutto, e non ha patito mai la fame».
GINO PAOLI
Dietro la casa di Gino Paoli c’è un sentiero in salita. Dà sul mare di Genova. Sostiamo, e ci fermiamo a guardarlo, a mano a mano che gli alberi di magnolia e cachi si aprono, e le mimose e gli ulivi si fanno più radi, e i racconti di vita prendono un po’ il fiato corto.
In cima tocca le foglie di una quercia: «La piantai quando nacque mio figlio, insieme al suo cordone ombelicale. Faremo una funicolare, quando non riuscirò più a venir quassù con le mie gambe».
È mattina tarda, il pianoforte nel salone è aperto sullo spartito di The Lady Is A Tramp. In cucina Ornella Vanoni aspetta con Paola Penzo che questa intervista finisca, per scendere in città a vedere tutti insieme la mostra su Frida Kahlo («Insistono a volermi far uscire, ma io sto così bene qui: fuori è pieno di imbecilli»).
L’impegno da presidente della Siae gli dà «fatica e sfida». Il suo stato di famiglia (quattro figli, di cui due – Giovanni e Amanda – nati a distanza di tre mesi da due donne diverse) gli testimonia che non sempre «scandalo» alla fine è «male». «C’erano tutti alla festa al podere di mio nonno in Toscana. Una sorpresa di Paola. Diabolica: quando si riunisce con le altre, Carla di Maurizio Crozza ed Emilia di Renzo Piano, le chiamo “il pollaio”. A Campiglia l’aria era dolce, eravamo la gente della musica e gli amici, Grillo, Zucchero, Cordero di Montezemolo, Morandi. Rimpiangevo gli altri che non ci sono più».
Gaber, Dalla, Jannacci. Lei è rimasto «l’ultimo cantautore».
«È una responsabilità. Te ne rendi conto quando muore tuo padre, che è “l’ultimo prima di te”, e non hai più nessuno che ti protegga la schiena, che ti chiami “figlio”. Ma della mia morte non ho paura».
Possibile?
«C’è chi ha Dio, chi la propria religione: io credo nella natura e sono sereno. So che dentro l’inesorabilità, dove i fiori spariscono, poi esploderà la primavera».
Vorrebbe tornare ai suoi vent’anni?
«Macché. Ero un coglione tremendo».
E ai tempi del successo improvviso?
«Per carità, diventai stronzo. Che poi sarebbe bastato un po’ di buon senso per capire che, anche se mi davano ragione, magari stavo sparando cazzate. E se fino a sei mesi prima nessuna mi voleva, e poi di colpo tutte, non ero diventato bello».
Ha avuto molte donne.
«Sono stato avuto da molte donne, è diverso. Le ho conquistate quando hanno deciso che dovevo. Da pigro, ho sempre aspettato sotto l’albero che la mela cadesse. Anche con la musica andò così. Non era previsto che diventassi cantautore. Dipingevo. Luigi Tenco voleva fare il fisico, Bruno Lauzi si è laureato. Reverberi ci chiamò perché “si sentiva solo a Milano”. È stata una questione di culo. Come il fatto che sia ancora qui: ho bevuto per 20 anni una bottiglia di whisky al giorno».
Tentò il suicidio, pure.
«Il destino lo ridusse a un incidente».
Una pallottola le rimase incastrata nel cuore. La sente mai?
«Faceva suonare il metal-detector ai controlli in aeroporto. Adesso neanche più».
Com’è stato il dopo?
«Ho rivalutato lo stupore di Pascoli e l’inutilità di Oscar Wilde. Mi sveglio come se fosse il primo giorno, vado a letto come se non ce ne fossero più. Non mi piango addosso, ai bilanci penseranno gli altri».
Ha rimpianti?
«Nessuno. Perché sono sempre stato chiaro, sincero. Non una carogna».
Dalle cronache rosa dei tempi pareva tutt’altro. La Vanoni ancora racconta che era l’unico a ridere, mentre a lei e a sua moglie non bastavano i fazzoletti.
«I ricordi sono strambi, ognuno li richiama con grammatica propria. Lei ricostruisce meglio i pianti, io le risate: amare è un fatto di grande allegria».
Siete Senza fine?
«Se amo una donna, è per tutta la vita: le ragioni per cui l’ho amata sussistono, la bellezza permane. Perché smettere solo perché non si va più a letto insieme?».
Nel libro I semafori rossi non sono Dio si definisce un «culologo». Nei termini?
«La faccia è controllabile, con lei puoi essere falso. Il didietro no, dice delle verità. E io un occhio ce lo butto».
Da oltre 40 anni al suo fianco c’è Paola.
«Ballammo insieme, una sera. “Quanti anni hai?”.“15 e mezzo”.“Arrivederci, non si può”. “E quando si può?”. “Dai 16”. Il giorno dopo mi si ripresentò. “Li ho compiuti”. Poi ce ne ha messi altri 20 per mandare via le concorrenti. Ma mi si è caricata sulle spalle, mi ha portato in giro e io ho smesso di andare a sbattere».
I suoi figli, invece, come sono?
«Sono stati tutti da “una persona sola”. Per contrasto, immagino».
Che nonno è?
«Non valgo niente, temo. Considero i bambini piccoli uomini, dunque rispetto le loro libertà come se fossero adulti».
Sta scrivendo?
«Non puoi quando non vedi l’orizzonte».
Che cosa intende?
«Quando con Grillo ci impegnammo in Parlamento, Renzo (Piano, ndr) ci cazziò: la politica si fa con il proprio mestiere. Aveva ragione. Quanto al resto che vede nel mio studio – carte, canzoni incompiute, ricordi di viaggi – ho pregato mia moglie, quando sarà, di bruciare tutto».
Perché non beve più?
«Avere figli tardi è come firmare una cambiale a dover restare vivi a lungo».
Varrebbe lo stesso discorso per le sigarette: ne finisce una e ne inizia un’altra.
«Vero. Proverò a smettere. Per ora ci riesco tutte le sere».