Imma Vitelli, Vanity Fair 15/10/2014, 15 ottobre 2014
HO PAURA DELL’UOMO NERO
A Raqqa, la capitale del Califfato, nel Nordest della Siria, c’è uno slargo, con una rotonda erbosa cinta da tetri caseggiati: piazza dell’Orologio. Vi regna una terribile quiete, una lugubre calma, un silenzio di morte. Nella rotonda, l’erba affoga in piccole pozze rosse di sangue. Tra i macabri stagni svettano sette croci di legno, alte un paio di metri. Sono sempre lì, in attesa del Venerdì, giorno di preghiera e di supplizio.
«La gente è furibonda», mi dice Shamsa Saad, una signora di Raqqa, fuggita oltreconfine, in Turchia.
«La gente evita di andare a piazza dell’Orologio. Ci sono le croci e tutti quegli sgozzamenti».
Shamsa Saad ha 44 anni e il velo rosa, e il rossetto, e due figli adolescenti. Al pari dei profughi più abbienti, ha trovato rifugio sulle colline di Gaziantep, ma torna spesso a casa, in segreto. La madre, il padre, la sorella, sono tutti lì.
«Mio nipote è stato uno dei primi a tagliare teste a Raqqa, sa? Ha 16 anni ed è cresciuto in Romania, poi ha mollato i genitori ed è venuto qui a combattere. Gli hanno chiesto di giustiziare uno sciita e gli hanno dato un coltello da cucina. Ogni volta che sentiamo urli pazzeschi, a Raqqa, e li sentiamo spesso, c’è un boia con un coltello da cucina che ha bisogno di un arrotino. Mio nipote non ce l’ha fatta. È arrivato a metà faringe e si è bloccato e ha passato la lama al suo mentore».
La vita al tempo dell’Isis, lo Stato islamico, è un grottesco viaggio nelle tenebre, con i suoi ritmi e le sue regole.
Ogni venerdì, in moschea, i tracotanti supplici di Allah annunciano i delitti e le pene, a voce e su carta, con volantini distribuiti dagli uomini neri.
Ogni venerdì, giorno di festa, in tutte le cittadine del Califfato, un territorio più vasto dell’Italia, abitato da più di sei milioni di persone, nelle piazze si creano capannelli di fedeli. I protagonisti, al centro del cerchio, sono la vittima, a volto scoperto, e quattro «fratelli», uomini di Daesh, l’acronimo arabo dell’Isis, lo Stato Islamico in Iraq e in Siria.
I «fratelli» sono mascherati e hanno ruoli diversi: uno sorveglia la folla, un altro legge le accuse, un terzo immobilizza il condannato per terra, e l’altro taglia e affetta.
La testa la infilzano su un palo e resta lì anche fino a dieci giorni e guai a chi la tocca.
Solo i bambini possono.
«Le cose che succedono!», mi dice Shamsa Saad.
«Mia nipote Marwa ha 4 anni. Vive a Raqqa, è la figlia di mia sorella. L’altro pomeriggio è tornata a casa piangendo. “Non mi fanno giocare con loro”, ha detto alla madre. Mia sorella è andata dal vicino e gli ha chiesto spiegazioni. E quello: “I bambini hanno portato a casa una testa. Ci hanno giocato per strada a pallone. Si sono tolti le scarpe e ci hanno messo i piedi sopra. Per vedere se era vera”».
In questo periodo, c’è un surplus di teste. È il bottino della battaglia dell’aeroporto di Tabqa. A Tabqa c’era una importante base militare del governo, che i barbuti hanno conquistato a fine agosto.
C’è stato un gran massacro e la cattura di 250 soldati del regime di Bashar al-Assad. Questi 250 prigionieri vengono decapitati a puntate, settimana dopo settimana, come in un reality show, nei diversi paesi della provincia di Raqqa. I loro volti, impalati, sono agli ingressi dei Centri Culturali, degli Uffici Postali e di altri edifici pubblici governati dagli emiri.
Un ragazzo di Tabqa, Nahab al-Nasser, mi ha detto di aver visto bambini tagliare le orecchie ai trofei umani, come fossero bambolotti. Ho visto il figlio di tre anni di Abu Hossam, un attivista di Raqqa, giocare al computer, in mano un mitra giocattolo, e gridare: «Allahu Akbar, Daesh!», Allah è il più grande, Isis!
La donna, Shamsa Saad, sospira. Addenta un dolce rosso.
Dice: «Non ci posso pensare. I nostri figli, da grandi, saranno tutti psicopatici».
L’
L’Isis ha conquistato Raqqa il 20 gennaio del 2014 e il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi ha annunciato le regole del nuovo Stato: le donne in nero integrale e per strada solo se accompagnate, niente fumo, niente alcol, niente musica, negozi chiusi quando si prega, barba per i maschi, niente trucco per le femmine.
A Raqqa vivevano 800.000 persone: metà della popolazione è scappata. È rimasto chi non si può permettere la vita in Turchia e non s’arrende all’idea di finire in un campo profughi né di affogare in mare per raggiungere l’Italia.
«La prima settimana», mi dice un giornalista di Al Jazeera che per sicurezza preferisce l’anonimato, «hanno arrestato 2.000 persone per violazioni della sharia», la legge islamica.
Nel giro di poco sono comparse, in piazza dell’Orologio, le croci. In croce finisce chi beve, o fuma, o non prega, o indossa i jeans, o si fa la barba. È, nel codice delle camicie nere, una punizione leggera: ti legano e ti stringono ai pali con le corde per una decina di ore.
«Dopo qualche giorno, sono andato a fare la spesa da quel miscredente del macellaio e quello, trafelato, ha guardato l’orologio e mi ha detto: scusa, puoi tornare, devo andare a pregare».
Con il tempo, avendo mostrato la morte, e avendo il popolo accettato la febbre, l’Isis ha mostrato un altro volto. «Sono diventati un vero Stato, con riserve da due miliardi di dollari. Erogano acqua e luce, la provincia di Raqqa è l’unica in Siria in cui c’è sempre l’elettricità. Hanno portato generatori nei villaggi e farina nei forni. Hanno riparato tutto: ponti, scuole e strade. Sanno di aver bisogno del sostegno della gente e allora corteggiano le tribù. Organizzano grandi festini, ammazzano un agnello, invitano i leader tribali e chiedono loro: che vi serve? Le tribù si uniscono ai forti e i forti oggi si chiamano Isis».
O
Vivono oggi tutti assieme in due stanze vuote dalle pareti bianche, spoglie di ricordi.
Gli chiedo da cosa siano scappati, esattamente, e Mosa, il marito, sorride.
Così tanti oltraggi, così tante ferite.
«È un mondo sottosopra», dice.
«Questi stranieri non ci conoscono. I siriani che si sono uniti all’Isis sono i criminali, gli spacciatori, la feccia della società. Ha presente la Brigata al Khansaa?».
Sì, dico. Sono le donne vigilantes, vanno a caccia delle ragazze con il trucco o senza velo.
«Erano prostitute».
Prostitute? «C’è questa donna, si chiama Harbiya, è una nota madame di Membish, un villaggio a venti chilometri da Jarabulus. Aveva un bordello, prima della rivoluzione. Oggi è una principessa di Daesh. Una puttana è a capo della prigione femminile dello Stato Islamico, lo scriva, la prego. Le mogli dell’Isis, le egiziane, le tunisine, fumano tutte, dentro le loro case. In un villaggio, a Kandriya, c’erano dei freschi sposi, era appena finita la cerimonia di nozze e camminavano teneramente per strada. La sposa non aveva il velo in testa ed era pure truccata. Un paio di guardiani dell’Isis, stranieri, li hanno beccati e hanno costretto lo sposo a frustare la sposa. Gli stranieri hanno lo zelo dei neo convertiti. Sono più brutali, più conservatori. Noi a Raqqa siamo sempre stati gente aperta, mica siamo l’Afghanistan».
Mosa e Hanan hanno una ragazzina bellissima, di nome Minerva, di 16 anni, che traffica con un telefonino. C’è una foto che vuole mostrarmi, su Facebook, di un suo cugino coetaneo, Hussein: in realtà è la testa di Hussein, quella che vedo, nella sterpaglia. Diciassette cugini di Mosa e Hanan sono stati giustiziati su un ponte dalle camicie nere: il costo della ribellione, il prezzo del sangue. Con loro c’erano anche quattro bambini.
Bambini decapitati come i grandi, bambini soldati in passamontagna: «Su in collina, a Tal Abyad, ci sono tanti campi di addestramento», dice Hanan. «Li prendono a 9 anni, e dopo due settimane gli danno un kalashnikov che è più alto di loro. Per festeggiare organizzano le parate dei nuovi jihadisti con i bambini che sfilano per le strade del centro con le cinture esplosive».
Adesso è il figlio adolescente di Hanan e di Mosa a mostrarmi una foto sul telefonino. «Ti presento il mio amico Mahmud», dice. Vedo un bambino in maglietta nera con un razzo in mano; leggo cosa ha scritto sul suo profilo: «Se pensate che difendere l’Islam sunnita sia terrorismo, allora consideratemi un terrorista».
«La disumanizzazione dei piccoli fa impressione», dice Mosa. «Gli regalano giocattoli, armi, divise, e 10.000 dinari siriani al mese». Fanno 50 euro a bambino, per cento bambini kamikaze ogni due settimane, a Tal Abyad.
L
Un anno fa ero su un altro confine siriano, quello meridionale. Andai in Giordania all’indomani dell’attacco chimico con cui il governo genocida di Assad aveva sterminato, a Ghouta, circa 1.800 persone. Quella era la linea rossa, aveva detto nei mesi precedenti Barack Obama. Un combattente del Fsa, il Free Syrian Army, l’Esercito libero siriano, un uomo perbene, aveva strappato un nastro rosso sotto i miei occhi per dire: ecco quanto vale la linea rossa di Obama. Niente. In effetti, Assad ha continuato a gassare con nonchalance la sua gente.
«Vuoi sapere perché l’Isis è lì?», mi chiede ora Jad al-Nasser, un signore, un geologo.
«Questa è la tempesta perfetta che l’Occidente ha creato. Quando vieni ammazzato in tutti i modi, anche con i gas, e nessuno viene in tuo soccorso, prevale il nichilismo. Ecco cosa è diventata, la Siria: l’habitat ideale per le forze del male. E nessuno ci ha dato le armi per combatterle».
Jad al-Nasser ha 50 anni ed è di Tabqa. A Tabqa c’è un emiro saudita. A Raqqa un emiro iracheno. A Tal Abyad un egiziano. A Deir Ezzor, c’è un villaggio di soli combattenti cinesi. Cinesi? «Cinesi». Mi mostra la foto di quel che sembra, in effetti, un nano cinese. A Tabqa e dintorni ci sono tanti uzbeki. Frotte di uzbeki. Uzbeki da tutte le parti. «Per fortuna, litigano», dice. «La nostra speranza è che le loro divisioni aumentino, e che l’Fsa si unisca». E i bombardamenti occidentali? «Da soli, non sono mai serviti a niente. L’Afghanistan insegna. Sono necessarie truppe di terra».
Guardo il suo appartamento desolato, i posacenere pieni, il figlio adolescente silenzioso sul divano.
E lei perché è scappato?, chiedo.
Tira una lunga boccata. Mi viene in mente che i fumatori, a Raqqa, girano con i pacchetti delle sigarette nei calzini per evitare i controlli della polizia islamica.
«Avevo una vicina, a Tabqa. Si chiamava Shamsa al-Abdullah. Era una brava donna. Aveva 45 anni. L’hanno lapidata».
Lapidata? «Con l’accusa di adulterio. Ma non era vero niente. Un ragazzo stava fuggendo dall’Isis, e lei gli ha dato rifugio in casa. Il tizio dell’Isis ha bussato urlando alla sua porta e lei gli ha tirato la barba».
Gli ha tirato la barba? «Una grande donna».
«L’hanno portata al Maidan Al Garage, la stazione degli autobus. Era sera. Nelle moschee hanno annunciato la lapidazione, il crimine, il nome della condannata a morte. Hanno chiamato il marito e le figlie e i figli. I miliziani hanno preso a tirarle addosso le pietre, e i bambini del paese hanno seguito l’esempio, c’erano una cinquantina di persone. Non c’erano prove. Non c’erano testimoni. Due minuti prima della pioggia di pietre, Shamsa ha urlato: “Sono innocente! Sono innocente!”. È stato orrendo».
Tira un’altra boccata. Mi fissa in silenzio.
E alla fine chiede: «Ha capito adesso perché sono qui?».