Riccardo Venturi, Vanity Fair 15/10/2014, 15 ottobre 2014
TU SAI DI UN POSTO CHIAMATO PRIGIONE?
C’è la piccola Celeste, 2 anni e mezzo, che si è riempita le tasche di neve per portarla alla mamma. C’è il piccolo Rocco, 2 anni, che quando ha visto la casa di un volontario gli ha detto: «Che bella cella che hai!». C’è il piccolo David, 2 anni e mezzo, che guardando il mare a bocca aperta ha chiesto: «Chi ha versato tutta quell’acqua, e dov’è il rubinetto?». C’è la piccola Diamante, un anno e mezzo, che si è sdraiata sul passeggino, ha visto le stelle per la prima volta e ha esclamato un: «Ooooh!». E c’è il piccolo Diego, 2 anni, che quando è tornato dalla madre dopo la prima uscita le ha preso la mano, ha guardato l’agente penitenziario e ha urlato: «Apri, apri!», e le ha detto: «Mamma, fuori è bellissimo!».
Sono i bambini da zero a 3 anni che crescono in carcere in Italia con le mamme detenute. I nomi sono fittizi, i bambini veri, come le loro reazioni alle prime uscite dalla prigione con i volontari dell’associazione A Roma Insieme. Per incontrarli siamo entrati nella sezione Nido del carcere di Rebibbia. Qui vivono oggi 12 dei 58 bambini costretti in carcere in tutta Italia. È una struttura modello, anche grazie agli sforzi dell’associazione fondata da Leda Colombini, cui il Nido è intitolato. Le celle di giorno sono aperte a formare una piccola comunità con la cucina e la puericultura, c’è una sala colorata per il gioco con uno schermo per i cartoni, una piccola libreria per bimbi, un bel giardino.
Il Nido di Rebibbia è simile a un Icam, Istituti a custodia attenuata che per ora esistono solo a Milano, Venezia e Senorbì, in Sardegna. Ma è pur sempre un carcere, ci sono le sbarre alle finestre e per raggiungere i piccoli devi superare alti muri e porte blindate enormi che quando si chiudono rimbombano.
I bambini, inutile girarci attorno, ne soffrono. Come Azzurra, un anno e nove mesi, che sta in braccio appiccicata alla mamma Giacinta, 26 anni, con una mano sul suo seno e lo sguardo inquieto. «Devo stare qui dentro ancora un anno e mezzo, ma non ce la faccio più. Sto male e quindi mia figlia sta male. Per fortuna ha cominciato a uscire al sabato con i volontari, così può vedere com’è il mondo fuori dal carcere. Ma quando torna non vuole più entrare, ha capito che qui siamo rinchiusi, vuole uscire. La mattina si sveglia e piange. L’ho iscritta anche all’asilo nido, ma non c’è il pulmino comunale e non c’è ancora andata. Se noi detenute abbiamo sbagliato dobbiamo pagare. Ma non devi far soffrire un bambino piccolo. Per questo vorrei poter andare a casa».
Giacinta è rom, come gran parte delle detenute in carcere con i bambini piccoli. Capita anche che siano donne italiane condannate per reati pesanti, che non consentono gli arresti domiciliari. Nel caso delle detenute rom il problema è che i campi nei quali vivono non sono considerati un domicilio.
Una legge entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno individua la soluzione per la quale A Roma Insieme si è a lungo battuta: le case-famiglia protette, dove le madri detenute possano stare con i figli piccoli, controllate ma fuori dal carcere. Ma non ne è stata ancora messa in cantiere nessuna. «Il problema è che l’onere della realizzazione delle case-famiglia protette è a carico degli enti locali, che notoriamente non hanno un centesimo, e non dell’amministrazione penitenziaria. Abbiamo proposto al Parlamento di stornare proprio per le case-famiglia protette un milione di euro degli 11 destinati alla realizzazione degli Icam. Ma solo una minoranza ci ha ascoltati», spiega il presidente di A Roma Insieme, Gioia Passarelli. Gli stessi istituti a custodia attenuata, per quanto meno duri e più accoglienti delle carceri tradizionali, sono pur sempre soggetti all’ordinamento penitenziario. E proprio la legge entrata in vigore quest’anno porta a 6 anni l’età fino alla quale i bambini possono stare con le madri detenute. Eppure nell’esperienza dei volontari di A Roma Insieme, che da 22 anni tutti i sabati portano i piccoli a trascorrere l’intera giornata fuori dal carcere in città, al mare o in montagna, alla sera i bambini più piccoli spesso sono contenti di tornare dalle madri, ma quelli più vicini ai tre anni altrettanto spesso protestano. Le urla di quei bambini che hanno riconosciuto e amato la libertà anche solo per una giornata, al momento di tornare in carcere, non si dimenticano. Come si può pensare di estendere questa reclusione fino ai 6 anni, anche se negli Icam? Non per niente la massima permanenza dei bambini in carcere con le mamme nel Regno Unito è di 18 mesi, in Francia idem con possibile prolungamento a 24 mesi, in Olanda di 9 mesi oppure 4 anni e oltre solo nelle case aperte per mamma e bambino, leggi le case-famiglia protette che dovrebbero essere realizzate in Italia.
«Non facciamoci anestetizzare, perché l’alba della vita in un carcere non ha senso. I primi mille giorni non possono esser privati di tutti gli stimoli: affettivi, cognitivi, relazionali, ambientali, sociali, sensoriali che formano la personalità e l’identità», scriveva Leda Colombini, fondatrice di A Roma Insieme con il motto «Mai più bambini in carcere!», morta in trincea nel dicembre 2011, colta da malore all’uscita dal carcere. Anche per noi è ora di lasciare il Nido. I piccoli reclusi ci scrutano timorosi, attaccati alle mamme come cuccioli di koala. Osservano ancora una volta la porta blindata che si apre. E poi si richiude con un tonfo.