Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 16/10/2014, 16 ottobre 2014
I TEDESCHI HANNO FATTO I COMPITI
[Intervista a Franco Tatò] –
Lo chiamavano Kaiser Franz, Franco Tatò, da Lodi, classe 1932, e non solo per la sua teutonica capacità di tagliare e risanare le aziende che gli passavano per le mani, dalla Fininvest all’Enel. Quell’appellativo era legato ai suoi giovanili studi di filosofia e alle prime importanti esperienze professionali con la Olivetti proprio in Germania dove, in soli due anni, è riuscito a risanare Triumph Adler.
Ma l’attenzione alla Germania non è mai venuta meno, per questo, oggi, Tatò è l’interlocutore giusto per giudicare senza indulgenza il nostro crescente sentimento antitedesco.
Domanda. Tatò, da noi si guarda alla cancelliera Angela Merkel come all’arcigna custode dell’austerità che ci affligge. Che ne pensa?
Risposta. Questa ondata di antigermanesimo, un po’ manovrata dai media in verità, è l’espressione di un complesso di inferiorità. Facciamoci qualche domanda, ogni tanto.
D. Cosa dovremmo rispondere?
R. Che non è solo un problema di rapporto con la Germania ma con un certo numero di Paesi che si sono messi assieme per darsi una moneta comune e che ora chiedono il rispetto di certe regole. Insomma se ci vuole l’abito lungo e lo smoking perché si deve andare a una cena placée, non si può andarci in camicia bianca sbottonata.
D. Allude al look dei giovani leader della sinistra europea, tra cui il nostro premier?
R. No, era un caso (ride), così come, alla medesima cena, si deve arrivare puntuali, perché si cominciano a servire le portate.
D. Una domanda che ci potremmo porre è se eravamo pronti per l’euro.
R. È possibile che non lo fossimo, ma i nostri rappresentanti eletti hanno fatto questa scelta e ora dobbiamo rispettare quei patti. Del resto, se ci guardiamo attorno...
D. Che cosa vediamo?
R. Che persino la Grecia si è data una regolata e noi, che non ci riusciamo, siamo ancora a polemizzare contro la «cancelliera cattiva».
D. E invece non lo è?
R. Guardi in Germania, la Markel viene vista come una mamma, ed è stata votata proprio per un certo atteggiamento materno verso il Paese. E le mamme che cosa fanno, d’altronde? Si prendono cura dei loro figli, anche dando qualche scappellotto. No, se fosse stata una matrigna, gli stessi tedeschi non l’avrebbero votata.
D. Ma restiamo alla storia tedesca. Forse, sebbene siano passati pochi anni, in Italia dimentichiamo quello che quel Paese ha saputo fare con la riunificazione.
R. Quella fu la vera svolta epocale, il vero giro di boa. Eppure, in quel momento, fra il 1989 e il 1990, i giornali tedeschi erano pieni di grandi discussioni sui problemi che quel passo si portava dietro. Ci fu un grosso scontro tra Helmut Kohl, il cancelliere, e Oskar Lafontaine, il leader della Spd, partito in quel momento pesantemente orientato a sinistra. I socialdemocratici erano per creare una «mega Iri», nella quale far conferire l’industria della Ddr. Poi, col tempo, dicevano, si sarebbe proceduto, lentamente, a privatizzare.
D. E Kohl invece?
R. Dimostrandosi un grande statista, si rifiutò. Creò una fondazione per privatizzare e lo fece con rigore e rapidità. Insomma, Bonn si comperò una sorta di Mezzogiorno italiano, perché la Germania orientale poteva essere comparata al nostro Sud.
D. Vent’anni dopo, come vanno le cose?
R. Quella parte di Germania è dotata di infrastrutture straordinarie, si sono rifatte le strade, le telecomunicazioni. La banda larga è più diffusa a Est a che Ovest. Certo i malpancisti ci sono, come la sinistra di Linke, ma quelli li troverà sempre. Beh, insomma, vogliamo fare paragoni col nostro Mezzogiorno?
D. No, non li facciamo. Però proseguiamo nella storia tedesca recente, che ci conduce a un punto di frizione con la linea politica del nostro Paese oggi. Quando, a cavallo degli anni 2000, Gerhard Schröder ha fatto importanti riforme e ha sfondato i famosi limiti europei. Perché, come dice il premier Matteo Renzi, non dovrebbe essere concesso anche a noi?
R. È una situazione diversa, se vogliamo. Allora la Germania era la malata d’Europa, e aveva adottato, con l’Agenda 2010, una serie di riforme che avrebbero portato al rilancio. E non era solo la riforma del lavoro, come si dice spesso.
D. Cos’altro c’era?
R. C’era la ristruttura completa dell’economia di quel Paese: le aziende tedesche delocalizzarono le attività a basso valore aggiunto, concentrando all’interno dei confini quelle ad alto valore. Certo, ci fu anche la flessibilizzazione del mercato del lavoro e si crearono le condizioni per un gigantesco aumento di produttività. Si sfondò per 2-2,5 punti, per un paio di anni, deliberatamente, e col placet europeo, compreso quello italiano.
D. E in questo Schröder perse le elezioni.
R. Fu un grande cancelliere. Pochi sono disposti a sacrificarsi così. Sapeva di perdere, anche se cercò di far di tutto perché non accadesse. Ricordo che un grande recupero di popolarità lo ebbe quando, nel mezzo di una disastrosa alluvione, perché accadono anche là, lasciò tutto e si precipitò in loco.
D. Un parallelo con Genova?
R. Per dire che forse Renzi ci avrebbe guadagnato, andandoci.
D. Che cosa pensa del nostro presidente del consiglio?
R. Ho un grande rispetto per lui. Credo che sia il primo presidente del consiglio dopo tanti anni che vuole un cambiamento sinceramente positivo. E bisogna lasciarglielo fare. Tollerando anche cose, come la rottamazione, con cui non sono d’accordo, o anche altri mali tipici della sinistra, cui anche lui è esposto.
D. Per esempio?
R. La cosa che ha annunciato di recente: voler defiscalizzare completamente i neoassunti per tre anni.
D. E non va bene?
R. Errore capitale. Anzi culturale. Si crea ancora una divisione come quelle che ha perpetuato lo Statuto dei lavoratori: la distinzione fra aziende con più o meno di 15 dipendenti ha sconvolto il Paese. In parte, ha generato microaziende che non si sono sviluppate. E anche gli industriali ne sono stati contenti: una cosa stupida, criminale.
D. Lei come la vede?
R. Che siamo tutti uguali. Io, in maniera impopolare, sono da sempre per un contratto unico, anche per i dirigenti. A tempo indeterminato, ma con la libertà di licenziare anche individualmente. Bisogna poter cacciare i lavativi.
D. E questo è un problema culturale?
R. Il vero problema culturale direi: perché se adottassimo regole simili, gli italiani sarebbero i migliori lavoratori del mondo, come lo sono quando lavorano in America e in Germania. Invece, da noi, sono un po’ come la fidanzata che, una volta sposata, perde tutte le qualità.
D. Lei di leader politici ne ha conosciuti tanti, com’è Renzi rispetto ai predecessori?
R. Certamente più moderno, più contemporaneo: ha grandi possibilità, per questo va aiutato a evitare certi errori.
D. Lei ha conosciuto anche Massimo D’Alema. Si disse che fosse stato lei il regista della sua clamorosa visita in Fininvest.
R. No, fece tutto Silvio Berlusconi. D’Alema l’ho conosciuto meglio dopo, nei miei anni in Enel: un uomo di cui ho grande stima.
D. E un’ altra persona che ha visto da vicino, in questi anni, è stato il Cavaliere. Da manager, in Fininvest, lei gli ha tolto qualche castagna dal fuoco ma poi, quando presiedeva Enel, nel 2002, non la riconfermò. Che cosa pensa della sua vicenda attuale?
R. Mi pare un capitolo concluso: il carattere dell’uomo è indomabile, ma farebbe bene a concentrarsi su una soluzione nobile per la sua uscita dalla scena politica.
D. Una exit strategy. Al Patto del Nazareno, lei ci crede?
R. Non si sa bene in cosa consista. Però questo sostegno a Renzi è un po’ il colpo di coda di Berlusconi, nel senso che ha mostrato, anche in questo, di avere una marcia in più di quello che pensavano i suoi avversari. Accettare un leader giovane, pensando che sia l’uomo giusto per i cambiamenti che lui non ha fatto: se vuole, mostra anche un tratto di quella generosità che gli è sempre appartenuta.
D. Lei si è occupato molto di energia e di cultura: asset strategici di questo Paese ancora oggi. Come li vede?
R. Sull’energia la situazione è pericolosa: questo Paese deve avere un piano energetico, essenziale al suo funzionamento. Un piano di prospettiva almeno ventennale, che riduca la forte dipendenza dall’Estero.
D. Dipendiamo molto, invece.
R. E da Paesi poco stabili, come l’Ucraina o la Libia. Io poi, sa, sono un nuclearista convinto: se avessimo sviluppato quell’energia avremmo avuto benefici ambientali, economici ma anche culturali, perché richiede personale qualificatissimo. Dicemmo di no per il terrorismo ambientalista e, ancora oggi, in bolletta, paghiamo i costi di smantellamento delle centrali nucleari.
D. Paghiamo anche gli incentivi al fotovoltaico.
R. Le energie rinnovabili sono importanti ma più importante è non essere dipendenti da chi, un giorno, può decidere di chiuderti i tubi del gas. E d’altra parte, noi, ci rifiutiamo di costruire i rigassificatori, preferendo rimanere attaccati a quegli stessi tubi.
D. I nimby, not in my back yard, «non nel mio giardino», dilagano...
R. Sbagliatissimo. Mi dispiace per il M5s, ma siamo condizionati da minoranze arretrate e scatenate su tutto, che si oppongono a qualsiasi progresso. Ma le pare che oggi il wifi non funzioni bene, in molte zone, quando in Turchia ce l’hanno persino sugli autobus?
D. La cultura, adesso. Prima in Mondadori, poi in Treccani, è stata tanta parte della sua vita professionale.
R. La cultura è l’espressione anche artistica di un periodo, dà conto di come un popolo reagisce alle condizioni in cui si trova, di come le rappresenta, di come le vive, di come lascia un segno.
D. E noi?
R. Il nostro è un periodo triste, di lamentele, vogliamo le sovvenzioni.
D. Come uscirne?
R. Il ministro Dario Franceschini ha cominciato a fare un primo importante passo ma non basterà, finché non si arriverà a una vera defiscalizzazione dei contributi e al passaggio della gestione a strutture, anche a scopo di lucro, che sappiano produrre eventi vitali, capaci di coinvolgere tutto il pubblico e non solo nicchie.
D. Invece noi siamo, o meglio eravamo fino a poche settimane fa, al Teatro Valle occupato...
R. Infatti, oltre alla riforma Franceschini, uno dei segnali di speranza è stato il licenziamento in tronco dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 16/10/2014