Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 16/10/2014, 16 ottobre 2014
BARROSO È STATO UN SIGNOR NESSUNO: LA SUA OPPOSIZIONE ALLA MANOVRA DI RENZI VA SALUTATA COME UN BUON SEGNO
Appena il premier Matteo Renzi ha annunciato una manovra di bilancio espansiva, che riduce le imposte per 18 miliardi e ne spende 11,5 in deficit per rilanciare l’economia, il primo a mettersi di traverso in Europa è stato il portoghese José Manuel Barroso, presidente uscente della Commissione europea. Fonti bene informate dicono che tra lui e Renzi ci sia stata una telefonata burrascosa, in cui Barroso ha minacciato di bocciare la Legge di stabilità dell’Italia, come ultimo suo atto prima di passare la mano, il primo novembre, a Jean-Claude Juncker. Sembra che Renzi, a parte lo stupore per i toni insolitamente duri di Barroso, non se ne sia preoccupato più di tanto: da mesi va dicendo che in Europa chi fa le riforme ha diritto a una flessibilità maggiore rispetto ai parametri dei trattati, e con la Legge di stabilità ha deciso di tenere il punto. Un primo passo concreto per chiedere alla nuova Commissione Ue, appena si sarà insediata, di rivedere quelle clausole dei trattati (Maastricht e Fiscal Compact) che, in base all’esperienza degli ultimi anni, hanno dimostrato essere sbagliate.
Se questa battaglia potrà concludersi con una vittoria di Renzi e dei Paesi che, come l’Italia, vogliono porre fine a un’austerità fine a se stessa (eloquenti in proposito le prime dichiarazioni della nuova ambasciatrice francese a Roma, Catherine Colonna: «Basta con la dittatura del 3%»)), nessuno può dirlo ora. Di certo, l’uscita di scena di Barroso facilita l’impresa: con lui se ne va il campione numero uno del «cretinismo europeo» di cui ho scritto ieri, e nessuno in Europa lo rimpiangerà. Volendo riassumere la mancanza di carisma che ne ha caratterizzato i due mandati al vertice della Commissione Ue, per un totale di dieci anni (2004-14), nulla sembra più appropriato della celebre battuta con cui Fortebraccio, corsivista dell’Unità, fulminò negli anni Ottanta l’allora segretario del Psdi: «Si aprì la porta e non entrò nessuno: era Antonio Cariglia». Ora, dalla porta della Commissione Ue sta per uscire un altro signor Nessuno: è Barroso. Guarda caso, pure lui socialdemocratico. Ma di quelli malleabili, pronti a fare proprie le idee degli avversari: tanto che il Ppe, pur avendo vinto nel 2009 le elezioni europee, lo confermò al vertice della Commissione Ue, come se fosse uno dei suoi.
Nelle interviste di congedo, Barroso ha ricordato di sentirsi «un sopravvissuto» alle tempeste che hanno scosso l’Europa: i «no» della Francia e dell’Olanda nei referendum del 2005 sulla Costituzione europea; la crisi dei debiti sovrani del 2008, soprattutto quelle della Grecia e del Portogallo, anche se non erano gli unici Paesi nei guai. «Anche l’Italia era sull’orlo dell’abisso» ha detto Barroso al Corriere della sera. Ma grazie a lui, al suo lavoro di «presidente-pompiere», il peggio è stato evitato, e l’Europa ha potuto darsi «una nuova architettura di governance». Penose bugie che, senza riuscirci, cercano di nascondere un decennio di errori e di fallimenti clamorosi.
Certo, sarebbe ingeneroso addebitare a Barroso i «no» di Francia e Olanda alla nuova Costituzione europea del 2005: lui era diventato presidente Ue appena un anno prima, e quei no non riguardavano la sua persona, bensì un testo costituzionale di sterminata lunghezza e complessità, scritto a più mani (per l’Italia vi presero parte Giuliano Amato e Gianfranco Fini), che risultava incomprensibile perfino ai giuristi più esperti. Ma che Barroso si intesti come un successo «la nuova architettura della governance europea», è una balla colossale. Basta rileggere l’ultimo libro di Martin Schulz, presidente del parlamento europeo («Il gigante incatenato»; Fazi Editore), dove si racconta come la cancelliera Angela Markel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, per fare fronte alla crisi del 2008, decisero di bypassare con l’asse franco-tedesco i troppi centri finto-decisionali dell’Unione europea. Un asse che ha esautorato più di tutti proprio la Commissione Ue e il suo presidente Barroso, che da allora ha fatto solo da comparsa nei vertici,.
Quanto alla Grecia, l’irrilevanza del ruolo di Barroso e della Commissione Ue nella vicenda è ben raccontato da Veronica De Romanis in un libro («Il caso Germania»; Marsilio) che racconta, oltre ai meriti, anche i numerosi errori della Merkel. Tra questi, la convinzione iniziale che il caso Grecia si potesse risolvere con la «teoria della catena»: i Paesi europei sono come gli anelli di una catena, con in cima gli anelli più forti, in coda quelli più deboli. Se si rompe e si toglie l’anello più debole, che sta in fondo, la catena diventa più forte. Era la teoria di Berlino quando sembrava che la Grecia dovesse uscire dall’euro. Poi nel 2012, la Merkel si convertì alla «teoria del domino»: se cade un paese, i mercati si chiedono chi sarà il prossimo, e via via faranno cadere tutti. Dunque, niente più uscita della Grecia dall’euro. Risultato: quattro anni persi perché Berlino ( e non Barroso) decidesse come salvare la Grecia, con costi sociali pazzeschi.
Parlando del suo futuro, Barroso ha detto che terrà molte conferenze, ma non farà più politica in Europa. Almeno in questo, speriamo che sia un uomo di parola.
Tino Oldani, ItaliaOggi 16/10/2014