Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 16/10/2014, 16 ottobre 2014
IL CAOS DELLE VENTI PROTEZIONI CIVILI (UNA PER REGIONE) CHE PARLANO LINGUE DIVERSE E RICORRONO POCO ALLA TECNOLOGIA
«Il sistema ha funzionato, ma non abbiamo il potere di far smettere di piovere. Né possiamo chiudere mille chilometri di strade: servirebbe l’esercito», si sfoga Antonino Melara, capo della Protezione Civile in Toscana. Ogni alluvione una polemica: la domanda di sicurezza cresce e l’offerta di protezione civile non riesce a soddisfarla, generando inquietudine.
La Protezione Civile è un’organizzazione complessa: al governo spettano linee guida generali, emanate nel 2004. Alle Regioni la gestione. A distanza di dieci anni, quattro Regioni (Friuli Venezia Giulia, Basilicata, Sicilia e Sardegna) non si sono ancora adeguate. Il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli l’ha denunciato alla magistratura. Da tempo Gabrielli chiede anche di uniformare i meccanismi. Invano: ogni Regione si organizza autonomamente. Così abbiamo venti sistemi diversi.
Questo produce effetti paradossali. Facciamo l’esempio di un automobilista. Accende la radio a Sarzana e sente che la Protezione Civile ha emanato l’allerta 1. Qualche minuto dopo, a Carrara, stesso messaggio. Egli non può sapere che Liguria e Toscana hanno nomenclature diverse. In Liguria la numerazione (1 o 2) indica la gravità del rischio; in Toscana, lo stesso concetto si esprime con gli aggettivi (allerta moderata o elevata) mentre il numero segnala la distanza temporale dell’evento (12 o 24 ore). Una Babele, tanto che la Toscana sta per cambiare, introducendo un codice cromatico del rischio (giallo, arancione, rosso) più immediato e diffuso in Europa.
Torniamo all’ignaro automobilista in una zona a rischio alluvione. Ora a vegliare sulla sua sicurezza c’è la struttura operativa. Il consorzio meteo fornisce le previsione alla Regione, che elabora gli avvisi di allerta e li comunica alla sala operativa della protezione civile, che avvisa le Province, che avvisano i Comuni, che avvisano volontari e corpi di pronto intervento. Tutto via fax, ma con una reperibilità telefonica per evitare casi come quelli in Sardegna nel 2008 (un funzionario a fine turno lasciò l’ufficio senza attendere la conferma di ricezione del fax di allerta, l’indomani ci furono quattro morti) e nel 2013 (fax inviato nel pomeriggio di domenica, a municipi chiusi, cui seguirono diciassette morti).
Se tutto ha funzionato, la palla passa al sindaco. A lui spetta prendere le decisioni operative e comunicarle ai cittadini. Le decisioni si prendono sulla base dei piani obbligatori per legge. Secondo Legambiente, l’84% dei Comuni dispone di un piano, ma solo il 54% l’ha aggiornato. E solo un Comune su tre informa i cittadini sui rischi o svolge esercitazioni. «Avere piani vecchi e non conosciuti equivale a non averli», spiega Francesca Ottaviani, responsabile Protezione Civile dell’associazione.
Quanto alla comunicazione ai cittadini, siamo al fai-da-te. Il sistema più moderno sarebbe un’applicazione per smartphone, unica a livello nazionale, in grado di avvisare dei rischi nel territorio in cui ci si trova. Ma nessuno ha la competenza per svilupparla e gestirla. Nell’attesa, qualche Comune si organizza. Orbetello ha limitato i danni contattando i cittadini con sms. A Parma il sindaco Pizzarotti ha usato twitter. Secondo Paolo Masetti, responsabile dell’Anci per la Protezione Civile, «la tecnologia è ancora poco utilizzata. Un buon sistema non serve a nulla, se non diventa operativo ed efficace. È come un puzzle a cui manca un tassello».
L’ultimo anello sono i cittadini. I comportamenti. Qui siamo all’anno zero. Come dimostra un video amatoriale girato giovedì a Genova. Mentre il Bisagno esonda, un uomo sale sullo scooter per spostarlo. Pochi secondi e sarebbe stato travolto, non c’è allerta che avrebbe potuto evitarlo. «L’errore - spiega Franco Siccardi, presidente della fondazione Cima che guida progetti di protezione civile anche all’estero - è alimentare una concezione salvifica dell’autorità. La protezione civile non è tanto questione di opere o allerta, quanto un fatto sociale. La cultura è la cosa più economica, ma anche la più difficile».
Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 16/10/2014